Stefania Pallotta
Spunti di riflessione in
materia di danno ambientale da una recente sentenza del Tribunale di Venezia
Indice:
1. La decisione del Tribunale di Venezia n. 975 del 12 febbraio 2003. – 2. Il danno ambientale tra diritto positivo e interpretazione giurisprudenziale. - 3. Peculiarità della responsabilità per danno ambientale nella cornice dell’illecito aquiliano. - 4. Applicabilità del concetto di danno ambientale al reato di rimozione o omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro previsto dall’art. 437 c.p. - 5. I soggetti legittimati ad agire: in particolare, il risarcimento del danno ambientale agli enti territoriali minori. - 6. Il problema della quantificazione del danno ambientale: il ripristino, il risarcimento per equivalente e la valutazione equitativa del giudice. – 7. Considerazioni conclusive
1.
La decisione del Tribunale di
Venezia n. 975 del 12 febbraio 2003
Durante
un temporale viene meno la tensione agli strumenti elettronici di controllo
degli impianti di uno stabilimento industriale. Il sistema automatico di
emergenza, destinato a garantire la trasformazione dell’ammoniaca nei suoi
innocui prodotti di combustione, non funziona. Ciò determina l’emissione in
atmosfera di circa mezza tonnellata di gas tossico, con conseguente malessere
per gli abitanti della zona.
Con
la sentenza che si segnala, il Tribunale di Venezia condanna gli imputati per il
reato di rimozione od omissione dolosa di cautele contro disastri o infortuni
sul lavoro previsto dall’art. 437 c.p., con l’applicazione della circostanza
aggravante di cui al 2° comma dello stesso articolo. Il giudice di Venezia
dispone altresì il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. e del danno
ambientale ai sensi dell’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349.
La
decisione appare di particolare interesse, soprattutto perché riconosce agli
enti territoriali diversi dallo Stato la titolarità iure proprio dell’azione
di risarcimento del danno ambientale.
Prima
di analizzare questa specifica questione, si rende opportuno ricostruire nei
suoi tratti essenziali la tematica del danno ambientale.
2. Il danno
ambientale tra diritto positivo e interpretazione giurisprudenziale
L’art.18
della legge 8 luglio 1986, n. 349 ha introdotto nell’ordinamento giuridico
italiano il risarcimento del danno ambientale, identificandolo come la
“compromissione” dell’ambiente cagionata da “qualunque fatto doloso o
colposo in violazione di disposizioni di legge o provvedimenti adottati in base
a legge”.
In
realtà, il concetto di danno ambientale non era sconosciuto al nostro sistema
giuridico al tempo dell’entrata in vigore della legge istitutiva del Ministero
dell’Ambiente. Anche il danno ambientale, infatti, non sfugge a quella genesi
pretoria che ha caratterizzato i principali istituti di diritto ambientale: sin
dagli anni ’70 il giudice contabile[1]
aveva ricondotto il danno ambientale alla nozione di danno erariale, con
conseguente competenza decisoria della Corte dei Conti stessa.
Al
legislatore italiano va riconosciuto il merito della creazione di una
particolare fattispecie di responsabilità civile, affidata alla giurisdizione
del giudice ordinario, a protezione di un interesse della collettività. La
formulazione dell’art. 18 ha peraltro posto molteplici problemi interpretativi
e applicativi, alcuni dei quali ancora aperti.
In
primo luogo, dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sul fondamento
giuridico della risarcibilità del danno all’ambiente. Con la celebre sentenza
n. 9211/1995[2]
la Corte di Cassazione ha riconosciuto all’art.18 la limitata funzione di
norma dedicata alla mera individuazione dei soggetti legittimati all’esercizio
dell’azione risarcitoria, identificando nella Costituzione la fonte genetica
di tutela del diritto all’ambiente. In altre parole, la configurazione
dell’ambiente come bene giuridico troverebbe il suo fondamento non già nella
norma espressa della legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente, quanto
piuttosto nella Costituzione, considerata come diritto vivente, attraverso il
combinato disposto degli artt. 2, 3, 9, 41 e 42 Cost. e tramite il collegamento
all’art. 2043 del codice civile. Questa impostazione ha il pregio di garantire
al giudice la possibilità di riconoscere sussistente la responsabilità per
danno ambientale a prescindere dalla violazione di una norma espressamente
dettata a tutela dell’ambiente e già vigente al tempo della commissione del
fatto.
Sul
piano processuale il 2° comma dell’art. 18 della legge 349/86 stabilisce che
il danno ambientale rientri nella competenza del giudice ordinario. In questo
modo è esclusa la giurisdizione della Corte dei Conti, salvo il caso
dell’art. 22 D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, rappresentato dal giudizio di
rivalsa per le ipotesi nelle quali l’Amministrazione, a seguito di lesioni di
diritti del terzo provocate dal proprio dipendente in connessione con un danno
ambientale, abbia provveduto a risarcire detto terzo. La norma, pertanto,
prevede la giurisdizione giudice ordinario a prescindere dalla qualifica
soggettiva dell’autore del fatto illecito, escludendo la giurisdizione della
Corte dei Conti anche in caso di danno cagionato da pubblico amministratore o
dipendente, salvo il residuo ambito di giurisdizione del citato art. 22 del
D.P.R. 3/1957.
Soprattutto
all’indomani dell’entrata in vigore della legge 349/86, questa scelta del
legislatore non aveva mancato di suscitare diverse perplessità. In particolare,
la dottrina lamentava che l’esclusione della giurisdizione della Corte dei
Conti comportasse una sostanziale riduzione della tutela rispetto a quella
offerta in precedenza dal giudice contabile per il venir meno dell’azione ex
officio del Procuratore generale della Corte dei Conti. Inoltre, questa
soluzione era stata considerata anche dubbia sotto il profilo della legittimità
costituzionale: si osservava, infatti, che l’attribuzione della giurisdizione
in materia di danno ambientale all’autorità giudiziaria ordinaria anche nel
caso di danno cagionato da pubblico amministratore o dipendente costituisse una
violazione della riserva assoluta di giurisdizione della Corte dei Conti
prevista dall’art.103, 2° comma della Costituzione.
La
Corte Costituzionale, tuttavia, è intervenuta sul punto, escludendo che
l’art. 103, 2° comma della Costituzione attribuisca alla Corte dei Conti una
riserva assoluta di giurisdizione, tanto più con riguardo a una fattispecie
dove non si ha una perdita di tipo strettamente finanziario per la pubblica
amministrazione.[3]
D’altra parte, sul piano pratico l’individuazione del giudice ordinario come
organo giudiziario competente agevola, anziché ostacolare, l’esercizio
dell’azione di risarcimento. La giurisdizione del giudice ordinario sulla
materia del danno ambientale, infatti, offre la garanzia di una presenza diffusa
dell’autorità giudiziaria su tutto il territorio e determina il venir meno di
tutte le limitazioni soggettive per la risarcibilità del danno erariale (ossia
che si tratti di un danno cagionato dai pubblici dipendenti nell’esercizio
delle loro funzioni).
3.
Peculiarità della responsabilità per danno ambientale nella cornice
dell’illecito aquiliano
L’art.18
della legge n. 349/1986 ha introdotto una fattispecie di responsabilità
extracontrattuale per danno all’ambiente sul modello privatistico dell’art.
2043 del codice civile.[4]
La
responsabilità per danno ambientale assume però connotati speciali, che
impediscono di considerarla un mero doppione dello schema offerto dall’art.
2043 del codice civile. L’ipotesi prevista dall’art. 18 si differenzia dalla
generale fattispecie dell’illecito civile sotto diversi profili.
In
primo luogo, mentre l’art. 2043 c.c. prevede un illecito atipico consistente
nella mera violazione del generico obbligo del neminem laedere, l’art.
18 della l. 349/86 opta per un illecito tipico, rappresentato dal compimento di
un fatto “in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati
in base a legge”. La tipicità dell’illecito ambientale risponde ad una
precisa scelta di politica del diritto e dell’economia, che conduce alla
distinzione tra il cd. danno ambientale ammissibile (compatibile con i
concorrenti interessi connessi allo sviluppo economico-industriale o
urbanistico) e le modificazioni dell’assetto ecologico vietate che, come tali,
integrano illecito ambientale. Pertanto, la responsabilità per danno ambientale
non va ravvisata in qualsiasi lesione del bene ambiente, ma ricollegata a
specifici fatti di volta in volta identificati dai legislatori nazionali.[5]
Altro
profilo di differenziazione della responsabilità per illecito ambientale nel genus
della responsabilità aquiliana concerne i poteri di liquidazione equitativa
attribuiti al giudice: mentre l’art. 2056 c.c. rinvia agli ampi poteri di
valutazione equitativa del danno previsti in tema di obbligazioni dall’art.
1226 c.c., l’art. 18, 6° co. limita la discrezionalità del giudice mediante
l’imposizione di specifici criteri di valutazione che, evocando canoni di tipo
penalistico (l’intensità della colpa, il profitto economico conseguito dal
trasgressore...), sembrano sottolineare un funzione tipicamente sanzionatoria
del risarcimento del danno.[6]
Un’ulteriore
distinzione tra il modello di responsabilità previsto dall’art. 18 e quello
contemplato dall’art. 2043 c.c. riguarda il risarcimento in forma specifica:
in base all’art. 18, 8° comma il giudice dispone con sentenza di condanna il
ripristino dello stato luoghi, con il solo limite che questo sia materialmente
possibile; l’art. 2058, 2° comma c.c. subordina la misura del rimessione in
pristino all’ulteriore presupposto della non eccessiva onerosità per
l’obbligato.
In
definitiva, la responsabilità per danno ambientale presenta senz’altro un
carattere di specialità rispetto al modello di riferimento della responsabilità
per fatto illecito. Con la peculiarità che, a differenza di quanto generalmente
avviene, non è il fatto produttivo del danno a richiedere regole specifiche (si
pensi, ad esempio, alla responsabilità del produttore o dell’esercente un
impianto nucleare), ma proprio la particolare natura del bene ambiente oggetto
della lesione.
4. Applicabilità del concetto di danno ambientale al reato di rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro previsto dall’art. 437 c.p.
La
sentenza annotata riconosce alle parti civili il risarcimento del danno
ambientale derivante da una condotta che integra il reato di rimozione od
omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, respingendo la
dedotta inapplicabilità della speciale normativa in tema di danno ambientale al
fatto descritto nel capo di imputazione.
Il
reato previsto dall’art. 437 c.p. risulta caratterizzato da una condotta,
attiva (la rimozione di impianti) od omissiva (la mancata predisposizione degli
stessi), potenzialmente idonea a creare una situazione di pericolo per le
condizioni di vita, l’integrità e la sicurezza di una serie indeterminata di
persone. Il delitto è inserito nel titolo relativo ai reati contro
l’incolumità pubblica, intesa come il complesso di condizioni che
garantiscono la vita e l’integrità fisica della collettività. Dottrina e
giurisprudenza concordano nel ritenere che si tratti di un reato di pericolo
presunto, nel senso che il legislatore non inserisce il pericolo tra i requisiti
espliciti della fattispecie incriminatrice, ma si limita a tipizzare una
condotta alla quale generalmente si accompagna l’insorgere di un pericolo in
base ad una regola di comune esperienza.
Partendo
da due dati paralleli, cioè l’ampia nozione di danno ambientale introdotta
dall’art. 18 della legge 349/1986 e il concetto di ambiente come bene
immateriale unitario elaborato dalla giurisprudenza costituzionale,[7]
il Tribunale Ordinario di Venezia ritiene che l’alterazione delle condizioni
di equilibrio atmosferico e delle condizioni di salute di un numero
indeterminato e interminabile di abitanti di un determinato contesto
territoriale, verificatasi in conseguenza dei fatti contestati, sia pienamente
riconducibile alla nozione di danno ambientale. Nella lettura del Tribunale
l’evento “ha senz’altro prodotto un’alterazione dell’integrità
dell’ambiente suscettibile di essere valutata sia sotto il profilo
dell’ordinaria azione risarcitoria che sotto il profilo della speciale azione
ex art. 18 della legge 349/1986”.
La
fattispecie prevista dall’art. 18 ricorre in tutti i suoi elementi
costitutivi: la condotta in violazione di disposizione di legge e la
compromissione del bene “ambiente”. L’obbligo giuridico istituito
dall’art. 437 c.p., ossia l’adozione di cautele (impianti, apparecchi o
segnali) contro gli infortuni sul lavoro, trova la sua fonte nella specifica
legislazione antinfortunistica e nella generale disposizione di cui all’art.
2087 del codice civile. E’ appena il caso di ricordare che l’art. 18, nel
disegnare la fisionomia di un illecito tipico, richiede semplicemente che il
fatto sia realizzato in violazione di disposizioni di legge e non già che la
condotta sia in contrasto con specifiche leggi poste a salvaguardia
dell’ambiente.
La
violazione delle norme di sicurezza ha determinato la dispersione nell’aria di
ammoniaca incombusta, con conseguente alterazione dell’equilibrio ambientale e
delle condizioni di salute per la popolazione del luogo, cioè con lesione del
bene ambiente unitariamente inteso.
La
sentenza commentata si colloca nel solco di tutte le pronunce della
giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, che riferiscono la nozione di
ambiente non ai soli aspetti naturalistici, ma anche alle condizioni in cui
l’uomo vive ed opera e che riconducono, quindi, il concetto di danno
ambientale anche ad offese alla persona umana nella sua dimensione individuale e
sociale.[8]
Sulla base di questa premessa, il giudice di Venezia trae la conclusione che la
condotta omissiva della mancata adozione delle cautele destinate a prevenire i
disastri o gli infortuni sul lavoro abbia prodotto un’alterazione
dell’integrità dell’ambiente suscettibile di essere risarcita anche ai
sensi dell’art. 18 della legge 349/1986.
5.
I soggetti legittimati ad agire: in particolare, il risarcimento del danno
ambientale agli enti territoriali minori
Come
anticipato in premessa, un aspetto di particolare interesse della sentenza in
esame riguarda la questione della legittimazione degli enti locali ad agire per
ottenere il risarcimento del danno ambientale.[9]
La sentenza n. 975 del 12 febbraio 2003 identifica gli enti territoriali diversi
dallo Stato come destinatari di un autonomo diritto al risarcimento del danno
ambientale.
Dottrina
e giurisprudenza hanno discusso a lungo sul significato e la portata della
legittimazione all’esercizio dell’azione prevista dall’art. 18 per i cd.
enti territoriali minori. I dubbi sono sorti per l’apparente discrasia dei
commi 1° e 3° dell’art.18: mentre il 1° comma individua il solo Stato quale
destinatario del risarcimento da parte dell’autore del fatto illecito, il 3°
comma del medesimo articolo attribuisce sia allo Stato che agli altri enti
territoriali la legittimazione all’esercizio dell’azione di risarcimento del
danno ambientale.
Il
dato normativo, dunque, legittima due letture, entrambe compatibili con il
tenore letterale dell’art.18: sia una interpretazione che individua nello
Stato l’unico titolare del diritto al risarcimento del danno con una
legittimazione soltanto alternativa degli enti territoriali, sia una
ricostruzione che considera Regione ed enti locali titolari di un’autonoma
potestà di ottenere un risarcimento con una legittimazione concorrente rispetto
a quella dello Stato.
Invero,
non sono mancate pronunce giurisprudenziali che hanno individuato nello Stato
l’unico beneficiario del risarcimento del danno ambientale.[10]
In questa prospettiva il disposto del 3° comma dell’art.18 si spiegherebbe
nel senso di una legittimazione degli enti territoriali meramente alternativa
rispetto a quella dello Stato, nel senso che l’ente locale sarebbe mero
sostituto processuale dello Stato ed agirebbe per ottenere un risarcimento in
realtà spettante allo Stato in via esclusiva.
In
seno a questo orientamento si segnalano alcune sentenze che operano una
singolare distinzione tra l’azione di risarcimento del danno ambientale in
senso stretto e una mera azione di recupero delle spese sostenute in relazione
alle effettive opere di riassetto territoriale concretamente realizzate: la
titolarità della pretesa risarcitoria per la lesione del bene immateriale
ambiente spetterebbe allo Stato in ragione dell’imputazione allo stesso
dell’interesse pubblico alla salvaguardia dell’ambiente, mentre gli enti
territoriali avrebbero la facoltà di azionare la mera azione di recupero spese
per le opere di ripristino.[11]
Sussiste,
tuttavia, una posizione giurisprudenziale[12]
di segno contrario, alla quale aderisce anche la sentenza in esame. Secondo
quest’orientamento la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno
spetta allo Stato in via primaria, ma non esclusiva, poiché la natura adespota
del bene ambientale non consente che la titolarità di un tale bene sia riferita
in via esclusiva allo Stato. D’altronde, se lo Stato fosse titolare di un
diritto soggettivo pubblico sul bene ambiente, sarebbe arduo comprendere
l’attribuzione agli enti locali della legittimazione all’esercizio
dell’azione risarcitoria prevista dal medesimo art. 18 della l.349/1986. La
ragione di una simile previsione legislativa, invece, deriva dl rilievo che sia
lo Stato che gli enti territoriali sono gli enti esponenziali della collettività,
chiamati dal legislatore ad esercitare una funzione di tutela del bene ambiente.
In
questo filone interpretativo si colloca anche la decisione n. 975 del Tribunale
Ordinario di Venezia, che accoglie la tesi secondo cui le due legittimazioni ad
agire sono concorrenti,
identificando una legittimazione degli enti territoriali minori ad agire iure proprio in via autonoma e separata rispetto a quella dello
Stato stesso,[13] con l’ovvia limitazione
dell’ambito territoriale di competenza. Più specificamente, nella sentenza
citata si ribadisce che tale legittimazione concorrente con quella statale è
fondata sulla considerazione che “il danno ambientale incide su un determinato
contesto territoriale e il territorio è elemento costitutivo di tali enti.”
[14]
Tra
l’altro, bisogna considerare che, se si riservasse al solo Stato il diritto al
risarcimento, l’ente territoriale minore sarebbe fortemente disincentivato a
promuovere l’azione risarcitoria, almeno nei casi in cui non apparisse prima
facie possibile il ripristino dello stato dei luoghi a spese del
responsabile, con grave pregiudizio inferto al funzionamento del meccanismo
sanzionatorio della responsabilità per danno ambientale.
6.
Il problema della quantificazione del danno ambientale: il ripristino, il
risarcimento per equivalente e la valutazione equitativa del giudice
L’art.
18 dedica due regole specifiche al complesso problema della quantificazione del
risarcimento: una norma che impone al giudice di disporre il ripristino dello
stato dei luoghi nei casi in cui ciò sia possibile (8° comma); una
disposizione che prevede, nel caso in cui non si possa procedere ad una precisa
quantificazione del danno, una serie di criteri per pervenire alla sua
valutazione equitativa: la gravità della colpa individuale, il costo necessario
per il ripristino e il profitto economico conseguito dal trasgressore (6°
comma).[15]
Il
Tribunale di Venezia ha condannato gli imputati alla compensazione pecuniaria
del danno, liquidandolo secondo equità con l’ausilio dei parametri elencati
dall’art. 18, 6° comma.[16]
Invero,
il risarcimento per equivalente del danno ambientale, ovvero di una lesione che
per sua stessa natura non ha un prezzo di mercato, impone l’arduo compito di
quantificare in termini monetari l’ammontare del danno[17].
In effetti, l’individuazione preventiva di criteri precisi di quantificazione
del danno costituisce una condizione indispensabile affinché la connessa
responsabilità eserciti una reale funzione preventiva: soltanto conoscendo in
anticipo i costi del risarcimento, si è incentivati ad evitare una determinata
condotta o comunque a realizzarla con l’osservanza delle opportune cautele.
Purtroppo, i parametri forniti dall’art.18, 6° comma non hanno dato buona
prova sul piano dell’applicazione giurisprudenziale: il ridotto numero di
sentenze in cui tali criteri hanno trovato concreta utilizzazione conferma come
essi si rivelino spesso insufficienti a determinare le voci di danno, non
fornendo aiuto ai fini della individuazione del lucro cessante e del danno
emergente in materia ambientale[18].
Sulla
base di queste premesse, si comprende l'importanza della decisione del Tribunale
di Venezia, che contiene una puntuale rassegna dei singoli parametri
identificati dal legislatore ai fini della valutazione equitativa del danno
ambientale.
Con
la sentenza in esame il Tribunale di Venezia si è distinto per aver preso in
adeguata considerazione tutti i criteri di quantificazione del danno indicati
dall’art. 18, 6° comma, senza cristallizzarsi sul parametro del ripristino
dello stato dei luoghi, che non risulta particolarmente utile in casi, come
quello in oggetto, in cui si verifica un’alterazione temporanea
dell’ambiente destinata a risolversi per effetto dei naturali processi di
autoriparazione. Ad ogni modo, sotto il profilo della spesa per la rimozione
diretta del danno[19],
il giudice ha tenuto anche conto della stima dei costi dell’acqua usata per
diluire la concentrazione di ammoniaca a seguito dell’incidente, dal momento
che la tossicità del gas in questione varia in base alla durata
dell’esposizione e ai valori di concentrazione. Per quanto concerne il
profitto conseguito dal trasgressore, il giudice ha valutato i costi risparmiati
dall’azienda. Il profitto indebito è stato identificato sia nel risparmio
derivante dal mancato adeguamento degli impianti alle normative di sicurezza,
sia nel costo non sostenuto per un’adeguata formazione del personale, che
sarebbe stata necessaria in presenza di una ristrutturazione degli impianti
stessi.
7.
Considerazioni conclusive
Da
questa breve analisi emerge come spesso siano invocati mezzi più incisivi per
la tutela dell’ambiente, mentre - a ben guardare - non sono pienamente
sfruttate le potenzialità operative degli strumenti già forniti dal
legislatore.
La
troppo frequente inerzia degli enti locali a promuovere la richiesta di
risarcimento del danno ambientale, la difficoltà dei giudici di quantificare i
danni risarcibili, le discussioni accademiche sull’individuazione dei
legittimati all’esercizio dell’azione risarcitoria hanno finito con il
rappresentare il fertile humus per una proliferazione di piccoli e grandi
fenomeni di danno ambientale, favoriti da un nebuloso clima di incertezza, se
non addirittura improbabilità, del risarcimento effettivo dei danni cagionati.
Se
è vero che una logica di prevenzione del danno è lo strumento privilegiato per
garantire un’adeguata tutela dell’ecosistema di fronte a danni spesso
irreversibili, è anche innegabile che solo in un ordinamento dove chi inquina
effettivamente è chiamato a rispondere delle conseguenze del fatto lesivo è
ipotizzabile una reale efficacia deterrente degli istituti giuridici previsti
dalla legge.
[1] Tra le numerose pronunce della Corte dei Conti in materia di danno ambientale, cfr. Corte dei Conti, sez. II, 30 aprile 1985, in Riv. Corte dei Conti, 1985, p. 126.
[2] Cass., sez. I, 1 settembre 1995, n. 9211, in Corr. Giur., 1995, 10, 1146. Cfr. anche Tribunale Milano, 17 novembre 1988, in Riv. giur. amb., 1990, p. 314.
[3] C.C., 30 dicembre 1987, n. 641, che si può leggere, tra l’altro, in Foro Italiano, 1988, I, p. 694.
[4] per tutti C.C. 30 dicembre 1987, n. 641, già cit.
[6] La C.C. con la già citata sentenza 641/1987 ha assegnato all’art. 18 una funzione punitiva accanto alla riconosciuta esigenza riparatoria, anche se non sono mancate pronunce dei giudici di merito che hanno negato che la responsabilità per danno ambientale rivesta un profilo sanzionatorio (ad esempio, Pretura Milano-Rho, 29 giugno 1989, in Foro It., 1990, II, p. 526).
[7] per tutti C.C. 30 dicembre 1987, n. 641, più volte citata.
[9] Per le associazioni ambientaliste il Tribunale di Venezia, pur riconoscendo il danno ex art. 2043, ha escluso la legittimazione a costituirsi parte civile in relazione all’azione prevista dall’art. 18. Ad opinione di chi scrive, è singolare che il giudice rinvenga nella previsione normativa dell’art. 4 della l. 3 agosto 1999 n. 265 un argomento a favore dell’esclusione della legittimazione iure proprio per le associazioni cd. ambientaliste, sul presupposto che la norma determinerebbe una legittimazione meramente alternativa rispetto agli enti locali. La citata disposizione, infatti, senza incidere sulla legittimazione concorrente delle associazioni a tutela dell'ambiente, prevede che queste possano addirittura proporre le azioni di risarcimento spettanti a Comune e Provincia in caso di inerzia di questi ultimi.
[11]
TAR Veneto, sez. II, 25 gennaio 1993, n. 30, in Riv. Giur.
Amb., 1993, p. 931.
[12] Cass. Pen., 24 gennaio 1989, in Cass. pen., 1989, 2050; Cass. Civ., 17 gennaio 1991, n. 400, in Giust. Civ., 1991, p. 1190.
[13] Tra le Corti di merito che hanno riconosciuto agli enti territoriali la titolarità iure proprio dell’azione di risarcimento ex art.18 l. 349/86: Pret. Rovigo, 4 dicembre 1989, in Foro Italiano, 1990, II, p. 517.
[14]
In tal senso anche il giudice di legittimità, per tutte Cass. pen.,
sez. III, 13 novembre 1992, in Riv. Giur.
Amb. 1993, p. 275.
[15] Nell’esposizione abbiamo invertito l’ordine numerico dei commi 6° e 8° dell’art. 18, perché l’opinione prevalente considera il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile come rimedio prioritario rispetto allo strumento del risarcimento per equivalente, in quanto misura che meglio di tutte si presta a realizzare il primario interesse della collettività alla preservazione di un determinato equilibrio ecologico.
[16] In realtà, la scelta del legislatore in favore del risarcimento per equivalente non era una strada obbligata. Altri ordinamenti hanno previsto soluzioni alternative: si pensi al caso della legislazione statunitense che contempla, accanto al risarcimento in forma specifica, anche il rimedio dell’acquisizione a spese del danneggiante di aree naturalistiche minacciate da pericoli di deterioramento o distruzione ed equivalenti a quella irreversibilmente danneggiata (§ 107 Comprehensive Environmental Response Compensation Liability Act, emanato negli U.S.A. nel 1980). Una soluzione analoga è contenuta nella Convenzione di Lugano, che prevede la possibilità di imporre al danneggiante l’obbligo di reintrodurre nell’ambiente risorse equivalenti a quelle distrutte.
[17] Si deve alla Corte Costituzionale la qualificazione del danno ambientale come patrimoniale, ovvero valutabile in termini economici, sebbene svincolato da concezioni aritmetico-contabili C.C., 30 dicembre 1987, n. 641, già cit.
[18] Un aiuto potrebbe venire ancora una volta da esperienze giuridiche straniere, ove si è assistito ad una codificazione puntuale e dettagliata dei criteri per la determinazione del danno all’ambiente (si pensi alle cd. Regulation for the assessment of damages for Natural Resource Injuries emanata negli Stati Uniti nel 1986), tale da consentire una valutazione del danno più rispondente al pregiudizio subito dalla collettività.
[19] Ricordiamo che, anche nei casi il cui il ripristino dello stato dei luoghi ex art. 18, 8° comma non sia materialmente possibile, il costo necessario per tale ripristino entra comunque tra i parametri su cui si deve basare la liquidazione equitativa del danno ai sensi del 6° comma dell’art. 18.