Cass. Sez. III n. 27148 del 22 giugno 2023 (UP 17 mag 2023)
Pres. Ramacci Rel. Galanti Ric. Burato
Rifiuti.End of waste
La possibilità di assegnare “caso per caso” a determinati materiali la qualifica di “end of waste”, indipendentemente dalla loro espressa inclusione in regolamenti eurounitari o in decreti ministeriali, sussiste solo per le autorizzazioni rilasciate ex art. 184-ter d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, a seguito dell’entrata in vigore della legge 2 novembre 2019, n. 128, che ha previsto che le autorizzazioni per lo svolgimento di operazioni di recupero siano rilasciate o rinnovate direttamente dalle amministrazioni competenti, nel rispetto delle condizioni di cui all’art. 6, par. 1, della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, sulla base di criteri dettagliati, definiti nell’ambito dei medesimi procedimenti autorizzatori, e previo parere obbligatorio e vincolante dell’ISPRA o dell’ARPA territorialmente competenti. In tema di rifiuti il giudice penale, in presenza di un provvedimento amministrativo di autorizzazione alla gestione degli stessi non conforme alla normativa che ne regola l’emanazione o alle disposizioni di settore, è tenuto a valutare la sussistenza dell’elemento normativo della fattispecie, senza disapplicare l’atto amministrativo illegittimo o effettuare valutazioni rimesse alla pubblica amministrazione.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 24/06/2022, il Tribunale di Mantova, nell’assolvere gli imputati in relazione a numerosi capi di imputazione:
- dichiarava non doversi procedere in ordine al Capo 1), in riferimento a Burato Fernando in relazione all’articolo 256 comma 1, lettera a), d. lgs. 152/2006, per intervenuta prescrizione (assolvendo nel contempo gli altri imputati);
- condannava Burato Fernando e Burato Piergiorgio, in ordine al Capo 11), in cui era contestato l’articolo 29-quaterdecies, comma 1, d. lgs. 152/2006, alla pena di euro 20.000 di ammenda;
- condannava Mantovagricoltura ai sensi del d. lgs. 231/2001, in relazione al reato presupposto di cui al Capo 1), limitatamente alla fattispecie di cui all’articolo 256 comma 1, lettera a), d. lgs. 152/2006, al pagamento di una somma pari a 250 quote da euro 500 ciascuna (totale euro 125.000);
- disponeva la confisca nei confronti di Mantovagricoltura del profitto, quantificato in euro 80.000.
2. Il Tribunale, inoltre, condannava Burato Fernando, Burato Piergiorgio e Mantovagricoltura in solido al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili costituite (Provincia di Mantova e Parco del Mincio) determinato in via equitativa in euro 20.000 per la provincia di Mantova ed euro 15.000 per l’Ente Parco regionale del Mincio, con pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva.
3. Avverso tale sentenza propongono, tramite i propri difensori di fiducia, ricorso per cassazione Burato Fernando, Burato Piergiorgio e Mantovagricoltura di Burato Fernando & C..
4. Il ricorso di Burato Fernando:
4.1. Relativamente al Capo n. 1) (sentenza ex art. 129 cod. proc. pen.), evidenzia come sussistessero i presupposti per giungere ad un sentenza di assoluzione nel merito anziché ad una pronuncia di proscioglimento per prescrizione del reato; in proposito, censura:
4.1.1. inosservanza delle norme previste a pena di nullità e segnatamente dell’articolo 178 lettera c) e 191 cod. proc. pen.. in riferimento all’accertamento tecnico non ripetibile disposto ai sensi dell’articolo 360 del codice di procedura penale dal pubblico ministero in data 13 giugno 2016, che sarebbe nullo per omesso avviso al Burato della data e del luogo di campionamento, nonostante all’epoca del disposto accertamento questi fosse già stato attinto da indizi di reità.
Da ciò discenderebbe la nullità conseguente del campionamento effettuato in data 9 giugno 2019 (eccezione ritualmente formulata in udienza in data 8 ottobre 2019).
Lamenta altresì il ricorrente la violazione dell’articolo 220 delle disposizioni di attuazione del codice di rito, il quale a sua volta rimanda alle norme del codice di procedura penale; a cascata, deduce la nullità delle operazioni di apertura dei campioni, delle analisi e della relazione redatta dagli ausiliari di p.g. nominati dal P.M.;
4.1.2. violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. in riferimento all’ordinanza (impugnata ai sensi dell’articolo 586 cod. proc. pen.) di ammissione delle prove datata 14 gennaio 2020, di cui si contesta anche la mancanza di motivazione in ordine alla dedotta incompatibilità ad assumere ufficio di consulente tecnico da parte dei dottori Oneda e Quaresmini; deduce il ricorrente che i predetti erano stati inseriti dal pubblico ministero nella lista in cui all’articolo 468 cod. proc. pen. come testimoni e quindi non avrebbero potuto essere sentiti come consulenti tecnici.
Inoltre, in capo agli stessi, proprio in quanto «ausiliari del pubblico ministero», gravava una incompatibilità con l’ufficio di testimone;
4.1.3. violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera b), cod. poc. pen., in riferimento agli articoli 256, comma 1, 183, 184, 184-bis, e 184-ter d. lgs. 152/2006; violazione dell’articolo 606, comma 1, lettere c) ed e), cod. poc. pen., per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo della sentenza impugnata e da altri atti del processo (e in particolare i documenti prodotti all’udienza del 21 Aprile 2022); illogicità della motivazione per travisamento dei fatti e della prova.
Lamenta il ricorrente che il giudice ha ritenuto sufficienti alla fine della prova della penale responsabilità dell’imputato il mero esame visivo e fotografico, senza svolgere alcun accertamento in ordine alla composizione del materiale in imputazione; lamenta che lo stesso pubblico ministero nel corso dell’udienza preliminare aveva espressamente richiesto disporsi perizia in tal senso e che tale richiesta era stata rigettata dal giudice; lamenta inoltre il ricorrente la classificazione del materiale eterogeneo quale rifiuto, compiuto dal dottor Quaresmini attraverso una mera percezione visiva, con conseguente erronea esclusione della sua classificazione come «End of Waste».
Evidenzia in proposito come dalla documentazione prodotta emergesse con chiarezza che il materiale sequestrato forse in realtà stato ceduto da Mantovagricoltura alla FAMAC, che lo aveva acquistato per il successivo utilizzo nel proprio ciclo produttivo, elemento di primaria importanza su cui la sentenza impugnata tace, rinvenendosi solo nella relazione del dottor Quaresmini l’apodittica affermazione secondo cui tale materiale non poteva essere impiegato per la produzione di manufatti in calcestruzzo presso l’impianto della Famac.
Al contrario, i tre consulenti della difesa raggiungono conclusioni opposte, ritenendo sussistenti tutti i presupposti per qualificare tali materiali quali «sottoprodotti» o «End of waste»;
4.1.4. Lamenta, ancora, il ricorrente, violazione di legge, sempre con riferimento all’articolo 256 d. lgs. 152/2006, per non aver tenuto conto la sentenza dei rapporti commerciali intercorrenti tra Mantovagricoltura e FAMAC, oggetto di ampia produzione documentale da parte della difesa;
4.1.5. Censura, il ricorrente, violazione di legge con riferimento alla errata esclusione della applicazione della qualificazione del materiale quale «cessazione della qualifica di rifiuto» (EOW), nonché manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta attualità della qualifica di rifiuto in capo ai materiali sequestrati; lamenta altresì nullità dell’asserto secondo cui graverebbe sull’interessato provare la sussistenza di tutti i presupposti per la cessazione della qualifica di rifiuto; sottolinea come la produzione di end of waste possa essere autorizzata anche in assenza di uno specifico regolamento comunitario o decreto ministeriale;
4.1.6. Denuncia il ricorrente l’omessa valutazione nella sentenza impugnata delle deduzioni critiche avanzate dai consulenti della difesa (Dr. Franco, Dr. Bonamin) sulla rappresentatività dei campionamenti effettuati dal dottor Quaresmini;
4.1.7. Censura la dichiarata inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’imputato Previdi Natale e dai suoi figli Carlo e Paolo al C.T. del P.M. ai sensi dell’articolo 228, comma 3, cod. proc. pen.;
4.1.8. Lamenta infine la mancanza di motivazione in ordine alla valutazione delle prove documentali prodotte dalla difesa all’udienza del 21 aprile 2022;
4.2. Relativamente al Capo n. 11) (sentenza di condanna):
4.2.1. Violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. in riferimento all’articolo 29-quaterdecies d. lgs. 152/2006. Lamenta il ricorrente come erroneamente il giudice abbia ritenuto che Mantovagricoltura fosse tenuta, dopo l’entrata in vigore del d. lgs. 46/2014, a munirsi entro i termini di cui all’articolo 29, comma 2, d. lgs. 152/2006, dell’autorizzazione integrata ambientale (AIA) anche per l’attività IPPC 5.b.3 (gestione e trattamento di scorie di fusione e ceneri). Sostiene infatti, anche alla luce delle indicazioni fornite dalla Giunta della Regione Lombardia in data 8 aprile 2014 e della circolare del MATTM del 17 giugno 2015, che, per le attività tecnicamente connesse e coinsediate, già autorizzate in AIA (nel caso di specie l’attività era quella di cui al punto 6.5) ma entrate in IPPC successivamente al citato decreto legislativo, non vi sia obbligo di richiedere l’AIA (come modifica sostanziale), ma essa andrà aggiornata in occasione del primo riesame dell’attività IPPC principale. A conferma, il ricorrente cita ben due aggiornamenti dell’AIA effettuati dalla provincia di Mantova, il primo in data 24/10/2014 e il secondo in data 29/06/2018, ossia dopo l’entrata in vigore del d. lgs. 46/2014, senza che sia stata sollecitata una richiesta per modifica sostanziale.
Aggiunge inoltre il ricorrente che, se le attività IPPC sono governate, sotto il profilo tecnico, dall’obbligo di rispetto delle c.d. «BAT» di settore, la relazione ARPA del 14/12/2015 precisa che le BAT venivano correttamente applicate;
4.2.2. Sostiene il ricorrente che, in ogni caso, alla luce delle indicazioni ministeriali e regionali, è fuor di dubbio che una eventuale errata interpretazione della normativa non potrebbe che ritenersi conseguenza di un errore inescusabile, in quanto indotto dagli enti pubblici preposti alla tutela dell’ambiente;
4.2.3. Violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. in riferimento all’articolo 452-novies cod. pen.; lamenta il ricorrente che, da un lato, il giudice promette qualsivoglia motivazione in ordine alla esistenza dell’aggravante in parola; dall’altro, sottolinea come essa trovi applicazione quando dalla commissione del fatto derivi la violazione di uno o più norme poste a tutela dell’ambiente; nel caso di specie ci si trova di fronte ad una sola violazione, sussunta nell’ambito dell’articolo 29-quaterdecies nel codice penale, circostanza da cui non può che risultare l’insussistenza della contestata aggravante;
4.2.4. Violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., violazione di legge in riferimento agli articoli 546 e 125 cod. proc. pen. per mancanza di motivazione nella parte in cui ha disposto la condanna dell’imputato al risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili costituite, Provincia di Mantova ed Ente Parco del Mincio; la motivazione fornita dal giudice è infatti assolutamente generica, laddove individua, per la provincia di Mantova, il danno patrimoniale nel danno da maggiore attività amministrativa e nel danno di immagine il danno non patrimoniale; nonché per quanto riguarda l’ente Parco, laddove individua danni patrimoniali nei costi di vigilanza e nella maggiore attività amministrativa resasi necessaria nel corso degli anni, danno peraltro non richiesto dalla parte civile con riferimento al capo 11);
4.2.5. Violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. in riferimento agli articoli 546 e 125 cod. proc. pen. nella parte in cui nel dispositivo ha condannato l’imputato al pagamento di una provvisionale, laddove nella motivazione veniva assunta una decisione di segno opposto.
5. Il ricorso di Burato Piergiorgio:
5.1. Il primo motivo di ricorso riproduce le medesime doglianze già esposte al par. 4.2.1;
5.2. Il secondo motivo di ricorso riproduce le medesime doglianze già esposte al par. 4.2.3;
5.3. Il terzo motivo di ricorso lamenta l’assenza e l’illogicità della motivazione nella parte in cui ritiene che la responsabilità del Burato discenda dalla sua qualifica di «incaricato nella gestione dei rifiuti», cui il giudice ha invece negato rilevanza con riferimento alle altre imputazioni;
5.4. Il quarto motivo di ricorso lamenta l’assenza di motivazione nella dosimetria della pena, calcolata in misura prossima al massimo edittale in assenza di qualsivoglia motivazione che non si esaurisca in una mera clausola di stile;
5.5. Il quinto motivo di ricorso riproduce le medesime doglianze già esposte al par. 4.2.4, lamentando altresì la mancanza di prova in ordine all’esistenza di un effettivo pregiudizio;
5.6. Il sesto motivo di ricorso riproduce le medesime doglianze già esposte al par. 4.2.5.
6. Il ricorso di Mantovagricoltura di Burato Fernando & C.:
6.1. I motivi di ricorso indicati quali 1), 1.2), 2), 3) e 4) sono sovrapponibili a quelli presentati da Burato Fernando in riferimento alla sentenza di proscioglimento in ordine al Capo 1) ed elencati al par. 4.1., cui la Corte rinvia;
6.2. Con il quinto motivo di ricorso, la ricorrente censura l’affermazione di responsabilità di Mantovagricoltura ai sensi del d. lgs. 231/2001. Il motivo si articola in due distinte censure.
6.2.1. In primo luogo, si censura il difetto di prova in ordine all’effettivo interesse o vantaggio (da intendersi in senso di «profitto») conseguito dall’ente;
6.2.2. In secondo luogo, si censura la mancanza di prova di «colpa di organizzazione», avendo l’ente adottato il «modello di organizzazione e gestione» e avendo indebitamente il giudice dedotto, ex post, la colpa di organizzazione dell’ente dalla mera commissione del reato presupposto da parte dell’apicale;
6.3. Con il sesto motivo la ricorrente censura l’applicazione della misura della confisca a carico dell’ente:
6.3.1. In primo luogo, censura come il giudice non abbia motivato in ordine alla derivazione immediata e diretta del profitto dalla commissione del reato presupposto, come richiesto dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione;
6.3.2. In secondo luogo, censura la quantificazione del danno, operata dal giudice «in via equitativa» e senza alcun aggancio con elementi concreti;
6.4. Con il settimo motivo di ricorso la ricorrente lamenta come la sentenza abbia condannato Mantovagricoltura, in qualità di responsabile civile, al risarcimento del danno in favore dell’Ente Parco del Mincio, senza che quest’ultimo abbia esercitato l’azione civile nei suoi confronti, citandola quale responsabile civile;
6.5. Con l’ottavo motivo, la ricorrente censura di illogicità la motivazione in riferimento alle modalità di determinazione sia del numero delle quote applicate all’ente come sanzione pecuniaria ai sensi del d. lgs. n. 231/2001, che della loro entità unitaria.
7. Con memoria del 28 aprile 2023, il difensore di Burato Fernando depositava motivi nuovi.
Ribadisce, in primo luogo, la censura in merito all’espunzione delle dichiarazioni rese da Previdi Paolo e Previdi Carlo, da doversi ritenere inutilizzabili con esclusivo riferimento agli atti irripetibili.
Ribadisce, altresì, che la titolarità dei cumuli di materiali in capo alla Famac emerge anche da specifici documenti, come le dichiarazioni rese da FAMAC in data 2.2.2016 nella lettera in risposta alla richiesta del Comune di Rodigo in data 22.12.2015.
Ribadisce infine la totale mancanza di motivazione del giudice di primo e unico grado in ordine a tale elemento dirimente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con riferimento al ricorso presentato dall’Avv. Vasoin De Prosperi in data 14/11/2022, la Corte analizzerà in primo luogo la parte relativa al Capo di sentenza sub 1), dichiarato prescritto dal Tribunale di Mantova (pagg. 1-66).
Il ricorso è, in parte qua, inammissibile.
1.1. La Corte ha Sez. 4, n. 8135 del 31/01/2019, Rv. 275219 – 01 ha chiarito che in tema di impugnazioni, l’imputato che, senza aver rinunciato alla prescrizione, proponga ricorso per cassazione avverso sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, è tenuto, a pena di inammissibilità, a dedurre specifici motivi a sostegno della ravvisabilità in atti, in modo «evidente e non contestabile», di elementi idonei ad escludere la sussistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte sua e la configurabilità dell’elemento soggettivo del reato, affinché possa immediatamente pronunciarsi sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., ponendosi così rimedio all’errore circa il mancato riconoscimento di tale ipotesi in cui sia incorso il giudice della sentenza impugnata.
Il ricorrente, pur rubricando le proprie doglianze come violazioni dì legge, sollecita a questa Corte una rivalutazione del compendio probatorio, evidentemente preclusa in sede di legittimità, e propone in ogni caso censure motivazionali che parimenti non possono trovare ingresso in questa sede, avendo ormai da tempo le Sezioni Unite di questa Corte chiarito, con un condivisibile dictum, che, «in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva» (così Sez. Un. n. 35490 del 28/5/2009, Tettamanti, Rv. 244275, nella cui motivazione si è precisato che detto principio trova applicazione anche in presenza di una nullità di ordine generale; conf. Sez. 6, n. 10074 dell’8/2/2005, Algieri, Rv. 231154; Sez. 1, n. 4177 del 27/10/2003 dep. il 2004, Balsano ed altri, Rv. 227098).
Ancora, si è ritenuto che, in sede di legittimità, non è consentito il controllo della motivazione della sentenza impugnata allorché sussista una causa estintiva del reato, e ciò sia quando detta causa sia sopraggiunta nelle more del giudizio in Cassazione, sia quando, come nel caso che ci occupa, sia stata dichiarata con lo stesso provvedimento nei cui confronti è proposta l’impugnazione (così Sez. 5, n. 588 del 4/10/2013 dep. il 2014, Zambonini, Rv. 258670).
Pertanto, il giudizio di legittimità deve essere limitato alle sole violazioni di legge, e, in questo limitato ambito, potranno essere oggetto di scrutinio le sole violazioni che determinino una «evidenza» di elementi idonei ad escludere la sussistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte sua e la configurabilità dell’elemento soggettivo del reato. Nel caso di specie, escluso a priori ogni vaglio sugli asseriti vizi di motivazione da parte di questa Corte (con conseguente inammissibilità dei relativi motivi), in riferimento alle lamentate violazioni di legge, come si accennerà nei sottoparagrafi che seguono, tale situazione di «evidenza» non ricorre.
1.2. Ciò, in primo luogo, con riferimento alla asserita riconducibilità dei materiali oggetto di contestazione, all’interno della categoria del c.d. «End of waste» (EOW).
1.2.1. Tale istituto, disciplinato dalla direttiva 2008/98/CE del 19 novembre 2008 (c.d. «direttiva quadro», o framework directive, in materia di rifiuti) e ribattezzato dal legislatore italiano come «cessazione della qualifica di rifiuto», ha sostituito la previgente disciplina delle c.d. «materie prime secondarie» (articolo 181-bis del TUA), spostando il focus della disciplina dal «risultato» di un processo di recupero al «processo» stesso. L’EOW può definirsi come un «processo di recupero del rifiuti», al termine del quale il rifiuto cessa di essere tale e torna a svolgere un ruolo utile nel circuito economico come prodotto.
In tal senso, le Linee Guida sulla direttiva 2008/98/CE predisposte dalla Commissione UE nel giugno 2012 precisano che le obbligazioni specifiche del produttore e del detentore permangono finché il processo di recupero non è completo, in conformità con gli obiettivi della Direttiva Quadro, così minimizzando il rischio di danni per la salute e l’ambiente.
L’EOW indica pertanto tutto il «processo» che determina il passaggio da un «rifiuto» a un «prodotto», e, quindi, tutte le fasi attraverso cui questo passaggio si articola e si determina; da ciò consegue che, fino al completamento del processo, il rifiuto resta tale (in tal senso, la Corte ha precisato - Sez. 3, n. 18891 del 22/11/2017, dep. 2018, Battistella, Rv. 272879 – 01 - che i rifiuti esitati dall’attività di trattamento, che non hanno ancora cessato di essere tali, continuano ad essere assoggettati alla disciplina in materia di gestione dei rifiuti; pertanto, l’accertamento della cessazione della qualità ha efficacia «costitutiva» e non «dichiarativa», sicché essa opera ex nunc e non ex tunc, stante il chiaro tenore letterale dell’art. 184-ter, u.c., d.lgs. n. 152 del 2006).
1.2.2. Le condizioni che determinano la possibilità per un rifiuto di cessare di essere tale sono indicate dall’articolo 184-ter del TUA, secondo cui un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio, e soddisfi i criteri specifici, da adottare nel rispetto delle seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici;
b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto;
c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti;
d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.
Le caratteristiche anzidette devono indeflettibilmente ricorrere tutte insieme. In tal senso si è espressa la giurisprudenza della Corte, (Sez. 3, n. 36692 del 03/07/2019, Bordonaro, n.m.), secondo cui occorre che il rifiuto sia sottoposto ad un'operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i predetti criteri specifici, da adottare nel rispetto delle condizioni dianzi esposte.
1.2.3. Quanto alla «tipologia» di sostanze od oggetti che sono suscettibili di diventare materie prime al termine del processo di recupero, la qualifica di EOW può in primo luogo essere assegnata a tipologie di materiali da Regolamenti comunitari. La normativa europea ha tuttavia disciplinato solo alcune ristrette ipotesi:
- Regolamento (UE) n. 333/2011 del 31 marzo 2011 recante “I criteri che determinano quando alcuni tipi di rottami metallici cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della Direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio”;
- Regolamento (UE) n. 1179/2012 del 10 dicembre 2012 recante “I criteri che determinano quando i rottami di vetro cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della Direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio”;
- Regolamento (UE) n. 715/2013 del 25 luglio 2013 recante “I criteri che determinano quando i rottami di rame cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della Direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio”.
L’art. 6 della direttiva 19 novembre 2008, n. 2008/98/CE prevede che «se non sono stati stabiliti criteri a livello comunitario in conformità della procedura di cui ai paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale tenendo conto della giurisprudenza applicabile».
Il comma 2 dell’art. 184-ter TUA stabilisce che «i criteri di cui al comma 1 sono adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria ovvero, in mancanza di criteri comunitari, caso per caso per specifiche tipologie di rifiuto attraverso uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400. I criteri includono, se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza o dell’oggetto».
L’Italia a sua volta ha disciplinato i seguenti casi di End of Waste:
- Decreto del Ministero dell’ambiente 14 Febbraio 2013, n. 22, “Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di determinate tipologie di combustibili solidi secondari (CSS), ai sensi dell’articolo 184-ter, comma 2, del decreto legislativo 3 Aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni”;
- Decreto del Ministero dell’ambiente 28 marzo 2018, n. 69, “Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di conglomerato bituminoso ai sensi dell’articolo 184-ter, comma 2 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”, in vigore dal 3 luglio 2018;
- Decreto del Ministero dell’ambiente 15 maggio 2019 n. 62, “Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto di prodotti assorbenti per la persona (PAP) ai sensi dell’articolo 184-ter, comma 2 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”;
- Decreto del Ministero dell’ambiente 31 marzo 2020 n. 78, “Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto della gomma vulcanizzata derivante da pneumatici fuori uso, ai sensi dell’articolo 184-ter, comma 2 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”, in vigore dal 5 agosto 2020;
- Decreto del Ministero dell’ambiente 22 settembre 2020, n. 188, “Regolamento recante disciplina della cessazione della qualifica di rifiuto da carta e cartone, ai sensi dell’articolo 184-ter, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”;
- Decreto del Ministero dell’ambiente del 27 settembre 2022 n. 152, “Regolamento che disciplina la cessazione della qualifica di rifiuto dei rifiuti inerti da costruzione e demolizione e di altri rifiuti inerti di origine minerale, ai sensi dell’articolo 184-ter, comma 2, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152”.
1.2.4. La Direttiva non entrava nel merito delle competenze istituzionali dei singoli Stati membri, mentre l’art. 184-ter TUA prevedeva che la disciplina come EOW per specifiche tipologie di rifiuto dovesse passare attraverso uno o più decreti del MATTM (acronimo di “Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare”); la possibilità che potesse essere autorizzato un processo di EOW «caso per caso», al di fuori dei casi espressamente contemplati, era stata fermamente smentita dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato con la sentenza n.1229/2018, il quale ha affermato il potere di assegnare la qualifica di EOW a determinati materiali «caso per caso», non va riferito al singolo materiale da esaminare, bensì inteso come «tipologia» di materiale da esaminare e fare oggetto di più generale previsione regolamentare, a monte dell’esercizio della potestà autorizzatoria).
Il nuovo paragrafo 4 dell’articolo 6 della direttiva, tuttavia, nel testo modificato dalla direttiva 2018/851/UE, prevede che «laddove non siano stati stabiliti criteri a livello di Unione o a livello nazionale ai sensi, rispettivamente, del paragrafo 2 o del paragrafo 3, gli Stati membri possono decidere caso per caso o adottare misure appropriate al fine di verificare che determinati rifiuti abbiano cessato di essere tali in base alle condizioni di cui al paragrafo 1, rispecchiando, ove necessario, i requisiti di cui al paragrafo 2, lettere da a) a e), e tenendo conto dei valori limite per le sostanze inquinanti e di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente e sulla salute umana. Tali decisioni adottate caso per caso non devono essere notificate alla Commissione».
La l. n. 128 del 02/11/2019 ha modificato radicalmente l’articolo 184-ter del TUA. La nuova disciplina, molto articolata, trova il punto focale nella previsione secondo cui, in mancanza di criteri specifici adottati con i regolamenti ministeriali, le autorizzazioni per lo svolgimento di operazioni di recupero siano rilasciate o rinnovate direttamente dalle amministrazioni competenti nel rispetto delle condizioni di cui all’articolo 6 della direttiva 2008/98/CE, sulla base di criteri dettagliati definiti provvedimento autorizzatorio e previo parere obbligatorio (introdotto dall’art. 34, comma 1, lettera a), del D.L. 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, dalla l. 29 luglio 2021, n. 108) di ISPRA o ARPA competente (sulla base delle linee guida aggiornate, da ultimo, dal SNPA con Quaderno n. 41/2022).
1.2.6. Appare in conclusione del tutto evidente, pertanto, che fino al novembre del 2019 non fosse possibile attribuire ai materiali «de qua» la qualifica di EOW, ciò che rende di solare evidenza l’impossibilità per la Corte di valutare ictu oculi la sussistenza dei presupposti per una assoluzione nel merito.
1.3. Analoghe considerazioni possono essere svolte in riferimento al censurato profilo dell’inversione dell’onus probandi. La giurisprudenza consolidata della Corte, che il Collegio condivide, ha precisato con giurisprudenza univoca che trattandosi di norme aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti, «l’onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge deve essere assolto da colui che ne richiede l’applicazione (Sez. 3, n. 38950 del 26/06/2017, Roncada, n.m.; Sez. 3, n. 56066 del 19/09/2017, Sacco, Rv. 272428 – 01; Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, Fortunato, Rv. 263336 – 01; Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, Giaccari, Rv. 262129 – 01; Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, Busè, Rv. 252385 - 01; Sez. 3, n. 16727 del 13/04/2011, Spinello, n.m.; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv. 241504 - 01).
Tale giurisprudenza è una applicazione dell’indirizzo consolidato secondo cui (v. Sez. 3^, n. 20410 del 08/02/2018 Rv. 273221 - 01 Boccaccio) il principio di inversione dell’onere della prova «specificamente riferito al deposito temporaneo, è peraltro applicabile in tutti i casi in cui venga invocata, in tema di rifiuti, l’applicazione di disposizioni di favore che derogano ai principi generali».
In tal senso, già Sez. 3, sentenza n. 47262 dell’8/09/2016, Marinelli, n.m., aveva precisato che il principio dell’inversione dell’onere della prova corrisponde ad un «principio generale già applicato in giurisprudenza: in tema di attività di raggruppamento ed incenerimento di residui vegetali previste dall’art. 182, comma sesto bis, primo e secondo periodo, d. lgs. 152/2006 (cfr. Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016, Lazzarini), di deposito temporaneo di rifiuti (Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, Favazzo), di terre e rocce da scavo (Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, Fortunato), di interramento in sito della posidonia e delle meduse spiaggiate presenti sulla battigia per via di mareggiate o di altre cause naturali (Sez. 3, n. 3943 del 17/12/2014, Aloisio), di qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali (Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, Giaccari; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano), di deroga al regime autorizzatorio ordinario per gli impianti di smaltimento e di recupero, prevista dall’art. 258 comma 15 del d. lgs. 152 del 2006 relativamente agli impianti mobili che eseguono la sola riduzione volumetrica e la separazione delle frazioni estranee (Sez. 3, n. 6107 del 17/01/2014, Minghini), di riutilizzo di materiali provenienti da demolizioni stradali (Sez. 3, n. 35138 del 18/06/2009, Bastone)». Il principio è stato successivamente ribadito anche da Sez. 3, n. 3598 del 23/10/2018, dep. 2019, Fortuna, n.m..
1.3.1. Tale prova inoltre, che grava sull’interessato, non può essere fornita (Sez. 3, n. 41607 del 6/07/2017, Garlando, n.m.) mediante mera testimonianza, atteso che l’art. 184-bis D.lgs. 152/06 richiede «condizioni specifiche che devono essere adeguatamente documentate anche e soprattutto sotto il profilo prettamente tecnico, involgendo, come è noto, le caratteristiche del ciclo di produzione, il successivo reimpiego, eventuali successivi trattamenti, la presenza di caratteristiche atte a soddisfare, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e l’assenza di impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana», e che «incombe sull’interessato, anche successivamente alla modifica dell’art. 183, comma 1, lett. p), l’onere di fornire la prova della destinazione del materiale ad ulteriore utilizzo, con certezza e non come mera eventualità». Principio che trova pacificamente applicazione al caso dell’EOW, che riposa sul medesimo principio derogatorio.
1.3.2. Le sopra esposte considerazioni valgono anche, pertanto, in riferimento alla prospettata (ma non dimostrata) ipotesi di classificare i materiali in parola come «sottoprodotti», circostanza del resto esclusa dal giudice del merito anche alla luce della tipologia di materiali rinvenuti (tra cui degli «scarti di fonderia», pag. 8).
1.4. Analogamente, in relazione alle ordinanze dibattimentali impugnate con la sentenza, non appare evidente l’esistenza di elementi per procedere ictu oculi all’assoluzione.
I motivi appaiono pertanto manifestamene infondati in quanto si pongono in contrasto con la consolidata giurisprudenza della Corte senza addurre alcun profilo di novità (Sez. 2 - , Sentenza n. 17281 del 08/01/2019, Delle Cave, Rv. 276916 – 01).
1.4.1. Quanto alla violazione del diritto agli avvisi ex art. 360 cod. proc. pen., evidenzia il collegio come, correttamente, il ricorrente faccia riferimento alla disposizione di cui all’articolo 220 disp. att. cod. proc. pen., a mente del quale «quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale sono compiuti con l'osservanza delle disposizioni del codice».
Tuttavia, proprio alla luce del richiamo contenuto alle norme del codice di rito, il Collegio evidenzia come questa Corte (v., ex plurimis, Sez. 6, n. 10350 del 6/02/2013; Sez. 2, n. 2087 del 10/01/2012; Sez. 2, n. 34149 del 10/07/2009) e la stessa Corte Costituzionale (sent. n. 239/2017) hanno in modo costante distinto il «rilievo» dall’«accertamento tecnico».
Si tratta, come noto, di categorie di atti di indagine che il codice non definisce in alcun punto, tanto che alcuni in dottrina hanno in proposito parlato di «endiadi».
Così non è.
L’articolo 359 cod. proc. pen. (rubricato «Consulenti tecnici del pubblico ministero»), si riferisce ad entrambi i tipi di operazioni, laddove l’articolo 360 si riferisce solo ai secondi, con conseguente esclusione, quanto ai «rilievi», del diritto al previo avviso all’indagato, che può partecipare alle operazioni solo «ove presente» (arg. ex artt. 354 e 356 cod. proc. pen., 114 disp. att. cod. proc. pen.).
La giurisprudenza della Corte ha nel tempo chiarito che con il termine «rilievi» si intende un’attività di mera osservazione, individuazione ed acquisizione di dati materiali, mentre gli «accertamenti» comportano un’opera di studio critico, di elaborazione valutativa, ovvero di giudizio di quegli stessi dati o di valutazioni critiche su basi tecnico-scientifiche (Sez. 5, n. 11866 del 29/09/2000, D’Anna; Sez. 2, n. 45751 dell’8/02/2016, Siino; Sez. 1, n. 18246 del 25/02/2015, Cedrangolo; sez. 1, n. 45283 del 10/10/2013; Sez. 2, n. 33076 del 25/07/2014; Sez. 1, n. 2443 del 13/11/2007, Pannone: «in tema di indagini preliminari, la nozione di accertamento tecnico concerne non l’attività di raccolta o di prelievo dei dati pertinenti al reato … priva di alcun carattere di invasività, bensì soltanto il loro studio e la loro valutazione critica»; Sez. 2, n. 34149 del 10/07/2009, Chiesa, Rv. 244950: «in tema di indagini preliminari, mentre il rilievo consiste nell’attività di raccolta di dati pertinenti al reato, l’accertamento tecnico si estende al loro studio e valutazione critica secondo canoni tecnico-scientifici»; conformi, in relazione ai prelievi di campioni di DNA: Sez. 1, n. 18246 del 25/02/2015, Rv. 263859 - 01; Sez. 1, n. 31880 del 30/03/2022, Rv. 283573 - 01).
La giurisprudenza, anche Costituzionale, ha nel tempo assimilato il concetto di «prelievo» a quello di «rilievo» (v. citata sent. Corte Cost. n. 239/2017; Sez. 1, n. 2443 del 13/11/2007, Rv. 239101 - 01«la nozione di accertamento tecnico concerne non l’attività di raccolta o di prelievo dei dati pertinenti al reato … priva di alcun carattere di invasività, bensì soltanto il loro studio e la loro valutazione critica»), essendo entrambi mezzi volti all’apprensione di un dato materiale, una cosa, un campione, di essa rappresentativo.
D’altra parte, come evidenziato in dottrina, il fatto che il codice riservi in alcune disposizioni (artt. 224-bis e 359-bis c.p.p.) particolari cautele in relazione a talune forme di «prelievi» e non invece ai «rilievi», è ricollegabile alla peculiare circostanza che solo nel caso del «prelievo» l’attività, in quei casi specifici, presenta carattere invasivo della libertà personale (Sez. 1, n. 2443 del 13/11/2007, Pannone, Rv. 239101 – 01: «In tema di indagini preliminari, la nozione di accertamento tecnico concerne non l’attività di raccolta o di prelievo dei dati pertinenti al reato, priva di alcun carattere di invasività, bensì soltanto il loro studio e la loro valutazione critica»).
Resta inteso che, ove non si applichino le garanzie di cui all’articolo 360 cod. proc. pen., particolare attenzione e cura dovranno essere rivolte alla verbalizzazione dell’attività (prevista dall’articolo 357 cod. proc. pen. solo per gli atti compiuti dalla polizia giudiziaria, ma da estendersi all’attività di indagine in generale, soprattutto ove non assistita dalla dialettica tra le parti), onde consentirne il controllo (e la contestazione) in contraddittorio nelle successive fasi processuali.
Tuttavia, lo stesso giudice delle leggi citato ha evidenziato che, anche operazioni di rilievo o prelievo, e in generale di repertazione, possano richiedere, «in casi particolari, valutazioni e scelte circa il procedimento da adottare, oltre che non comuni competenze e abilità tecniche per eseguirlo, e in questo caso, ma solo in questo, può ritenersi che quell’atto di indagine costituisca a sua volta oggetto di un accertamento tecnico, prodromico rispetto all’atto da eseguire poi sul reperto prelevato».
Infatti, possono verificarsi situazioni in cui per la repertazione del campione, necessario agli accertamenti peritali, siano richieste specifiche competenze tecniche ovvero si debba ricorrere a tecniche particolari e in «tal caso anche l’attività di prelievo assurge alla dignità di operazione tecnica non eseguibile senza il ricorso a competenze specialistiche e dovrà essere compiuta nel rispetto dello statuto che il codice prevede per la acquisizione della prova scientifica» (Sez. 2, n. 2476 del 27/11/2014, Rv. 261867 - 01).
Non a caso, accorta dottrina parla, in proposito degli accertamenti tecnici, di categoria «liquida», proprio a sottolinearne la natura «mobile» dei confini.
Si tratta, in questi casi, di un apprezzamento in concreto rimesso al giudice del fatto, insindacabile in sede di legittimità ove sorretto da adeguata motivazione.
Quanto alle «tecniche» di campionamento, il Collegio evidenzia, in riferimento ai rifiuti, che se è vero che tale attività può essere particolarmente delicata in merito alla scelta delle metodiche da adottare e della rappresentatività del campione (circostanza che rende consigliabile assicurare in ogni caso il contraddittorio), la Corte di Giustizia UE (sentenza 28 marzo 2019, cause riunite da C-487/17 a C-489/17, Verlezza), ha precisato che in materia di rifiuti, è richiesto solamente che le operazioni di campionamento «devono offrire garanzie di efficacia e di rappresentatività» e che i relativi metodi siano «riconosciuti a livello internazionale».
Questa Corte (Sez. 3, n. 1987 del 08/10/2014, Rv. 261786 – 01), del resto, ha evidenziato del resto come non sia imposto per il campionamento dei rifiuti l’uso di particolari metodologie (nella specie il metodo UNI 10802) e che la scelta sul metodo da utilizzare per il campionamento è questione di fatto, in mancanza di una normativa generale vincolante sul punto.
Analogamente la Corte si è espressa in tema di inquinamento delle acque (Sez. 3, n. 32996 del 14/05/2003, Rv. 225547 – 01: «in tema di controllo dei reflui degli scarichi il metodo di campionamento è regolamentato da una metodica flessibile, in quanto accanto al criterio ordinario, riferito ad un campione medio prelevato nell’arco di tre ore, prevede la possibilità di criteri derogatori in relazione alle specifiche esigenze del caso concreto, quali quelle derivanti dalle prescrizioni contenute nell’autorizzazione allo scarico, dalle caratteristiche del ciclo tecnologico, dal tipo di scarico così come dal tipo di accertamento, la cui valutazione spetta all’autorità amministrativa di controllo nonché, in sede processuale, al giudice penale»; Sez. 3, n. 36701 del 03/07/2019, Rv. 277158 – 01: « In tema di inquinamento idrico, la norma sul metodo di prelievo per il campionamento dello scarico ha carattere procedimentale e non sostanziale e, dunque, non ha natura di norma integratrice della fattispecie penale, ma rappresenta il mero criterio tecnico ordinario per il prelevamento, ben potendo il giudice, tenuto conto delle circostanze concrete, motivatamente ritenere la rappresentatività di campioni raccolti secondo metodiche diverse»), nonché di mangimi per animali (Sez. 3, n. 21652 del 02/04/2009, Rv. 243726 – 01: «Le norme relative al prelevamento e all’analisi di campioni di merci hanno carattere ordinatorio e non costituiscono condizioni per il regolare esercizio dell’azione penale, sicché eventuali irregolarità in materia non determinano nullità, pur dovendo il giudice, che da tali analisi voglia trarre elementi di convincimento per la decisione, motivare adeguatamente in ordine all’attendibilità del risultato»).
Da quanto sopra evidenziato, appare evidente che non possa attribuirsi all’attività di campionamento dei rifiuti la «natura» di accertamento tecnico ex se, essendo al contrario rimessa al giudice del fatto la valutazione in ordine al quantum di competenza e difficoltà tecnica richiesto per l’effettuazione delle operazioni di prelievo, al fine di valutare la necessità di attivare la procedura garantita di cui all’articolo 360 cod. proc. pen..
Nel caso di specie, non vi è dubbio che, ontologicamente, il campionamento dei rifiuti appartenga alla categoria dei «rilievi», e non a quella degli «accertamenti tecnici», e che potendosi in ipotesi lamentar eun vizio di motivazione, il relativo scrutinio va in concreto escluso alla luce delle considerazioni espresse dal Collegio al par. 1.1.
A ciò si aggiunga che il giudice del fatto ha escluso la natura «irripetibile» delle operazioni di campionamento dei rifiuti (pag. 2 ordinanza 14/01/2020, riportata a pag. 9 del ricorso), valutazione in fatto non sindacabile dalla Corte.
Dalla sopra esposte considerazioni consegue la inammissibilità anche delle censure relative alla pretesa violazione del diritto all’avviso da parte del ricorrente, indipendentemente dall’avvenuta iscrizione o meno dello stesso sul registro degli indagati e dalla dedotta natura irripetibile delle operazioni, nonché delle conseguenti lamentate nullità.
1.4.2. Manifestamente infondata è poi la parte di doglianza secondo cui il pubblico ministero avrebbe dovuto procedere alla nomina di consulenti tecnici per l’effettuazione degli accertamenti tecnici, posto che l’art. 117 delle norme di attuazione del codice di procedura penale prevede l’applicabilità della «procedura» di cui all’articolo 360 cod. proc. pen. (ove applicabile) anche agli accertamenti tecnici «che modificano lo stato dei luoghi, delle cose o delle persone», prescindendo quindi dalla nomina di consulenti.
1.5. Lamenta inoltre il ricorrente che i funzionari ARPA, nominati ausiliari tecnici per le operazioni di sopralluogo, inseriti nella lista ex ar. 468 cod. proc. pen. come testimoni, sarebbero stati escussi quali consulenti, e quindi non sarebbero come tali stati autorizzati, incorrendo, inoltre, nell’incompatibilità a testimoniare prevista per gli ausiliari del pubblico ministero.
1.5.1. Quanto al primo profilo, Il motivo è pertanto manifestamente infondato.
La Corte ha ritenuto in passato (Sez. 3, Sentenza n. 37490 del 21/09/2011, n.m.) che il consulente del Pubblico Ministero può essere interrogato come testimone al dibattimento «per una sorte di “conversione” in quello praeter peritiam previsto dall’art. 233 c.p.p.», così «convogliando nel processo pareri e conoscenze utili ai fini della decisione (Cass. Sez. 3 sentenza 22260/2008)» e che (Sez. 2, n. 4128 del 09/10/2019, Consolo, Rv. 278086 - 01) «in tema di prova testimoniale, il divieto di apprezzamenti personali non opera qualora il testimone sia persona particolarmente qualificata che riferisca su fatti caduti sotto la sua diretta percezione sensoriale ed inerenti alla sua abituale e specifica attività giacché, in tal caso, l’apprezzamento diventa inscindibile dal fatto».
In sostanza, il c.d. «teste tecnico» può non solo riferire fatti di cui ha avuto immediata percezione, ma altresì svolgere considerazioni che costituiscono retaggio del suo bagaglio professionale, in maniera del tutto analoga al consulente tecnico, purchè nei limiti dei capitoli di prova ammessi, circostanza, questa, non dedotta nel motivo di impugnazione.
1.5.2. Il secondo rilievo è del pari manifestamente infondato.
Nell’ordinamento processuale esistono due differenti nozioni di «ausiliario» del magistrato.
Ai sensi dell’articolo 3, comma 1, lettera n) del d.P.R. 115/2000, ai fini del pagamento delle dovute competenze sono ausiliari del magistrato «il perito, il consulente tecnico, l’interprete, il traduttore e qualunque altro soggetto competente, in una determinata arte o professione o comunque idoneo al compimento di atti, che il magistrato o il funzionario addetto all’ufficio può nominare a norma di legge».
Ai sensi dell’articolo 373 cod. proc. pen., invece, l’«ausiliario del pubblico ministero» (così come l’ausiliario del giudice ex art. 126) è colui che assiste il pubblico ministero e redige i verbali.
L’articolo 197 cod. proc. pen., alla lettera d) prevede che non possono assumere la veste di testimoni «coloro che nel medesimo procedimento svolgono o hanno svolto la funzione di giudice, pubblico ministero o loro ausiliario, nonché il difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva e coloro che hanno formato la documentazione delle dichiarazioni e delle informazioni assunte ai sensi dell’articolo 391-ter», con ciò rendendo evidente che l’incompatibilità si riferisce solo agli ausiliari di cui all’articolo 373 del codice di rito (Sez. 5, n. 17951 del 07/02/2020, Zilio, Rv. 279175 – 02: «sussiste l’incompatibilità con l’ufficio di testimone solo per l’ausiliario in senso tecnico, che appartiene al personale della segreteria o della cancelleria dell’ufficio giudiziario, e non invece in relazione ad un esperto, estraneo all’amministrazione giudiziaria, che abbia svolto occasionalmente funzioni di ausiliario della polizia giudiziaria in fase di indagini preliminari»; in tal senso, anche Sez. 5, n. 32045 del 10/06/2014, Colombo, Rv. 261652 - 01).
1.6. Il motivo relativo al lamentato «travisamento del fatto e della prova» (pag. 19 ricorso) è inammissibile in quanto totalmente svolto in fatto, risolvendosi nella mera contestazione della «correttezza» della motivazione (sufficienza o meno dell’«esame visivo» dei materiali ai fini della loro classificazione), territorio in cui il sindacato della Corte non può certamente spingersi.
Il Collegio evidenzia come, anche di recente, la Corte (Sez. 3, n. 16355 del 16/03/2023, Abom), abbia affermato che «l’accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto, ai sensi dell’art. 183 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 costituisce una questione di fatto, demandata al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, se, come nel caso in esame, sorretta da motivazione esente da vizi logici o giuridici (v. Sez. 3, n. 25548 del 26/03/2019, Schpeis, Rv. 276009; Sez. 3, n. 7037 del 18/01/2012, Fiorenza, Rv. 252445), anche perché tale qualificazione non deve necessariamente basarsi su un accertamento peritale, potendo legittimamente fondarsi, come nel caso in esame, anche su elementi probatori, quali le dichiarazioni testimoniali, i rilievi fotografici o gli esiti di ispezioni e sequestri (v. Sez. 3, n. 33102 del 07/06/2022; Bartucci, Rv. 283417; conf. Sez. 3, n. 7705 del 1991, Rv. 18780)».
Non può del resto non evidenziarsi come (pagina 8 della sentenza), in ordine alla tipologia e composizione del materiale, il Tribunale evidenzi che il teste Garattoni, ufficiale di P.G., all’udienza 29/09/2020 ha riferito che si trattava di enormi cumuli (stimati successivamente da ARPA in circa 130.000 tonnellate e poco più di 55.000 mc) di materiale prevalentemente prevalentemente inerte, frammisto a plastica, legno, metalli, scorie metalliche e scarti di fonderia, visibili anche dalla strada e posti nelle vicinanze di un affluente del fiume Mincio, l’affluente Goldone, in area sottoposta a vincolo paesaggistico; tale circostanza veniva confermata dal teste Zappavigna all’udienza 29/01/2021; dal Dr. Quaresmini sia nella sua relazione che nell’escussione all’udienza 19/11/2021; dal Dr. Oneda, il quale confermava la presenza di 5 cumuli i materiali che dal punto di vista merceologico potevano essere raggruppati in quattro categorie: materiale in ingresso costituito da una miscela di rifiuti fini e grossolani; materiale in uscita dal trattamento costituito da materiale fine; materiale in uscita dal trattamento costituito da materiale grossolano definito in planimetria come «sopravaglio»; terre e rocce da scavo. A pagina 9 della sentenza, poi, il giudice rappresenta inoltre come le dichiarazioni anzidette «trovano evidente conferma da quanto riprodotto nelle fotografie eseguite in occasione del sopralluogo del 15/04/2016».
Il motivo, pertanto, risulta del tutto inammissibile in quanto volto a censurare vizi di motivazione (v. par. 1.1., cui si rimanda).
1.7. Altrettanto inammissibili sono i motivi relativi alla valutazione della documentazione relativa ai rapporti commerciali tra Mantovagricoltura e FAMAC e alla illegittimità della dichiarata inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da Previdi Natale, Previdi Paolo e Previdi Carlo, profili astrattamente censurabili sotto il profilo della «omessa» o «apparente» motivazione.
Sul primo punto, la sentenza impugnata precisa che la deposizione del teste Quaresmini ha chiarito che il materiale contenuto nei cumuli, anche se in ipotesi proveniente da Mantovagricoltura, stante la sua natura eterogenea, non avrebbe potuto essere utilizzato nel processo produttivo di FAMAC (pag. 12), con ciò escludendo implicitamente la rilevanza della documentazione prodotta (in quanto non comproverebbe la sussistenza del requisito del riutilizzo «certo») e sottraendosi al sindacato di legittimità.
Sul secondo punto, la sentenza impugnata (che sul punto – pagina 11 – motiva ampiamente) ha fatto ineccepibile applicazione dell’articolo 228, comma 3, cod. proc. pen., che esclude qualsiasi utilizzabilità delle dichiarazioni rese dagli indagati a periti e consulenti tecnici che non siano funzionali allo svolgimento dell’incarico, espungendo dal materiale probatorio ogni riferimento a tali dichiarazioni.
La censura in realtà è volta a dimostrare che, anche senza tali dichiarazioni, la prova della provenienza del materiale rinvenuto presso FAMAC fosse evidente e tale da condurre certamente all’assoluzione. Al contrario, a pagina 12 della sentenza impugnata si precisa che «epurati i verbali di udienza dalle dichiarazioni dei CT della difesa che riportano presunte dichiarazioni rese dai Previdi sull’uso che ne facevano del materiale dei cumuli, va evidenziato che la circostanza secondo la quale il materiale venisse utilizzato dalla FAMAC, è riferito, appunto, solo dai consulenti della difesa. Questa circostanza è, invece, è stata categoricamente smentita non solo dai testi che erano dipendenti della Famac (di cui si è già detto), ma anche dal dottor Quaresmini, che ha negato decisamente che quel materiale potesse essere utilizzato, per le sue qualità, nel processo produttivo di Famac. Ad analoghe conclusioni deve giungersi anche valutate le dimensioni dei cumuli e la composizione del materiale degli stessi (miscellanea di rifiuti)».
La motivazione non appare mancante, né apparente, con conseguente inammissibilità dei motivi.
1.8. In riferimento alla parte della doglianza secondo cui la declaratoria di prescrizione potrebbe esporre il ricorrente ad azioni di responsabilità da parte della società chiamata a rispondere ai sensi del d. lgs. 231/2001, la Corte ritiene che essa sia inammissibile.
Ed infatti, ha in precedenza chiarito (v. Sez. 6, n. 41768 del 22/06/2017, Rv. 271287) come sia inammissibile per difetto di interesse il ricorso per cassazione proposto dall’imputato avverso sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, emessa con riferimento a reato presupposto della responsabilità da reato degli enti, non essendo configurabile un autonomo interesse dell’imputato neppure nel caso in cui dalla responsabilità dell’ente possano discendere conseguenze economiche indirette o riflesse per la sua posizione di socio o amministratore.
1.9. Conclusivamente, la Corte ritiene che, alla luce delle sovraesposte considerazioni, non sussistano i presupposti di quella «evidenza» di innocenza che consentirebbe di rilevare, ictu oculi, la prevalenza di una causa di assoluzione rispetto all’estinzione del reato per prescrizione.
I motivi vanno pertanto dichiarati inammissibili.
2. Tutti i motivi relativi al Capo 11) di incolpazione, in punto di affermazione di responsabilità, sono inammissibili per difetto di specificità.
2.1. La Corte ritiene opportuno prendere le mosse dalla propria precedente pronuncia resa nel giudizio cautelare (Sez. 3, n. 38753 del 09/07/2018, Rv. 273710), che riporta in modo chiaro il quadro normativo (incidentalmente, il Collegio evidenzia come non sussista alcuna ipotesi di incompatibilità, posto che - Sez. 6, n. 9388 del 03/02/2021, Alampi, Rv. 280716 - 01 - «il giudice della Corte di Cassazione, che abbia partecipato alla decisione sul ricorso cautelare, non è incompatibile a trattare il giudizio sul ricorso avverso la sentenza di condanna proposto dal medesimo imputato, posto che il giudizio di legittimità, avente ad oggetto la verifica della corretta applicazione delle norme e dell’insussistenza nella motivazione dei vizi di contraddittorietà o di manifesta illogicità, non comporta una valutazione nel merito della vicenda concreta neanche nel caso di travisamento della prova, essendo lo scrutinio comunque limitato alla verifica della logica interna della decisione di merito», circostanza del resto non dedotta, correttamente, dal ricorrente).
La predetta sentenza ha affermato che «la necessità dell’AIA per le installazioni che svolgono le attività di cui all’Allegato VIII alla Parte Seconda del d.lgs. 152/06 è stabilita dall’art. 6, comma 13 del medesimo decreto legislativo. L’autorizzazione è rilasciata secondo le procedure stabilite dagli artt. 29-bis e ss. del d.lgs. l’allegato VIII alla Parte Seconda del d.lgs. 152/06 ha subito anch’esso l’ultima modifica ad opera del d.lgs. 46/2014, che ne ha disposto, con l’art. 26, comma 1, l’integrale sostituzione. Esso individua le categorie di attività di cui all’articolo 6, comma 13 citato e vi comprende ora il trattamento di scorie e ceneri, in precedenza non previsto. Il d.lgs. 46/2014, in considerazione delle modifiche apportate alla disciplina di settore, contiene, nell’art. 29, alcune disposizioni transitorie che riguardano specificamente, al comma 3, i gestori delle installazioni esistenti che non svolgono attività già ricomprese all’Allegato VIII alla Parte Seconda del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, come introdotto dal decreto legislativo 29 giugno 2010, n. 128, i quali erano tenuti a presentare istanza per il primo rilascio della autorizzazione integrata ambientale, ovvero istanza di adeguamento ai requisiti del Titolo III-bis della Parte Seconda, nel caso in cui l’esercizio debba essere autorizzato con altro provvedimento, entro il 7 settembre 2014. Il successivo comma 3 impone all’autorità competente al rilascio del titolo abilitativo il completamento dei procedimenti, avviati in esito alle istanze di cui al comma 2, entro il 7 luglio 2015, consentendo, nelle more, la prosecuzione dell’attività in base alle autorizzazioni previgenti, se del caso opportunamente aggiornate a cura delle autorità che le hanno rilasciate, a condizione di dare piena attuazione, secondo le tempistiche prospettate nelle istanze di cui al comma 2, agli adeguamenti proposti nelle predette istanze, in quanto necessari a garantire la conformità dell’esercizio dell’installazione con il titolo III-bis della parte seconda del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 e successive modificazioni. L’art. 5, comma 1, lett. i-quater d.lgs. 152/06 definisce la "installazione" come "unità tecnica permanente, in cui sono svolte una o più attività elencate all’allegato VIII alla Parte Seconda e qualsiasi altra attività accessoria, che sia tecnicamente connessa con le attività svolte nel luogo suddetto e possa influire sulle emissioni e sull’inquinamento. E’ considerata accessoria l’attività tecnicamente connessa anche quando condotta da diverso gestore". L’art. 5, comma 1, lett. i-quinquies definisce la "installazione esistente" come quella che, "al 6 gennaio 2013, ha ottenuto tutte le autorizzazioni ambientali necessarie all’esercizio o il provvedimento positivo di compatibilità ambientale o per la quale, a tale data, sono state presentate richieste complete per tutte le autorizzazioni ambientali necessarie per il suo esercizio, a condizione che essa entri in funzione entro il 6 gennaio 2014. Le installazioni esistenti si qualificano come “non già soggette ad AIA” se in esse non si svolgono attività già ricomprese nelle categorie di cui all’Allegato VIII alla Parte Seconda del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, come introdotto dal decreto legislativo 29 giugno 2010, n. 128".
La pronuncia, nel rimarcare che «proprio le specifiche finalità indicate dal legislatore ed, in ogni caso, desumibili dal complesso delle norme solo in parte in precedenza richiamate, impongono una rigorosa e restrittiva interpretazione, tale da non vanificare gli effetti di questa particolare disciplina e che, pare quasi superfluo precisano, non può prescindere da una altrettanto rigorosa disamina dei contenuti del titolo abilitativo e della corrispondenza tra quanto autorizzato e le condizioni effettive di svolgimento dell’attività, senza che tale verifica possa arrestarsi di fronte alla mera disponibilità dell’autorizzazione», conclude nel senso che «se l’AIA è richiesta per le "installazioni" che svolgono le attività descritte nell’Allegato VIII (art. 6, comma 13) e se tra le installazioni rientra qualsiasi altra attività accessoria, che sia tecnicamente connessa con le attività svolte e possa influire sulle emissioni e sull’inquinamento, è evidente che tale connessione non può che riferirsi comunque ad attività comprese tra quelle elencate nel suddetto allegato e non anche riferibili ad altre attività eventualmente svolte nel medesimo insediamento, con la conseguenza che l’AIA rilasciata per attività non comprese nell’Allegato VIII alla Parte Seconda del d.lgs. 152/06 prima delle modifiche apportate dal d.lgs. 46/2014 comporta l’applicazione della disciplina transitoria di cui all’art. 29 del citato decreto legislativo e la conseguente necessità di una nuova istanza di rilascio dell’AIA, ovvero di una istanza di adeguamento».
Il principio è stato riaffermato da Sez. 4, n. 18835 dell’11/04/2019, in cui la Corte era stata nuovamente adita nella prosecuzione della fase cautelare: «se l’AIA è richiesta per le "installazioni" che svolgono le attività descritte nell’Allegato VIII (art. 6, comma 13) e se tra le installazioni rientra qualsiasi altra attività accessoria, che sia tecnicamente connessa con le attività svolte e possa influire sulle emissioni e sull’inquinamento, è evidente che tale connessione non può che riferirsi comunque ad attività comprese tra quelle elencate nel suddetto allegato e non anche riferibili ad altre attività eventualmente svolte nel medesimo insediamento, con la conseguenza che l’AIA rilasciata per attività non comprese nell’Allegato VIII alla Parte Seconda del d.lgs. 152/06 prima delle modifiche apportate dal d.lgs. 46/2014 comporta l’applicazione della disciplina transitoria di cui all’art. 29 del citato decreto legislativo e la conseguente necessità di una nuova istanza di rilascio dell’AIA, ovvero di una istanza di adeguamento».
2.2. Rispetto al quadro normativo e ai profili giuridici già oggetto di valutazione da parte di questa Corte, che il Collegio ribadisce, la difesa adduce che la circolare del MATTM del 17 giugno 2015 (n. 12422, «Ulteriori criteri sulle modalità applicative della disciplina in materia di prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento alla luce delle modifiche introdotte dal d.lgs. 4 marzo 2014, n. 46») prevede che, per le «attività tecnicamente connesse e coinsediate», già autorizzate in AIA (nel caso di specie l’attività era quella di cui al punto 6.5) ma entrate in IPPC successivamente al citato decreto legislativo, non vi sia obbligo di richiedere l’AIA (come modifica sostanziale), ma essa andrà aggiornata in occasione del primo riesame dell’attività IPPC principale (considerazioni analoghe sarebbero state svolte dalla Regione Lombardia nella circolare dell’8/04/2014).
Tale affermazione, che introduce un profilo di parziale novità rispetto ai precedenti dicta della Corte, necessita delle seguenti precisazioni.
Sovente, nella prassi, accanto ad una attività autorizzata in AIA vi sono altre attività, collegate alla prima, per le quali non è previsto tale titolo autorizzativo. Si parla in proposito di «attività tecnicamente connesse». Si è visto in precedenza come l’AIA sia richiesta per ogni «installazione» in cui sono svolte una o più attività elencate all’allegato VIII alla Parte Seconda e come l’articolo 5, lett. I-quater, del testo unico precisi che il concetto di «installazione» include, oltre all’«unità tecnica permanente», anche «qualsiasi altra attività accessoria, che sia tecnicamente connessa con le attività svolte nel luogo suddetto e possa influire sulle emissioni e sull’inquinamento».
La circolare del Ministero dell’ambiente del 27 ottobre 2014, prot. 22295, emanata a chiarimenti del decreto legislativo 46/2014, precisa che, come «attività accessoria», si intende una attività:
1. svolta nello stesso sito dell’attività IPPC, o in un sito contiguo e direttamente connesso al sito dell’attività IPPC per mezzo di infrastrutture tecnologiche funzionali alla conduzione dell’attività IPPC e
2. le cui modalità di svolgimento hanno «qualche implicazione tecnica» con le modalità di svolgimento dell’attività IPPC (in particolare nel caso in cui il loro fuori servizio determina direttamente o indirettamente problemi all’esercizio dell’attività IPPC).
Il Collegio rileva come la stessa Circolare del MATTM del 17 giugno 2015, n. 12422, citata dalla difesa, all’articolo 1 precisa che «se nell’ambito di installazioni già dotate di autorizzatone integrata ambientale (AIA) ai sensi della precedente normativa ci sono parti non esplicitamente autorizzate con AIA (ad esempio perché gestite da un diverso gestore) esse potranno essere dotate di AIA in occasione del primo riesame o aggiornamento sostanziale dell’autorizzazione che si renderà necessario, ma ad esse non sono applicabili le scadenze (7 settembre 2014 e 7 luglio 2015) previste nell’articolo 29, commi 2 e 3, del D.Lgs. 46/2104. Per tali parti, essendo tecnicamente connesse ad una attività già soggetta alla disciplina IPPC, l’applicazione delle migliori tecniche disponibili era difatti già richiesta e garantita, o con le autorizzazioni specifiche non AIA, o attraverso opportune disposizioni dell’AIA già vigente per l’attività IPPC», salvo precisare che «diverso è il caso per di attività assoggettate alla disciplina IPPC solo a seguito dell’emanazione del D.lgs. 46/2014, coinsediate ad un impianto già dotato di AIA, ma non tecnicamente connesse ad esso. Tali attività, difatti, ai sensi del D.Lgs. 46/2104 sono soggette alla scadenza del 7 settembre 2014, poiché rientrano in una distinta installazione, nella quale non sono svolte attività già soggette ad AIA».
Nel premettere, confermando la propria giurisprudenza (Sez. U. Civ. n. 23031 del 2/11/2007; Sez. 3, Ord. n. 6619 del 07/02/2012, Zampano, Rv. 252541 – 01; Sez. 3, n. 19330 del 27/04/2011, Santoriello, n.m.), che le circolari ministeriali costituiscono un mero ausilio interpretativo e non esplicano alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari, poiché non possono comunque porsi in contrasto con l’evidenza del dato normativo, la Corte evidenzia come punto focale della valutazione è nel caso di specie stabilire se la porzione di attività svolta da Mantovagricoltura, entrata in AIA (circostanza non contestata dal ricorrente) per effetto del decreto legislativo n. 46/2014 come IPPC 5.3 b.3 (trattamento di scorie e ceneri), fosse «tecnicamente connessa» all’attività principale dell’azienda, ossia l’attività IPPC 6.5. («eliminazione e smaltimento delle carcasse animali»).
2.3. Sul punto, la sentenza impugnata (pag. 24), nel riportare la deposizione del teste Garattoni, ufficiale di polizia giudiziaria, evidenzia come tale attività fosse «smarcata dall’attività, in teoria, principale di Mantova Agricoltura, che non era la lavorazione di inerti, ma la lavorazione di rifiuti organici. Mi spiego meglio. Mantova agricoltura aveva, dalla nostra analisi e da quella dei tecnici barba, una autorizzazione integrata ambientale prevista al punto 6.5 delle attività di IPPC previste dal testo unico ambientale, l’allegato 8 se non ricordo male … Questa autorizzazione, la 6.5, riguardava la lavorazione di 20.000 tonnellate l’anno di rifiuti organici per la produzione di fertilizzanti, insomma, quella era la loro attività cardine. Marginalmente, in teoria, all’inizio marginalmente, avevano iniziato anche a trattare - questo l’avevamo appurato poi facendo un’analisi storica delle loro attività - anche gli inerti. Il trattamento avveniva o, meglio, la nuova autorizzazione per la lavorazione di inerti era iniziata in procedura semplificata; ma vuol dire che l’attività principale era e rimaneva l’attività IPPC 6.5, l’AIA; all’interno dell’AIA c’era un’autorizzazione secondaria, chiamiamola così, in procedura semplificata … che riguardava se non ricordo m 60.000 tonnellate l’anno … leggendo l’atto c’erano delle discrepanze rispetto a quanto previsto dalla norma … per la legge la procedura semplificata è previsto che quanto entri in azienda tanto può essere lavorato … la cosa che balzava di più all’occhio era il fatto della lavorazione di scorie e ceneri che non era prevista o, meglio, in base al decreto 46 la società avrebbe avuto la necessità di una nuova autorizzazione che non aveva».
Dal brano estrapolato dalla sentenza emerge in modo chiaro come l’attività di produzione e gestione di scorie e ceneri fosse effettivamente tecnicamente connessa ad altra attività, ma non a quella autorizzata in AIA (gestione di carcasse animali), bensì a quella che Mantova Agricoltura svolgeva in forma semplificata (pur essendo di fatto divenuta l’attività principale, e svolta per quantitativi superiori rispetto a quelli gestibili in forma semplificata, v. teste Garattoni sul punto) ed aveva ad oggetto la gestione di rifiuti inerti.
Il giudice, infatti, conclude (pag. 29) nel senso che «l’attività di gestione di rifiuti per scorie e ceneri è attività connessa all’attività di gestione di inerti per l’edilizia (e non certo all’attività di gestione di carcasse e residui animali) e che pertanto tale attività andava autorizzata con AIA da richiedere nei brevi termini previsti dalla novella normativa».
Il motivo è pertanto manifestamente infondato.
2.4. Sostengono i ricorrenti che l’attività di gestione di ceneri e scorie fosse svolga legittimamente in forza dell’AIA rinnovata in data 30 gennaio 2013 n. 21/12, il cui allegato tecnico individuava, tra i codici CER dei rifiuti autorizzati, anche le scorie di fusione e le ceneri, poi «adeguata» nel 2018, ciò da cui discenderebbe la liceità della gestione di tali rifiuti.
La questione richiede un breve passaggio sulle pronunce del giudice amministrativo prodotte dalla difesa di parte civile Provincia di Mantova in sede di discussione.
La sentenza n. 405/2023 del T.A.R. Brescia (che conferma la propria precedente statuizione n. 748/2019, relativa alla comunicazione di avvio del procedimento di revoca dell’autorizzazione), in particolare, sottolinea in premessa come con Atto Dirigenziale in data 5.11.2019 sia stato disposto l’annullamento dell’AIA rilasciata nel 2018 a Mantovagricoltura, con particolare riferimento all’attività di gestione di rifiuti inerti R5.
Evidenzia il giudice amministrativo che «le attività di recupero rifiuti svolte presso il sito di -OMISSIS- sono state autorizzate con una prima AIA nel 2007, che è stata oggetto di successive modifiche e integrazioni, fino all’AIA del 2013. Quest’ultima è stata oggetto di aggiornamento normativo con la determinazione n. -OMISSIS-del 24/10/2014, che però ha riguardato soltanto l’attività di produzione fertilizzanti I.P.P.C. e non l’attività di trattamento scorie e ceneri. Infatti in data 20/5/2014, la ricorrente aveva presentato domanda di modifica sostanziale dell’AIA 2013 riferita alla realizzazione di 5 autoclavi e di un nuovo trituratore per la trasformazione di scarti di origine animale con aumento della capacità di produzione di fertilizzanti; per quanto riguarda l’attività R5 non era previsto alcun intervento a parte il mero ampliamento dell’area E, di stoccaggio dei prodotti finiti. Né il contenuto dell’AIA 2013 per il trattamento rifiuti inerti IPPC è stato aggiornato con il provvedimento n. -OMISSIS- del 29 giugno 2018. Nell’ambito del procedimento di riesame sull’intera installazione ex articolo 29 octies, comma 4 lett. a) del d.lgs. 152/2006, attivato d’ufficio, la Provincia, preso atto della parziale revoca del sequestro preventivo all’epoca disposta con ordinanza del Tribunale di Mantova n. -OMISSIS-, ha approvato -infatti- l’aggiornamento dell’AIA vigente in relazione all’attività di recupero rifiuti R5 confermando le prescrizioni esistenti. L’attività di produzione inerti per l’edilizia è quindi disciplinata al punto B. 4.2 dell’allegato tecnico dell’AIA 2018 negli stessi termini già previsti nell’AIA 2013. I successivi provvedimenti adottati dall’autorità giudiziaria ordinaria hanno superato l’interpretazione avvallata con la prima pronuncia del Tribunale del riesame, sulla base della quale era stato rilasciato l’aggiornamento 2018, ritenendo insufficiente titolo autorizzativo per l’attività di recupero inerti non solo l’AIA del 2013, ma – con la più recente pronuncia – anche l’aggiornamento del 2018. La III sezione della Cassazione penale con sentenza 21 agosto 2018, n. -OMISSIS- ha infatti annullato l’ordinanza del Tribunale del riesame secondo cui doveva considerarsi ancora valida l’AIA rilasciata nel 2013 con riferimento ad attività all’epoca non qualificate IPPC. Ha ricordato la Corte di Cassazione che il d.lgs. n. 46 del 2014, nel modificare il d.lgs. n. 152 del 2006, ha disciplinato la fase transitoria all’articolo 29, commi 2 e 3, secondo i quali i gestori delle installazioni esistenti che non svolgevano attività già ricomprese all’Allegato VIII alla Parte Seconda del d.lgs. 152/2006, come introdotto dal d.lgs. 29 giugno 2010, n. 128, erano tenuti a presentare istanza per il primo rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale, ovvero istanza di adeguamento ai requisiti del Titolo III-bis della Parte Seconda, nel caso in cui l’esercizio dovesse essere autorizzato con altro provvedimento, entro il 7 settembre 2014. In sostanza i gestori di installazioni esistenti al momento dell’entrata in vigore del decreto erano tenuti ad adeguare, entro termini stabiliti, la propria attività al nuovo regime autorizzatorio richiesto e, quindi, con l’avvio del procedimento previsto dal d.lgs. n. 152 del 2006, artt. 29-bis e seguenti finalizzati ad imporre, per tali specifiche attività, l’applicazione dei più rigorosi presidi ambientali imposti dall’ordinamento. L’autorità competente avrebbe dovuto rilasciare il titolo abilitativo con il completamento dei procedimenti avviati in esito a tali istanze entro il 7 luglio 2015, consentendo, nelle more, la prosecuzione dell’attività in base alle autorizzazioni previgenti, se del caso opportunamente aggiornate. Sicché “il mancato adeguamento nei termini e la prosecuzione dell’attività, ormai rientrante nell’allegato 8, configura la violazione dell’art. 29-quaterdecies, comma 1, perché effettuata in assenza di AIA”. Anche il Tribunale di Mantova, in sede di giudizio di rinvio, ha osservato che risulta pacifico che -OMISSIS- svolge attività rientrante nell’allegato VIII della parte II del d.lgs. 152/2006 distinta dall’attività IPPC di produzione fertilizzanti e che dalla novella del 2014 tale attività è soggetta ad AIA, che la società non ha mai presentato un’istanza di adeguamento ai nuovi standard ma solo di “rinnovo” della precedente autorizzazione, poi effettivamente rilasciata ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 29 octies T.U.A. e che tale domanda non può considerarsi equipollente ad un’istanza di rilascio e/o adeguamento né sotto il profilo formale, né sotto quello sostanziale, poiché il provvedimento lascia invariato il quadro BAT autorizzato (“Best available techniques”, cioè le migliori tecniche disponibili stabilite a livello Eurounitario)».
Ad analoghe conclusioni è del resto giunto anche il Consiglio di Stato che, adito avverso la sentenza TAR Brescia n. 748/2019, citata in precedenza, nella sentenza n. 305/2023 (prodotta in udienza dalla parte civile Provincia di Mantova), precisa sul punto che «l’autorizzazione contenuta nell’A.I.A. 2015 riferita all’attività R5, comprensiva del trattamento di scorie e ceneri, non essendo attività tecnicamente connessa all’attività IPPC 6.5, era soggetta alla disciplina transitoria di cui all’art. 29 del d.lgs. n. 46 del 2014 e dunque non era più efficace».
Non sussiste dubbio alcuno, pertanto, sulla illegittimità della originaria determinazione, successivamente annullata in autotutela, e sulla conseguente permanenza dell’illecito durante tutto il periodo contestato.
2.5. Sul punto, il Collegio evidenzia come la Corte, nel contiguo settore delle autorizzazioni urbanistiche, abbia affermato che (Sez. 3, n. 12389 del 21/07/2017, Minosi, Rv. 271170 - 01) l’attività svolta dal giudice in presenza di un titolo abilitativo edilizio illegittimo consiste nel valutare la sussistenza dell’elemento normativo della fattispecie e non nel disapplicare l’atto amministrativo o effettuare comunque valutazioni proprie della pubblica amministrazione, e che «in disparte l’ipotesi dell’illiceità del provvedimento, la illegittimità rilevante per il giudice penale non può che essere quella derivante dalla non conformità del titolo abilitativo alla normativa che ne regola l’emanazione o alle disposizioni normative di settore, dovendosi, al contrario, radicalmente escludersi la possibilità che il mero dato formale dell’esistenza del permesso di costruire possa precludere al giudice penale ogni valutazione in ordine alla sussistenza del reato», per concludere nel senso che «l’attività svolta dal giudice in presenza di un titolo abilitativo edilizio illegittimo consiste quindi nel valutare la sussistenza dell’elemento normativo della fattispecie e non nel disapplicare l’atto amministrativo o effettuare comunque valutazioni proprie della P.A.» (Conformi: Sez. 3, n. 46477 del 13/07/2017, Menga, Rv. 273218 – 01; Sez. 3, n. 56678 del 21/09/2018, Iodice, Rv. 275565 – 01).
Tale principio può essere agevolmente esportato nell’ambito delle autorizzazioni ambientali, in riferimento alle quale deve essere affermato il principio di diritto secondo cui « In presenza di un provvedimento amministrativo, che autorizza la gestione di rifiuti, non conforme alla normativa che ne regola l’emanazione o alle disposizioni normative di settore, il giudice deve valutare la sussistenza dell’elemento normativo della fattispecie, senza disapplicare l’atto amministrativo illegittimo».
2.6. Del tutto irrilevante appare poi la deduzione secondo cui dalla relazione ARPA del 14/12/2015 risulterebbe che le «BAT» di settore fossero correttamente applicate, posto che la violazione contestata è una violazione formale che sanziona l’assenza di titolo autorizzativo per una attività in sé considerata, e non anche le «modalità» di svolgimento di tale attività.
2.7. Conclusivamente, la sentenza impugnata applica in modo corretto la nozione di «attività tecnicamente connessa» alle risultanze processuali (essendo di solare evidenza la mancanza di correlazione tecnica tra la gestione di carcasse di animali e la gestione di scorie e ceneri), con motivazione con cui il ricorso non si confronta affatto, limitandosi ad una alternativa ricostruzione della normativa vigente, disancorata dalle emergenze processuali e, pertanto, inammissibile.
Deve quindi essere fatta applicazione del principio, già affermato da questa Corte, secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che «risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione» (Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
3. Manifestamente infondato è poi il motivo secondo cui mancherebbe l’elemento psicologico del reato, in quanto il ricorrente sarebbe stato tratto in inganno dalle indicazioni ministeriali e regionali.
In punto di elemento psicologico del reato, ritiene la Corte che l’«inevitabilità» dell’ignoranza della legge (Sez. 3, n. 1131 del 3/12/2020, dep. 2021, Rizzo, n.m.) «per il comune cittadino è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia», ma che tale obbligo «è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una culpa levis nello svolgimento dell’indagine giuridica. Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto (Sez. U, n. 8154 del 10/06/1994 – dep. 18/07/1994, P.G. in proc. Calzetta, Rv. 197885)».
Le Sezioni Unite della Corte, nella citata sentenza, hanno precisato altresì che il dovere di informazione non va valutato «in astratto», bensì in relazione all’attività svolta dal soggetto che allega la scusabilità dell’ignoranza, sussistendo in relazione all’attività svolta il preciso dovere giuridico di conoscere le disposizioni di legge e della tecnica che la regolano (articolo 43 c.p.).
Per l’effetto, mentre per il comune cittadino l’inevitabilità dell’errore va riconosciuta ogniqualvolta l’agente abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto «dovere di informazione» attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia, per coloro che svolgono professionalmente una determinata attività tale obbligo di informazione è particolarmente rigoroso, tanto che essi rispondono dell’illecito anche in virtù della culpa levis nello svolgimento dell’indagine giuridica.
Con riferimento alla gestione di rifiuti, la Corte ha inoltre precisato che «in tema di illecita gestione di rifiuti si deve escludere l’ipotesi della buona fede quando la fallace interpretazione del contenuto della autorizzazione e la erronea convinzione di possedere un titolo legittimante è dovuta ad un comportamento colposo poiché in tal caso l’imputato è venuto meno al dovere, che grava sui privati che svolgono in modo professionale attività normativamente regolate, di accertare con diligenza quale sia la disciplina del settore» (Sez. 3, n. 31159 del 12/06/2008, Simonetti, n.m.).
Nel caso di specie, alla luce delle sovraesposte considerazioni, emerge con chiarezza come, nel corso degli anni, Mantovagricoltura avesse progressivamente spostato il centro della propria attività dal settore della gestione delle carcasse animali a quello degli inerti (si vedano, a pag. 23-25 della sentenza, le dichiarazioni del teste Garattoni sulla capacità produttiva della società estrapolata dai MUD e dal sistema ORSO), e che l’attività di gestione di scorie e ceneri fosse correlata non già all’attività autorizzata in AIA ma a quella svolta in forma semplificata, circostanza che non poteva essere ignota al legale rappresentante.
Inoltre, è ciò è decisivo, al paragrafo che precede si è evidenziato come Mantovagricoltura sarebbe stata tenuta a munirsi di AIA nel termine breve previsto dal d. lgs. 46/2014. Nessuna «induzione in errore», né «ignoranza inevitabile» può essere quindi lamentata dall’imputato, posto il chiaro tenore letterale della norma e delle stesse circolari ministeriali invocate.
Correttamente, pertanto, il Tribunale di Mantova esclude la sussistenza di un errore sul fatto (pag.30), poiché «nel caso di specie la normativa era chiara, l’attività di gestione delle scorie non era certamente connessa ad altra attività IPPC già esercitata dalla società e, quindi, era necessario presentare domanda di modifica sostanziale dell’AIA».
4. Parzialmente fondata è invece la doglianza relativa alla asserita violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. in riferimento all’articolo 452-novies cod. pen..
4.1. Ed infatti, la norma (c.d. «aggravante ambientale») stabilisce che «se dalla commissione del fatto deriva la violazione di una o più norme previste dal citato decreto legislativo n. 152 del 2006 o da altra legge che tutela l’ambiente»; nel caso di specie, non appare revocabile in dubbio che l’articolo 29-quatruordecies sanziona la violazione dell’obbligo di munirsi di autorizzazione integrata ambientale per le attività IPPC, per cui la prosecuzione dell’attività senza munirsi del titolo autorizzativo determina la violazione degli articoli 29-ter e seguenti del TUA.
La Corte evidenzia come il tenore letterale della norma induce a ritenere che debba escludersi che l’aggravante contenga un rinvio a sole norme penali, dovendo invece ritenersi che essa rinvii anche, e soprattutto, a norme extrapenali, volte alla tutela dell’ambiente. In linea teorica, quindi, la «violazione» di cui alla disposizione in parola, se certamente non può concernere gli articoli 29-ter e 29-sexies, relativi all’autorizzazione (che altrimenti la contestazione dell’aggravante si risolverebbe in un tautologismo sanzionatorio), potrebbe riguardare altre disposizioni, quali quelle concernenti l’utilizzo delle migliori tecniche disponibili (29-septies), il riesame periodico (29-octies), la modifica degli impianti o del gestore (29-nonies), il rispetto delle condizioni e i controlli (29-decies), le comunicazioni dovute (29-undecies).
Nel caso di specie, era contestata in rubrica la violazione dell’articolo 6, comma 13, del TUA, il quale prevede il rilascio di AIA per le modifiche sostanziali. Sul punto, tuttavia, nell’affermare la sussistenza dell’aggravante, la motivazione della sentenza è totalmente assente.
La sentenza deve quindi essere annullata con rinvio per nuovo esame sul punto.
4.2. Il Collegio precisa che non si pongono, in concreto, problemi di prescrizione del reato.
Nel caso di specie, come chiarito a pagina 30 della sentenza del Tribunale di Mantova, il sequestro preventivo dei macchinari per la gestione di ceneri e scorie era stato revocato (con provvedimento del 25/07/2019, rinvenibile in atti) e l’AIA, come visto, annullata in autotutela.
Correttamente, pertanto, la decisione impugnata richiama sul punto Sez. 3, n. 5480 del 12/12/2013, Manzo, Rv. 258930 – 01, secondo cui «qualora in un reato permanente la condotta venga interrotta e successivamente ripresa, il termine della prescrizione decorre dal momento della cessazione finale (Fattispecie in tema di attività edilizia abusiva, ripresa dopo la sospensione determinata dall’esecuzione di sequestro preventivo)».
Il Giudice territoriale ha pertanto fatto buon governo del principio (Sez. 3, n. 68 del 25/11/2014, Patti, Rv. 261792 – 01) secondo cui «nel caso di contestazione di un reato effettuata nella forma cosiddetta “aperta”, ovvero senza indicazione della data di cessazione della condotta illecita, qualora in sede di giudizio di legittimità debba farsi dipendere un qualsiasi effetto giuridico dalla data di cessazione della permanenza, è necessario verificare in concreto se, nella motivazione del provvedimento impugnato, il giudice della cognizione abbia o meno ritenuto provato il protrarsi della condotta criminosa fino alla data della sentenza di primo grado».
Nel caso di specie, in cui il reato era stato contestato come «tuttora permanente», il termine prescrizionale ha quindi iniziato a decorrere a far data dalla sentenza di primo grado, ossia il 24/06/2022.
5. Il ricorrente censura altresì la mancanza di motivazione della sentenza nella parte in cui ha disposto la condanna dell’imputato al risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili costituite. Il motivo si articola in realtà in due distinte censure.
5.1. In primo luogo, il ricorrente lamenta che non sia stata fornita motivazione in ordine alla sussistenza di un danno in favore delle parti civili.
Il motivo è manifestamente infondato.
Come noto, la legittimazione attiva all’azione di risarcimento del «danno ambientale» in senso stretto, proprio in ragione della natura «superindividuale» del bene in questione, è riservata dall’art. 311 del TUA allo Stato, e, per esso, al Ministro dell’ambiente.
La Corte ha sul punto ribadito (Sez. 3, n. 8795 del 2/12/202, dep. 2021, Lazzarini. n.m.) che «spetta soltanto allo Stato, e per esso al Ministro dell’Ambiente, la legittimazione alla costituzione di parte civile nel procedimento per reati ambientali, al fine di ottenere il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell’interesse pubblico e generale all’ambiente».
La Corte Costituzionale, tuttavia (sent. n. 126/2016), ha stabilito che la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta «non solo al Ministero ma anche all’ente pubblico territoriale e ai soggetti privati che per effetto della condotta illecita abbiano subito un danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, diverso da quello ambientale».
Per gli «enti territoriali» la legittimazione è limitata alla richiesta di risarcimento «non del danno all’ambiente come interesse pubblico, bensì (al pari di ogni persona singola od associata) dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico, di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale» (Sez. 3, n. 911 del 10/10/2017, dep. 2018, Tombari, Rv. 272499).
La richiesta in tal caso (Sez. 3, n. 1997 del 15/11/2019, dep. 2020, Bucci, Rv. 277556 – 02) può avere ad oggetto «un danno patrimoniale e non patrimoniale», ulteriore e concreto, conseguente alla lesione di altri loro diritti particolari diversi dall’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente, pur se derivante dalla stessa condotta lesiva (in questo senso: Cass., sez. 3, sentenza n. 24677 del 9/07/2014).
La pronuncia impugnata ha fatto buon governo di tali principi, avendo proceduto a ritenere sussistente un danno patrimoniale e non patrimoniale diverso da quello ambientale in senso stretto, laddove individua, per la provincia di Mantova, il danno patrimoniale nel danno da maggiore attività amministrativa, e, il danno non patrimoniale nel danno di immagine; per quanto riguarda l’Ente Parco del Mincio, i danni patrimoniali nei costi di vigilanza e nella maggiore attività amministrativa resasi necessaria nel corso degli anni.
Si tratta, quanto al danno patrimoniale, di quel «danno da sviamento di funzione od alla funzionalità dell’Ente», o «danno da disservizio» riconosciuto in plurimi procedimenti da questa Corte (v. Sez. 3 Civ., n. 21936 del 06/07/2017, n.m.), identificabile con quello derivante dall’imposizione all’Ente pubblico del distoglimento di ingenti risorse umane e materiali dai fini istituzionali per far fronte alla grave situazione cagionata, la cui sussistenza può essere provata anche attraverso presunzioni alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza (Sez. 3 Civ., n. 8662 del 05/10/2016, dep. 2017, Rv. 643837 - 02).
Quanto al «danno di immagine», la sua risarcibilità nell’alveo del danno non patrimoniale è stata del pari confermata da questa Corte nei procedimenti per reati ambientali (Sez. 4, Sentenza n. 24619 del 27/05/2014, Rv. 259153 – 01; conforme anche Sez. 3, n. 36444 28/05/2019, Alessandroni), laddove si è affermato che tale danno «può essere rappresentato dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell'ente nel che si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell'agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell'ente e, quindi, nell'agire dell'ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l'ente di norma interagisca (v. Cass. civ., Sez. 3, n. 4542 del 22/03/2012, Rv. 621596; Sez. 3, n. 12929 del 04/06/2007, Rv. 597309)».
Sul punto (relativo all’«an» del danno risarcibile) non si ravvisa alcun difetto di motivazione, emergendo il maggiore costo in termini di attività amministrativa e di vigilanza dalla sentenza impugnata, laddove menziona i numerosi provvedimenti e controlli amministrativi resisi necessari per far fronte alle criticità concernenti la Mantovagricoltura.
In ordine al «quantum» del danno, il giudice si è inoltre attenuto alla giurisprudenza civile della Corte, secondo cui, nel liquidare il danno in via equitativa, «il giudice non è tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di un univoco e necessario rapporto di consequenzialità di ciascuno degli elementi esaminati e l’ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata. (Sez. 3 Civ., n. 22885 del 10/11/2015, Rv. 637822 - 01)».
5.2. Il ricorrente lamenta (come violazione di legge, ma indicando il vizio come 606, comma 1, lettera c), cod. proc. pen.), altresì che l’Ente Parco del Mincio non avrebbe formulato richiesta di risarcimento del danno in riferimento al Capo di imputazione sub 11).
La circostanza dedotta non è desumibile dal testo del provvedimento impugnato, in cui non vengono analiticamente descritte le conclusioni delle parti civili (pag. 15).
Inoltre, a pagina 13 ss. delle conclusioni rassegnate dalla parte civile Parco Regionale del Mincio (peraltro non allegate al ricorso), si menziona espressamente il danno relativo all’attività istruttoria afferente l’autorizzazione integrata ambientale in capo a Mantovagricoltura (v. in particolare pag. 15 conclusioni).
Il motivo è quindi inammissibile per genericità.
6. Con l’ultimo motivo di ricorso il ricorrente censura la sentenza nella parte in cui nel dispositivo ha condannato l’imputato al pagamento di una provvisionale.
Il motivo è manifestamente infondato.
A pagina 31 della motivazione della sentenza si legge infatti che «il giudice, rilevato che il dispositivo della sentenza è affetto da errore materiale in quanto ha condannato gli imputati al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva in mancanza delle condizioni di legge, avendo liquidato il danno a favore delle parti civili in via equitativa, visto l’articolo 130 c.p.p., dispone la correzione dell’errore materiale nel dispositivo nel senso che deve essere espunta la seguente condanna: “condanna gli imputati al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva pari ad euro 10.000,00 per la provincia di Mantova è pari ad euro 7.500,00 per il Parco Regionale del Mincio».
La Corte, nel premettere che (Sez. 3, n. 46588 del 03/10/2019, Bercigli, Rv. 277281 – 01) in caso di contrasto tra dispositivo e motivazione, qualora la divergenza dipenda da un errore materiale, obiettivamente riconoscibile, contenuto nel dispositivo (come, all’evidenza, nel caso di specie), è legittimo il ricorso alla motivazione per individuare l’errore medesimo ed eliminarne i relativi effetti (tra le altre, Sez. 6, n. 24157 del 1°/3/2018, Cipriano, Rv. 273269; Sez. 2, n. 13904 del 9/3/2016, Palumbo, Rv. 266660; si veda anche Sez. 4, n. 26172 del 19/5/2016, Ferlito, Rv. 267153, a mente della quale nell’ipotesi in cui la discrasia tra dispositivo e motivazione della sentenza dipenda da un errore nella materiale indicazione della pena nel dispositivo e dall’esame della motivazione emerga in modo chiaro ed evidente la volontà del giudice, potendosi ricostruire il procedimento seguito per determinare la sanzione, la motivazione prevale sul dispositivo con la conseguente possibilità di rettifica dell’errore in sede di legittimità, secondo la procedura prevista dall’art. 619 cod. proc. pen., non essendo necessarie, in tal caso, valutazioni di merito), per cui nessuna nullità della sentenza può esser ravvisata in relazione all’art. 546, comma 1, lett. f) cod. proc. pen., evidenzia come la correzione dell’errore materiale è già stata disposta in motivazione dal giudice, per cui la condanna al pagamento della provvisionale risulta già essere stata espunta dal dispositivo.
7. Il ricorso di Burato Piergiorgio:
7.1. Il primo, il secondo e il quarto motivo di ricorso sono inammissibili per le ragioni esposte in precedenza.
7.2. Il terzo motivo di ricorso lamenta l’assenza e l’illogicità della motivazione nella parte in cui ritiene che la responsabilità del Burato discenda dalla sua qualifica di «incaricato nella gestione dei rifiuti», cui il giudice ha invece negato rilevanza con riferimento alle altre imputazioni.
Il motivo è manifestamente infondato.
La sentenza impugnata, a pagina 30 precisa che «non possono valere con riferimento all’imputazione qui contestata le considerazioni svolte nella premessa perché egli sicuramente si occupava della gestione della materia dei rifiuti, come emerge dalle visure camerali della società, e quindi lo stesso va ritenuto responsabile alla pari del legale rappresentante della società». Del resto, a pagina 2 della sentenza, il giudice chiarisce anche che i dipendenti della Mantovagricoltura, escussi, hanno precisato che il Burato Piergiorgio curava il settore ambientale e i rifiuti.
Tale affermazione non appare manifestamente illogica o contraddittoria rispetto alle premesse della sentenza, in quanto del tutto ragionevole appare l’esclusione della responsabilità del Burato con riferimento ai cumuli di rifiuti rinvenuti all’interno del sito Famac, di sicura provenienza illecita e quindi al di fuori del perimetro della normale attività di impresa (non essendo emersi in concreto elementi idonei a stabilire un concorso dell’imputato nell’attività di gestione illecita di detti rifiuti), laddove al contrario l’espressa previsione di responsabilità gestionali in materia di rifiuti, risultante anche presso la Camera di Commercio, sicuramente impegna lo stesso con riferimento alle attività autorizzate (sia pure con autorizzazione viziata) di gestione degli stessi.
6.3. Il quarto motivo di ricorso lamenta l’assenza di motivazione nella dosimetria della pena, calcolata in misura prossima al massimo edittale in assenza di qualsivoglia motivazione che non si esaurisca in una mera clausola di stile.
La doglianza è manifestamente infondata.
La Corte premette che il reato in parola è punito con la pena alternativa dell’arresto fino ad un anno o dell’ammenda da 2.500 euro a 26.000 euro, per cui nella scelta di optare per la pena pecuniaria in luogo di quella detentiva, il giudice ha già manifestato di tenere in considerazione criteri di adeguamento della pena al fatto.
Inoltre, a pagina 31 della sentenza, il giudice motiva la scelta dosimetrica «alla luce della gravità del fatto e della capacità criminale dimostrata» dall’indagato.
La gravità del fatto non può che essere desunta dal complesso della motivazione della sentenza, come illustrato nel par. 2 (v. Sez. 2, n. 38818 del 07/06/2019, Rv. 277091 – 01; Sez. 4, n. 4491 del 17/10/2012, Spezzacatena, Rv. 255096 - 01: «Il difetto di motivazione, quale causa di nullità della sentenza, non può essere ravvisato sulla base di una critica frammentaria dei singoli punti di essa, costituendo la pronuncia un tutto coerente ed organico, per cui, ai fini del controllo critico sulla sussistenza di una valida motivazione, ogni punto di essa va posto in relazione agli altri, potendo la ragione di una determinata statuizione anche risultare da altri punti della sentenza ai quali sia stato fatto richiamo, sia pure implicito»).
La Corte ritiene quindi che, seppure in modo succinto, il giudice abbia motivato sufficientemente sulla dosimetria della pena.
8. Il ricorso di Mantovagricoltura.
8.1. I motivi di ricorso indicati quali 1), 1.2), 2), 3) e 4) sono inammissibili in quanto sovrapponibili a quelli presentati da Burato Fernando in riferimento alla sentenza di proscioglimento in ordine al Capo 1); il Collegio rinvia pertanto alla motivazione fornita sul punto.
8.2. Con il quinto motivo di ricorso, la ricorrente censura l’affermazione di responsabilità di Mantovagricoltura ai sensi del d. lgs. 231/2001.
Il motivo si articola in due distinte censure.
In primo luogo, si censura il difetto di prova in ordine all’effettivo interesse o vantaggio conseguito dall’ente.
In secondo luogo, si censura la mancanza di prova di «colpa di organizzazione», avendo l’ente adotta il modello di organizzazione e gestione.
Entrambi i profili sono manifestamente infondati.
8.2.1. Quanto al primo aspetto, la Corte rammenta che mentre il criterio di «interesse» esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante secondo un metro di giudizio marcatamente «soggettivo», quello del «vantaggio» assume una connotazione essenzialmente «oggettiva», come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito (Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, cit; Sez. 5, n. 40380 del 15/10/2012,; Sez. 6, n. 12653 del 25/03/2016; Sez. 2, n. 52316 del 09/12/2016; Sez. 6, n. 38363 del 2018).
L’utilizzo della disgiuntiva «o» consente di ritenere sufficiente uno solo dei due termini previsti dalla legge: Sezione Seconda Penale, Sentenza 9 gennaio 2018, n. 295 (in proc. Tarantino), ha infatti precisato che ai fini della configurabilità della responsabilità dell’ente, è sufficiente che venga provato che lo stesso abbia ricavato dal reato un vantaggio, anche quando non è stato possibile determinare l’effettivo interesse vantato ex ante alla consumazione dell’illecito e purché non sia contestualmente stato accertato che quest’ultimo sia stato commesso nell’esclusivo interesse del suo autore persona fisica o di terzi. A contrario, ed in positivo, si può quindi ritenere che «le condotte dell’agente, poste in essere nell’interesse dell’ente, sono quelle che rientrano nella politica societaria ossia tutte quelle condotte che trovano una spiegazione ed una causa nella vita societaria”. Pertanto, la definizione del “vantaggio”, va inteso come “la potenziale o effettiva utilità, ancorché non necessariamente di carattere patrimoniale, derivante dalla commissione del reato presupposto”».
Come rilevato in dottrina, l’«interesse» va inteso in senso oggettivo «come proiezione finalistica della condotta», riconoscibilmente connessa alla condotta medesima, laddove il «vantaggio» non è stato qualificato dal legislatore in termini patrimoniali (ché laddove ciò ha voluto intendere ha usato il termine «profitto»), avendo invece una portata semantica ampia, capace di comprendere anche altre tipologie di vantaggio non economico.
Il vantaggio può inoltre (Sez. 3, n. 21034 del 05/05/2022, Capicchioni, n.m.) essere valutato «anche in termini di risparmio di costi, tanto che si deve ritenere posta nell’interesse dell’ente, e dunque forte di responsabilità amministrativa, anche quella condotta che … attui le scelte organizzative o gestionali dell’ente da considerare inadeguate, con la conseguenza che la condotta, anche se non implica direttamente o indirettamente un risparmio di spesa, se è coerente con la politica imprenditoriale di cui tali scelte sono espressione e alla cui attuazione contribuisce, è da considerare realizzata nell’interesse dell’ente (cfr., Sez. 6 , n. 15543 del 19/01/2021, 2L Ecologia Servizi S.r.l., Rv. 281052)».
La sentenza impugnata, sul punto (pag. 31), stabilisce che «nel caso di specie, il reato commesso da Burato Fernando è reato evidentemente commesso nell’interesse dell’ente che ne ha tratto un’altrettanto evidente vantaggio, che consiste nell’aver utilizzato per la gestione dei rifiuti un sito senza adottare alcun presidio ambientale al di fuori di qualsiasi autorizzazione amministrativa, controllo e prestazione di garanzie fideiussorie (richieste per il sito autorizzato)».
Come appare evidente, la motivazione non è apparente, fornendo precise indicazioni in termini di vantaggio, inteso in termini di risparmio di spesa, connesso alla mancata predisposizione dei necessari presidi ambientali e alla mancata presentazione delle, altrettanto necessarie, garanzie finanziarie.
8.2.2. Anche il secondo profilo di censura è manifestamente infondato.
Ai sensi dell’art. 6 del d. lgs. 231/2001, l’ente non risponde se prova:
a) che l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;
c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lettera b).
Ai sensi del comma 2 dell’articolo 6, i M.O.G. devono rispondere alle seguenti esigenze:
a) individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati;
b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire;
c) individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati;
d) prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli;
e) introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.
È ormai dato di comune esperienza che il modello di organizzazione e gestione debba essere realizzato «su misura» (taylored) per ciascuna impresa e per ogni diversa organizzazione. Ciò, come rilevato in dottrina, soprattutto in relazione alle peculiarità dei reati ambientali, che determinano la necessità che la mappatura dei rischi sia condotta in modo specifico per ciascun reato, non essendo pienamente configurabile una modalità attuativa unitaria per il gruppo di questi reati, che possono essere commessi, nell’ambito dell’attività d’impresa, con modalità che nella pratica possono risultare estremamente eterogenee e disparate.
La Corte ha di recente osservato (Sez. 6, n. 23401 del 11/11/2021, Impregilo, Rv. 283437 - 01) che l’imputazione all’ente dell’illecito commesso dall’apicale è collegato «all’inidoneità od all’inefficace attuazione del modello stesso, secondo una concezione normativa della colpa: in estrema sintesi, l’ente risponde in quanto non si è dato un’organizzazione adeguata, omettendo di osservare le regole cautelari che devono caratterizzarla», secondo le linee dettate dal citato art. 6 del decreto.
Scendendo in concreto, a pag. 32 della sentenza impugnata si legge che «il Modello Organizzativo adottato è generico e lacunoso perché non sono state adottate e cautele organizzative e gestionali per prevedere la commissione dei reati, tra cui quello di gestione abusiva di rifiuti. Nella parte che qui interessa ed in particolare in merito ai reati ambientali, nel Modello Organizzativo viene descritta l’attività svolta ed in merito ai rifiuti si dà atto che gli stessi sono gestiti conformemente alle normative vigenti oppure mediante l’applicazione di rigide procedure di controllo sull’affidabilità dei fornitori. Non è previsto null’altro. In merito al rischio di inquinamento del suolo, sottosuolo e acque, si dà atto di procedure, istruzioni operative, rispetto dei requisiti ambientali etc., ma nulla è previsto in concreto, non sono indicate le misure da adottare e da chi (affol. 977). Il modello ha un organigramma senza indicazione delle persone che rivestono le qualifiche indicate, è previsto l’organo di vigilanza ma non risulta istituito. Pare a questo giudice che tale assetto organizzativo possa pacificamente ritenersi negligente, in senso normativo, fondato sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo (Sez. U., n. 38343 del 24/04/2014). E’ evidente che nel caso di specie sussiste una “colpa di organizzazione” dell’ente che ha consentito al suo legale rappresentante di commettere il reato, in assenza di procedure e organismi di controllo, a tutto vantaggio dell’ente stesso che ha creato un sito illegale di gestione dei rifiuti, con risparmi di spesa evidenti e consistenti. Le indicate carenze organizzative consentono di ritenere configurato l’illecito amministrativo in capo a Mantovagricoltura».
La motivazione, sul punto, non risulta né apparente né, tantomeno, illogica, essendo al contrario conforme alla giurisprudenza della Corte; è quindi del tutto infondata la censura secondo cui il giudice avrebbe operato un non consentito sillogismo «commissione del reato=responsabilità amministrativa dell’ente», avendo al contrario operato una valutazione in concreto dell’inidoneità del Modello adottato (e non efficacemente attuato, non avendo l’ente neppure proceduto alla nomina dell’organismo di vigilanza), con conseguente colpa di organizzazione.
In materia di reati ambientali, pertanto, il modello di organizzazione e gestione, per avere efficacia esimente, deve essere adottato in riferimento alla specifica struttura e tipo di attività dell’impresa, prevedendo in modo chiaro e preciso i compiti, le responsabilità individuali e gli strumenti in concreto volti a prevenire la commissione di reati contro l’ambiente; esso, inoltre, deve essere efficacemente attuato, mediante l’istituzione dell’organismo di vigilanza (salvi i casi di cui all’articolo 6, commi 4 e 4-bis, d. lgs. 231/2001) dotato di concreti poteri di controllo e la previsione di sistemi di revisione periodica, che garantiscano la «tenuta» del modello nel tempo.
Peraltro, la Corte ha evidenziato (Sez. 4, n. 38363 del 09/08/2018, Consorzio Melinda S.C.A., Rv. 274320) che «l'autonomia della responsabilità dell'ente rispetto a quella penale della persona fisica che ha commesso il reato-presupposto, prevista dall'art. 8, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, deve essere intesa nel senso che, per affermare la responsabilità dell'ente, non è necessario il definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, ma è sufficiente un mero accertamento incidentale, purché risultino integrati i presupposti oggettivi e soggettivi di cui agli artt. 5, 6, 7 e 8 del medesimo decreto, tale autonomia operando anche nel campo processuale», accertamento incidentale con cui il Giudice di merito si è cimentato ampiamente.
La Corte aggiunge, ad abundantiam, come il ricorrente abbia censurato la mera «illogicità», e non anche l’«illogicità manifesta», della pronuncia, per ciò solo risultando, in parte qua, il motivo inammissibile.
8.3. Con il sesto motivo la ricorrente censura l’applicazione della misura della confisca a carico dell’ente.
Il motivo è parzialmente fondato.
8.3.1. L’articolo 19, comma 1, del d. lgs. 231/2001 stabilisce che «nei confronti dell’ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato. Sono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede».
In questo caso, la confisca ha per oggetto beni che costituiscono il «provento» del reato (per utilizzare il lessico eurounitario), mentre il decreto non conosce l’ipotesi né del sequestro impeditivo, né dello «strumento» del reato.
La confisca in parola, secondo la prevalente giurisprudenza della Corte (v., ex plurimis, Sez. 2, n. 40226 del 23/11/2006, Bellavita, Rv. 235593 - 01), consiste in una misura sanzionatoria con funzione ripristinatoria della situazione economica precedente la commissione del fatto illecito, o, in una «una forma di prelievo pubblico a compensazione di guadagni illeciti» (Sez. U., n. 41936 del 25.10.2005, Muci, Rv. 232164 - 01).
In ordine alla nozione di profitto confiscabile, se corrisponde al vero che la giurisprudenza più risalente (Sez. U., n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Italmpianti, Rv. 239924 – 01) aveva limitato il concetto di utile confiscabile al «vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale» dal reato presupposto, va considerato che la successiva giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte ha progressivamente dilatato tale nozione.
Sez. U. n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244189 – 01, pur richiedendo ancora il nesso di diretta derivazione causale dalla condotta dell’agente, ha tuttavia ritenuto che siano confiscabili sia i beni che siano «in tutto o in parte l’immediato prodotto di una condotta penalmente rilevante», che quelli che ne costituiscono «l’indiretto profitto della stessa, siccome frutto di reimpiego da parte del reo del denaro o di altre utilità direttamente ottenuti» (c.d. «surrogati»).
Successivamente Sez. U. n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261116 - 01 (caso Thyssenkrupp) hanno precisato che il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca deve intendersi come «comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa».
Analogamente, Sez. U. n. 2014 del 30/01/2014, Gubert, Rv. 258647 – 01, ha inteso quale componente del profitto confiscabile qualsiasi utilità che sia conseguenza dell’attività criminosa, non solo in via diretta, ma anche indiretta e mediata, anche ottenuta dalla trasformazione della res originaria in altro bene.
Quanto alle Sezioni semplici, Sez. 4, n. 38363 del 09/08/2018, Consorzio Melinda S.C.A., citata, ha poi affermato che costituisce profitto confiscabile ogni effettivo «vantaggio economico indiretto, derivante dal risparmio conseguente alla posposizione delle esigenze della sicurezza del lavoro a quelle della produzione», principio che può essere ragionevolmente esteso alla materia dei presidi ambientali.
La parte del motivo che limita la confiscabilità al solo profitto di diretta e immediata derivazione del reato è, pertanto, manifestamente infondata e correttamente il Tribunale ha disposto la confisca.
8.3.2. Fondata è invece la parte di doglianza che censura la quantificazione del profitto operata dalla sentenza impugnata.
Se, infatti, la quantificazione in via equitativa costituisce una modalità corretta di quantificazione del «danno», tale criterio non può trovare applicazione in materia di confisca del «profitto» del reato, che va invece quantificato in modo «certo», sulla base delle indicazioni fornite dalle citate pronunce.
Esso potrà ben consistere in risparmi di spesa; essi, tuttavia dovranno essere quantificati in concreto dal Giudice procedendo, a mero titolo esemplificativo, ad una stima dei costi di smaltimento lecito dei rifiuti ammassati, ovvero del costo di una fidejussione relativa a tale operazione di gestione dei rifiuti.
La sentenza va pertanto annullata, limitatamente alla quantificazione della disposta confisca, per nuovo esame.
La Corte dichiara irrevocabile l’accertamento di responsabilità ai sensi dell’articolo 624 cod. proc. pen., concernendo l’annullamento un «punto» della sentenza (il quantum della confisca) funzionalmente autonomo rispetto all’accertamento della responsabilità (Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216239 – 01; Sez. 3, n. 47579 del 23/10/2003, Arici, Rv. 226646 – 01).
8.4. Il settimo motivo è fondato.
Agli atti risulta allegato il provvedimento con cui il Tribunale ha (correttamente) escluso la costituzione di parte civile nei confronti di Mantovagricoltura, ente imputato ex d. lgs. 231/2001, e quello che ha disposto la citazione di Mantovagricoltura come responsabile civile da parte della Provincia di Mantova (provvedimenti del 30/04/2019).
Non risulta, dai documenti a disposizione della Corte, analoga citazione da parte dell’Ente Parco del Mincio. Del resto, le conclusioni rassegnate dall’ente in data 13 maggio 2022 concernono esclusivamente gli imputati Fernando Burato, Francesca Burato, Piergiorgio Burato e Pierino Burato (a differenza delle conclusioni della Provincia di Mantova, che concernono anche Mantovagricoltura), e la stessa difesa dell’Ente Parco ha confermato, in udienza di trattazione orale, di non aver citato l’ente quale responsabile civile.
La sentenza, a pagina 31, condanna tuttavia «gli imputati e la responsabile civile costituita Mantovagricoltura al risarcimento dei danni, in solido con gli imputati, cagionati alle parti civili Provincia di Mantova e Parco Regionale del Mincio», così incorrendo in un evidente vizio di motivazione.
La sentenza, sul punto, va pertanto annullata senza rinvio.
8.5. Con l’ottavo e ultimo motivo, la ricorrente censura di illogicità la motivazione in riferimento alle modalità di determinazione sia del numero delle quote applicate all’ente come sanzione pecuniaria ai sensi del d. lgs. n. 231/2001, che della loro entità unitaria.
Anche in questo caso viene lamentata la mera «illogicità», e non anche l’«illogicità manifesta», della pronuncia, per ciò solo risultando il motivo inammissibile.
Ad ogni buon conto, il motivo è anche manifestamente infondato.
L’articolo 25-undecies, comma 2, lettera b), n. 1), del d. lgs. 231/2001, prevede, per la violazione del comma 1, lettera a), dell’articolo 256 del d. lgs. 152/2006, la sanzione pecuniaria fino a duecentocinquanta quote.
Il Giudice, a pagina 32 della sentenza, illustra in modo non illogico la scelta sulla dosimetria della sanzione pecuniaria, inflitta nella sua massima estensione: «Tenuto conto della gravità del fatto (immensi cumuli di rifiuti) e durata della Condotta (rilevato che i cumuli sono presenti dal 2012 fino ad oggi sul sito della Famac), del grado di responsabilità dell’ente (responsabilità massima, rilevato che il reato è stato posto in essere per interesse e a vantaggio economico consistente nel disporre di un sito illegale per la gestione di rifiuti, al di fuori del proprio sito) e il fatto che non è stata ancora posta in essere alcuna attività per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto (poichè i cumuli sono ancora sul sito Famac) o per prevenire la commissione di ulteriori illeciti (poichè non risulta essere stato adottato altro Modello organizzativo adeguato), pena equa si ritiene essere quella di 250 quote di euro 500 ciascuna. L’importo della quota è parametrato alle condizioni economiche di Mantovagricoltura che è sicuramente una società florida, di medie dimensioni».
Tale motivazione appare congrua in riferimento ai parametri seguiti per la quantificazione, non manifestamente illogica nè in contrasto con le altre risultanze processuali, destinandosi pertanto il motivo di ricorso all’inammissibilità per manifesta infondatezza.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, nei confronti di Mantovagricoltura di Burato Fernando & C. srl, limitatamente alla condanna al risarcimento del danno quale responsabile civile in favore del Parco Regionale del Mincio.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Burato Fernando e Burato Piergiorgio, limitatamente al giudizio sull’aggravante di cui all’articolo 452-novies cod. pen. e alla confisca del profitto del reato, con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Mantova in diversa composizione fisica.
Dichiara inammissibili i ricorsi nel resto.
Così deciso il 17/05/2023.