 Cass. Sez. III n. 42394 del 17 novembre 2011 (Ud 28 set. 2011)
Cass. Sez. III n. 42394 del 17 novembre 2011 (Ud 28 set. 2011)
Pres. De Maio Est. Sarno Ric. Rossetti
Rifiuti. Scaglie argentifere
Sulla natura di rifiuto pericoloso delle scaglie argentifere umide
REPUBBLICA ITALIANA
 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:        Udienza pubblica
 Dott. DE MAIO Guido              - Presidente  - del 28/09/2011
 Dott. FIALE   Aldo               - Consigliere - SENTENZA
 Dott. FRANCO  Amedeo             - Consigliere - N. 1894
 Dott. SARNO   Giulio        - rel. Consigliere - REGISTRO GENERALE
 Dott. RAMACCI Luca               - Consigliere - N. 18901/2011
 ha pronunciato la seguente: 
SENTENZA
 sul ricorso proposto da:
 1) ROSSETTI LUIGI N. IL 10/10/1941;
 avverso la sentenza n. 6721/2009 CORTE APPELLO di MILANO, del  			03/12/2010;
 visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
 udita in PUBBLICA UDIENZA del 28/09/2011 la relazione fatta dal  			Consigliere Dott. GIULIO SARNO;
 udito il P.G. in persona del Dott. FODARONI Giuseppina che ha  			concluso per annullamento senza rinvio limitatamente alla  			determinazione della pena da riquantificare in Euro 38,00 al giorno;
 rigetto nel resto;
 udito il difensore avv. Boccadamo Daniele di Monza.
 OSSERVA
 Con decreto di citazione emesso in data 2 aprile 2007, a seguito di  			opposizione al decreto penale di condanna, Rossetti Luigi veniva  			chiamato a rispondere dinanzi al tribunale di Milano del reato  			previsto dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, lett. b)  			perché, in qualità di legale rappresentante dell'impresa BO.RO.MI.  			srl, in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o  			comunicazione di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, artt. 208, 209, 210,  			211, 212, 214, 215 e 216, nell'effettuare lo smaltimento dei rifiuti  			sanitari, appartenenti alla categoria dei rifiuti pericolosi e  			consistenti in residui di scaglie argentifere provenienti dal  			processo di asciugatura artigianale dei residui d'argento provenienti  			dai rifiuti liquidi di fissaggio radiografici provenienti da  			ospedali, mediante termocombustione effettuata nel cortile  			dell'impresa, a cielo aperto, e pertanto privo di ogni impianto di  			abbattimento delle sostanze inquinanti, dei residui di liquidi e  			delle soluzioni di fissaggio contenenti nitrati, tutte sostanze che  			l'imputato bruciava in modo artigianale, provocando l'immissione  			nell'aria di odori nauseabondi.
 Il tribunale, ricostruiva la vicenda sulla base delle deposizioni  			testimoniali degli agenti di PG intervenuti i quali, dopo avere  			premesso che la ditta BO.RO.MI. srl aveva quale oggetto sociale il  			recupero, deposito, trattamento e smaltimento di rifiuti in  			prevalenza ospedalieri tra cui liquidi di sviluppo e di fissaggio  			relativi a lastre radiografiche, nonché liquidi di laboratorio  			pericolosi e non pericolosi, estrazione dell'argento dai liquidi di  			fissaggio, evidenziava che il Rossetti era stato trovato, al  			momento dell'accesso, intento a riscaldare attraverso un fornello  			rudimentale alimentato da una bombola di gas gpl, nel cortile esterno  			dell'insediamento, una teglia di acciaio posizionata sopra il  			fornello contenente ceneri fumanti di argento - scaglie argentifere -  			provenienti dal processo di asciugatura dei residui di argento  			presenti nei rifiuti liquidi di fissaggio radiografici delle  			strutture ospedaliere. Con tale metodo il Rossetti stava facendo  			evaporare il liquido dall'argento al fine di rendere detto metallo  			più puro e quindi con un valore commerciale maggiore mediante un  			processo certamente non consentito in quanto svolto a cielo aperto e  			con attrezzature rudimentali ed artigianali pacificamente non idonee  			a tale scopo poiché comportanti la diffusione nell'aria di  			esalazioni maleodoranti che, infatti, avevano determinato la  			richiesta di intervento sollecitata da una vicina.
 In sostanza si accertava che la ditta era autorizzata all'esercizio  			delle operazioni di recupero smaltimento dei rifiuti speciali  			pericolosi, tra i quali anche quello dell'argento, giusta Delib.  			Regione Lombardia 28 giugno 2002, ma non con il processo di  			lavorazione accertato in quanto la ditta era autorizzata a trattare i  			rifiuti adottando accorgimenti aspiranti.
 La sentenza rilevava altresì che, sulla base di quanto dichiarato  			dai testi, il blocco di argento costituiva ancora un rifiuto perché  			da esso venivano eliminate le parti cosiddette bagnate, le parti  			umide, vale a dire le soluzioni di fissaggio e che, proprio per tale  			ragione, l'argento era stato scaldato su quel fornello rudimentale.  			Di conseguenza concludeva per la penale responsabilità dell'imputato  			in ordine al reato ascrittogli rilevando tuttavia che poteva trovare  			accoglimento la circostanza attenuante di cui al D.Lgs. n. 152 del  			2006, art. 256, comma 4, dal momento che il Rossetti, munito di  			autorizzazione per il recupero dell'argento mediante processo  			elettrolitico, non aveva osservato le prescrizioni contenute nella  			autorizzazione. La corte di appello di Milano, con la sentenza in  			epigrafe, riformava la decisione di primo grado confermando la pena  			erogata di mesi quattro di arresto e di Euro 400 di ammenda ma  			convertendo la pena detentiva in quella pecuniaria. In ordine ai  			motivi di appello ha rilevato quanto segue.
 Ha anzitutto escluso la nullità della sentenza ex art. 522 c.p.p.  			dedotta nei motivi di impugnazione per la diversità del fatto reato  			ritenuto in sentenza rispetto a quello contestato rilevando che la  			mancanza della prescritta autorizzazione si riferiva pacificamente  			alla fase successiva di essiccazione delle scaglie di metallo  			recuperate con il sistema elettrolitico, ed ha aggiunto che nella  			autorizzazione in atti non erano contemplate le modalità poste in  			essere dall'imputato attraverso il rudimentale fornello in sequestro  			e teglia metallica in cui erano contenute le scaglie da asciugare.  			Quanto al secondo motivo di appello con cui si rilevava trattarsi  			nella specie di materia prima secondaria e non già di rifiuto,  			faceva rilevare che non solo la carenza di autorizzazione riguardava  			il trattamento di essiccazione, ma anche che le scaglie argentifere  			presenti nelle ceste sequestrate, non ancora sottoposte al  			trattamento da parte del Rossetti, erano umide, così come quelle  			poste sul fornello, e che l'argento da commercializzare non può  			essere bagnato se non altro perché ne verrebbe alterato il peso. Si  			citano in un proposito le prescrizioni contenute nell'autorizzazione  			regionale ed in particolare il punto 27 in cui si afferma i prodotti  			delle materie prime ottenute dalle operazioni di recupero autorizzate  			devono avere caratteristiche merceologiche conformi alla normativa  			tecnica di settore o comunque nelle forme attualmente  			commercializzata. Ed aggiungeva, infine, la corte di merito che la  			stessa consulenza di parte evidenziava che, dopo il completamento del  			processo di elettrolisi, gli elementi erano stati lavati e poi  			raschiati per staccare l'argento. E, dunque, si concludeva nel senso  			che fin quando le lastre dell'argento sono bagnate, insieme a  			quest'ultimo sono presenti ancora rifiuti pericolosi allo stato  			liquido di cui l'argento è frammisto che rendono necessaria l'azione  			preventiva di lavaggio.
 Avverso la decisione di appello propone ricorso per cassazione  			l'imputato il quale deduce:
 1) nullità della sentenza di primo grado e della sentenza di appello  			che ha rigettato lo specifico motivo di impugnazione concernente il  			difetto di correlazione della sentenza medesima con l'imputazione;
 nonché violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p.. Al riguardo si fa  			rilevare come l'ipotesi dell'art. 256, comma 4 rappresenti una forma  			di reato autonoma e non una mera circostanza; che nemmeno era stata  			indicata dal giudice la prescrizione dell'autorizzazione violata; che  			il fatto ritenuto in sentenza è completamente diverso da quello  			contestato in quanto il capo d'imputazione ipotizzava che i rifiuti  			sanitari pericolosi fossero stati direttamente trattati con una  			termocombustione non autorizzata laddove invece il processo era di  			mera essiccazione o asciugatura di scaglie argentifere che comunque  			provenivano dal trattamento di recupero elettrolitico debitamente  			autorizzato.
 2) nullità della sentenza per inosservanza o erronea applicazione  			del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 181 nel testo vigente prima delle  			modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 4 del 2008 in tema di materie  			prime secondarie. Si osserva che il procedimento di essiccazione è  			un'operazione che diviene trattamento e che richiede una specifica  			autorizzazione solo quando abbia per oggetto rifiuti e che  			apoditticamente si da per certo in sentenza che, completata  			l'elettrolisi, gli elementi sui quali è depositato l'argento sono  			bagnati ancora dal liquido residuo esausto della sostanza di  			fissaggio ormai deargentato in cui era disciolto il metallo  			recuperato. Si ritiene anche illogico sostenere che a tale  			conclusione si debba pervenire solo per le esalazioni, peraltro non  			provate; in assenza di analisi chimiche specifiche; che le scaglie  			argentifere sono vendute alle fonderie e che, pertanto, esse non  			possono costituire rifiuto. Si fa rilevare, infine, che la disciplina  			di cui all'art. 181, poi modificata dal D.Lgs. n. 4 del 2008,  			comportava che si poteva prescindere dal processo di recupero.  			3) nullità della sentenza per erronea applicazione della legge  			penale, non essendosi tenuto conto nella conversione della pena  			detentiva in pena pecuniaria per il conteggio dei decimali.  			MOTIVI DELLA DECISIONE
 Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato in relazione ai  			primi due motivi.
 In ordine al primo di essi va anzitutto premesso che la fattispecie  			dell'inosservanza delle prescrizioni contenute nell'autorizzazione -  			D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 4 - è certamente ipotesi  			autonoma di reato come più volte ribadito nelle decisioni della  			Corte che ha affrontato la questione già in relazione al D.Lgs. n.  			22 del 1997, art. 51, comma 4 il cui testo è stato riprodotto  			nell'art. 256 citato.
 È senz'altro vero, infatti, come afferma il ricorrente, che la  			fattispecie dell'art. 256, comma 4 ha natura di reato proprio (Sez.  			3, n. 13884 del 28/02/2002 Rv. 221570, in relazione al D.Lgs. n. 22  			del 1997, art. 51, comma 4, riprodotto testualmente nel D.Lgs. n. 152  			del 2006, art. 256, comma 4) a differenza di quella del comma 1 del  			medesimo art. che ha natura di reato comune (ex plurimis Sez. 3, n.  			7462 del 15/01/2008 Rv. 239011) e che mentre i reati di cui al comma  			1 possono normalmente realizzarsi solo in forma commissiva, il reato  			di violazione delle prescrizioni è formale, di mera condotta e di  			pericolo. (Sez. 3, n. 15560 del 14/03/2007 Rv. 236341; Sez. 3, n.  			6256 del 02/02/2011 Rv. 249577).
 È quindi errata l'affermazione contenuta nelle sentenze di merito  			che fanno riferimento entrambe alla natura di circostanza del reato  			in relazione alla fattispecie dell'art. 256, comma 4.  			Ciò, tuttavia, non comporta di per sè ne' la violazione del  			principio di correlazione tra accusa e sentenza, ne' la nullità  			della sentenza stessa per difetto di contestazione.  			Va rilevato, infatti, che, come più volte affermato dalla Corte, il  			giudice può senz'altro dare al fatto una diversa qualificazione  			giuridica senza incorrere nel difetto di corrispondenza tra pronuncia  			e contestazione purché il fatto storico addebitato rimanga identico,  			in riferimento al triplice elemento della condotta, dell'evento e  			dell'elemento psicologico dell'autore (Sez. 3, n. 19118 del  			18/03/2008 Rv. 239873).
 E, con ulteriore puntualizzazione, si è precisato anche che ai fini  			della valutazione della corrispondenza tra pronuncia e contestazione  			di cui all'art. 521 cod. proc. pen. deve tenersi conto non solo del  			fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori  			risultanze probatorie portate a conoscenza dell'imputato e che hanno  			formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia  			avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto  			a fondamento della decisione (Sez. 3, n. 15655 del 27/02/2008 Rv.  			239866).
 Nella specie l'attività contestata è chiaramente quella della  			termocombustione non autorizzata delle scaglie argentifere.  			La circostanza che inizialmente l'attività di recupero sia stata  			definita priva di autorizzazione anziché in contrasto con le  			disposizioni delle autorizzazioni non fa in realtà venire meno il  			nucleo centrale della contestazione che rimane quello di un  			trattamento non autorizzato delle scaglie argentifere stesse.  			L'imputato, peraltro, nel corso del giudizio ha avuto ampiamente modo  			di difendersi sul punto in quanto il problema delle autorizzazioni  			risulta ampiamente discusso nelle fasi di merito e vi è un evidente  			rapporto di continenza sostanziale tra la contestazione originaria e  			la fattispecie ritenuta in sentenza.
 Nè rileva la circostanza che i residui argentiferi provenissero  			autonomamente da procedimento di elettrolisi di liquidi di fissaggio  			ospedalieri debitamente autorizzato essendo indubbio dal tenore della  			contestazione che la procedura di termocombustione riguardava solo il  			trattamento finale dei residui argentiferi.
 Ha ragione, infine, il giudice di appello nell'affermare che nessun  			interesse può esservi per altro verso in capo al ricorrente a far  			valere l'errore della qualificazione giuridica avendo per ciò  			beneficiato di un trattamento più favorevole e mancando sul punto  			l'impugnazione della Procura.
 Con il secondo motivo il ricorrente pone la questione di verificare  			se le scaglie argentifere "umide" possano essere definite rifiuto  			anche alla luce della nozione di sottoprodotto antecedente alle  			modifiche apportate dal D.Lgs. n. 4 del 2008 al D.Lgs. n. 152 del  			2006, art. 181.
 La corte di merito, citando la consulenza di parte, ha motivato il  			proprio convincimento rilevando che anche dopo il processo di  			elettrolisi la lastra e l'argento ivi aggrappato sono ancora bagnate  			dal liquido esausto della sostanza di fissaggio, ovvero dai nitrati  			d'argento e che, quindi, insieme all'argento sono ancora presenti  			rifiuti pericolosi.
 Trattandosi di scaglie "umide" ritiene dunque la natura di rifiuto  			delle stesse.
 Ora appare anzitutto logicamente e correttamente argomentata con il  			richiamo alla citata consulenza di parte, ed alla constatazione delle  			esalazioni accertate, la conclusione cui perviene la corte di merito  			secondo cui mediante il processo di termocombustione, accertato  			all'atto del sopralluogo della PG, il ricorrente intendeva procedere  			alla depurazione delle scaglie argentifere. Nè vi è dubbio che i  			liquidi esausti di fissaggio e di sviluppo recanti rispettivamente  			codice CER 9.01.04 e 9.01.01, analogamente ai rifiuti della  			metallurgia termica dell'argento - CER 10.07.00 -, da cui si  			intendeva liberare l'argento, abbiano natura di rifiuto pericoloso.  			La necessità della perizia evidenziata dal ricorrente al riguardo  			comporta una valutazione di merito del giudice insindacabile in  			questa sede in presenza di conclusioni correttamente argomentate  			sulla natura delle sostanze presenti sulle scorie umide.  			Quanto alla natura di materia prima secondaria dei residui  			argentiferi, destinabili - secondo il ricorrente - alle fonderie, la  			corte di merito risponde sostanzialmente con il rilievo che la  			accertata attività di recupero del rifiuto era ancora in corso e che  			proprio la destinazione del prodotto alla fonderia in precedenti  			occasioni, sta a dimostrare come l'utilizzo delle scorie richiedesse  			comunque ulteriore trattamento. Nè vi è dubbio sulla correttezza di  			tale conclusione essendo del tutto ovvio che un rifiuto cessa di  			essere tale, quando si conclude l'operazione di recupero. Tale  			principio, espressamente enunciato ora anche nel D.Lgs. n. 152 del  			2006, art. 184 bis introdotto dal D.Lgs. n. 205 del 2010, art. 12,  			può ritenersi da sempre implicito nella normativa di riferimento.  			Il ricorrente sostiene che la procedura di recupero doveva ritenersi  			ultimata con la fine del procedimento di elettrolisi e che  			l'autorizzazione non contemplava una ulteriore operazione di  			recupero. Cita in proposito la disciplina del D.Lgs. n. 152 del 2006,  			art. 181, comma 6, poi abrogato dal D.Lgs. n. 4 del 2008, per  			affermare che al materiale ottenuto dovesse essere riconosciuta la  			natura di materia prima secondaria ed aggiunge, infine, che in base  			al comma 13, anch'esso abrogato, si poteva prescindere dal processo  			di recupero che aveva portato all'esistenza della materia prima  			secondaria. Ora, quanto al procedimento di recupero di materiali  			preziosi dalle soluzioni di fissaggio e di lavaggio di soluzioni  			fotografiche o radiografiche, occorre rilevare come proprio il D.M.  			12 giugno 2002, n. 161, al punto 2.1.3, quale attività di recupero  			contempli il recupero elettrolitico e successiva fusione dei  			materiali recuperati in contrasto con la tesi del ricorrente che  			intende scindere, invece, le due fasi. Per il resto si deve rilevare  			l'assoluta mancanza in questa sede di elementi fattuali a supporto  			della tesi sostenuta ed inoltre che, se è vero che il comma 13 poi  			abrogato dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 181 prevedeva che: La  			disciplina in materia di gestione dei rifiuti non si applica ai  			materiali, alle sostanze o agli oggetti che, senza necessità di  			operazioni di trasformazione, già presentino le caratteristiche  			delle materie prime secondarie, dei combustibili o dei prodotti  			individuati ai sensi del presente art., precisava tuttavia anche: a  			meno che il detentore se ne disfi o abbia deciso, o abbia l'obbligo,  			di disfarsene, con ciò chiarendo che l'indagine deve volgere prima  			ancora che alla natura del prodotto, alla destinazione di esso.  			Appare, invece, fondato il terzo ed ultimo motivo di ricorso.  			Le Sezioni Unite della Corte hanno precisato che ai fini del  			ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, previsto dall'art.  			135 cod. pen., il computo avviene convertendo 38 Euro, o frazione di  			38 Euro, per ogni giorno di pena detentiva eliminando, sin  			dall'inizio, i decimali. (Sez. U, n. 47449 del 17/11/2004 Rv.  			229257). Di conseguenza la pena di mesi quattro di arresto va  			determinata in Euro 4560, come esattamente rilevato dal ricorrente e  			non già in quella di Euro 4647 indicata dalla corte di appello che  			evidentemente ha operato il ragguaglio conteggiando Euro 38,73 per il  			cambio.
 Di conseguenza la sentenza va annullata limitatamente a quest'ultimo  			aspetto senza rinvio potendo la Corte provvedere in via diretta alla  			modifica del trattamento sanzionatorio non necessitando alcuna  			valutazione al riguardo.
 P.Q.M.
 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
 Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla  			determinazione della pena che fissa in Euro 4560. Rigetta nel resto.  			Così deciso in Roma, il 28 settembre 2011.
 Depositato in Cancelleria il 17 novembre 2011
 
                    




