La gestione dei rifiuti attraverso i poteri del Commissario Straordinario di Governo
Sommario. Premessa. 1. L’emergenza nell’ordinamento italiano e gli strumenti previsti per fronteggiarla. 2. Il Commissario Straordinario di Governo: la ratio dell’istituto. 3. Lo stato di emergenza dei rifiuti in Campania: dal Decreto della Presidenza del Consiglio del febbraio 1994 all’ “emergenza nell’emergenza”. 4. Il Commissario Straordinario di Governo per l’emergenza rifiuti in Campania: da rimedio straordinario a rimedio ordinario.
Il divario economico-sociale esistente tra le regioni centro-settentrionali e quelle meridionali si accentua, più che mai, nella delicata problematica dei rifiuti, che, nel sud Italia, raggiunge livelli di estrema criticità ormai da anni.
In regioni come la Lombardia e la Liguria la situazione non assume dimensioni allarmanti, per i passi significativi compiuti nell’adeguamento alla normativa nazionale e comunitaria, per l’avviamento ad attività di bonifica, ad attività di studio e di ricerca di soluzioni adottabili in relazione ai problemi locali; attività che si sviluppano contestualmente ad uno scrupoloso monitoraggio, da parte degli organi deputati al controllo del territorio e da parte dell’autorità giudiziaria e delle forze di polizia, volto all’individuazione di eventuali distorsioni del sistema.
In Friuli Venezia Giulia non si riscontrano situazioni emergenziali o particolarmente allarmanti, grazie, anche, all’ attività di controllo attentamente svolta dall’autorità giudiziaria sull’intero territorio.
La Basilicata, al contrario, pur non versando in un vero e proprio stato «emergenziale», desta una certa preoccupazione, per la presenza sul territorio di impianti di stoccaggio di materiali radioattivi. L’allarme è causato dallo sversamento di rifiuti pericolosi ed, in particolar modo, di quelli radioattivi, per la diffusione di fenomeni tumorali in zone limitrofe agli impianti.
I dati, sicuramente, più inquietanti provengono da quattro regioni meridionali e cioè dalla Campania, dalla Calabria, dalla Puglia e dalla Sicilia, ove la gestione dei rifiuti è affidata a Commissari Straordinari appositamente nominati[1].
La Campania, nonostante sia: al tredicesimo anno di Commissariamento Straordinario di Governo per l’emergenza rifiuti, non riesce a superare l’«impasse» creato dall’emergenza rifiuti (risale al febbraio 1994 il provvedimento con il quale viene nominato il primo Commissario Straordinario di Governo per l’emergenza rifiuti - l’allora Prefetto di Napoli - con il compito di «porre in essere tutti gli interventi tesi a fronteggiare la gravità della situazione riscontrata»).
In uno dei documenti approvati dalla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, istituita con legge 31 ottobre 2001, n. 399, sotto la XIV legislatura, si legge: «in presenza di regimi commissariali di lungo periodo, che inevitabilmente determinano per loro stessa natura l’affievolirsi delle competenze e delle responsabilità degli enti ordinariamente preposti alla gestione dei rifiuti, la pervasività della criminalità organizzata nelle diverse fasi del ciclo dei rifiuti può rappresentare un rischio ulteriore cui dedicare particolare attenzione». Questo scrive la Commissione il 18 dicembre 2002 nell’evidente intento di stimolare gli organi, istituzionalmente ed ordinariamente competenti, a reagire, piuttosto che ad adagiarsi su soluzioni che dovrebbero essere solo momentanee. L’emergenza ha finito e finisce spesso col travolgere quella necessaria vigilanza che, soprattutto in presenza di simili fenomeni, va irrobustita nel prevenire ogni rischio di infiltrazione criminale.
Se è vero che – come evidenziato dalla stessa relazione sulle attività svolte dal Commissario al 12 marzo 2004 – quello dei rifiuti è un settore esposto all’inquinamento della criminalità organizzata (tanto da costringere la struttura commissariale ad intervenire con riferimento a taluni appalti affidati dai comuni in quanto rivelativi, per l’anomalia dei costi, di una gestione illegale), l’azione del commissariato avrebbe dovuto, quanto meno, ridurre l’entità del fenomeno. Ciò non si è verificato e, purtroppo, non si verificherà, se non cambiano le prospettive, i programmi di azione e tutta l’organizzazione della gestione dei rifiuti; se non si incentiva la raccolta differenziata e non si dota la Regione di termovalorizzatori. Lo stesso prefetto Catenacci, nel corso dell’audizione del 15 marzo 2005, osserva al riguardo: «la criminalità organizzata sorride per l’andamento odierno della situazione in Campania; infatti sono aumentati i trasporti ed il ritardo della costruzione delle discariche e dei siti di smaltimento determina l’aumento dei viaggi in direzione di altre località. Le indagini delle forze di polizia e della magistratura rivelano sospetti di collusione o di condizionamento tra imprese di trasporto e criminalità organizzata».
Che il Commissariamento rappresenti l’effetto o, al contrario, una concausa della ormai perdurante situazione emergenziale, ciò che appare paradossale, oltre che ingiustificato sotto il profilo giuridico, è l’ aver trasformato un rimedio «straordinario» in uno «ordinario». La gestione commissariale diventa un’«anomala» ordinarietà, con tutte le implicazioni negative da essa derivanti. Assegnare, infatti, ad un organo di Governo poteri extra ordinem «sine die», comporta una de-responsabilizzazione degli enti istituzionalmente deputati alla gestione del servizio. Il ricorso al Commissariamento è legittimo nella misura in cui sia individuato il «dies ad quem» della sua azione, il limite temporale dei suoi interventi e non quando si sostituisce all’ente in difficoltà, assumendo la titolarità delle funzioni. Ratio sottesa all’istituto del Commissariamento è di consentire il ripristino di tutte la condizioni affinché l’ente supportato ritorni ad operare nell’ordinamento.
L’affidamento della gestione di un servizio pubblico ad un organo straordinario, per un periodo prolungato (come avviene in Campania), è sintomatico della inefficienza e della incapacità delle istituzioni locali rispetto ad un problema che affligge il territorio su cui le stesse operano.
L’«anomalia» campana consiste proprio in questo: aver realizzato la «ordinarizzazione» di uno strumento straordinario (già giuridicamente contestabile) nonostante dall’ utilizzazione dello stesso non siano derivati vantaggi, miglioramenti o benefici.[2]……
1. L’emergenza nell’ordinamento italiano e gli strumenti previsti per fronteggiarla.
Lo stato di emergenza è collegato a situazioni di fatto, in cui risulta elevato il rischio di compromissione definitiva e irreparabile dei diritti e dei valori, su cui si fonda il nostro ordinamento e che da esso devono ricevere protezione e tutela, attraverso l’adozione tanto di misure ordinarie che di quelle straordinarie.
Le situazioni di emergenza sono diversamente graduate per intensità e gravità e si possono distinguere, in base alla loro derivazione, in categorie generali: a tal proposito, si parla, ad esempio, di emergenze esterne e di emergenze interne. La classificazione, che comunque non riveste una funzione esclusivamente terminologica e descrittiva, conferma il carattere comune della temporaneità, specificità ed ausiliarietà degli strumenti adottati, a seguito del proclamato stato di emergenza (qualunque ne sia la causa).
Per situazione di emergenza esterna, si intende, solitamente, riferirsi alle condizioni di allarme, disordine, pericolo, scaturenti da crisi internazionali, da minacce incombenti di aggressioni al Paese, dall’eventuale rischio di coinvolgimento in conflitti, in cui può trovarsi il Paese o anche dalla necessità di salvaguardare un aspetto della sovranità nazionale.
L’instaurazione di un regime eccezionale per fronteggiare emergenze esterne può comportare la sospensione, l’integrazione e persino la modifica di norme dell’ordinamento.
A prescindere dalla diversità delle misure indicate per le varie tipologie di tali emergenze che possono colpire il nostro Paese, esse rispondono all’esigenza di arginare quanto più possibile pericoli per lo Stato, per la sua sicurezza, per l’integrità del territorio, per i beni e gli interessi dei cittadini, salvaguardando le libere istituzioni e le strutture socio-economiche.
In caso di crisi internazionale o interna ovvero di situazioni che, per loro natura, possono richiedere l’intervento delle forze armate e l’applicazione della legge di guerra, si adottano le misure e le azioni di intervento, secondo gli articoli 77 e 78 della Costituzione.
Le leggi ordinarie, anche in assenza della dichiarazione dello stato di guerra secondo la procedura degli articoli 78 e 87 della Costituzione, prevedono che si possono verificare casi eccezionali di assoluta ed urgente necessità in relazione all’interesse dello Stato, in cui con decreto del capo dello Stato si può disporre l’applicazione della legge di guerra, l’applicazione del codice penale militare di guerra a tutto o a parte del territorio nazionale, ecc.
Anche crisi interne dello Stato giustificano l’esercizio dei poteri straordinari e, quindi, l’adozione di misure speciali; ad esempio, a seguito della dichiarazione dello stato di pericolo pubblico, con decreto del Ministero dell’Interno, i prefetti hanno potere di arresto e detenzione (articolo 215 T.U.P.S.) o anche, in caso di stato di guerra per motivi di ordine pubblico dichiarati con decreto del Ministero dell’Interno, può essere affidata all’autorità militare la tutela dell’ordine pubblico (articolo 217 T.U.P.S.), oltre alla facoltà in deroga delle leggi.
Il regime straordinario di emergenza, derivante dalle summenzionate cause, comporta l’introduzione di mezzi e strumenti eccezionali, la cui operatività è circoscritta alle dimensioni ed alla portata che, nel caso concreto, assume il fenomeno. Le singole misure devono essere adottate in modi, con contenuti ed effetti congrui al raggiungimento del fine, garantendo il ripristino della normalità, trattandosi di rimedi funzionalmente collegati al ripristino delle condizioni di ordinarietà.
La dottrina maggioritaria, nel privilegiare il nesso funzionale tra provvedimenti adottati in base alla c.d. costituzione della crisi e la situazione eccezionale, propone una lettura non «ordinaria» del sistema delle fonti, con una riconsiderazione diversa del principio di legalità.
Il carattere particolare del contenuto di provvedimenti adottati nell’emergenza di guerra o di situazioni altrettanto pericolose e sovversive (tali considerazioni valgono anche per situazioni contingenti non riconducibili ad emergenze esterne) determina una forma di violazione di legge, la quale si manifesta nell’inidoneità a raggiungere lo scopo indicato dalla legge ordinaria, che ne prevede l’emanazione.
Tra l’altro, il collegamento mezzo-fine, che giustifica l’ammissibilità dei provvedimenti speciali, instaura un ordinamento particolare, al quale non potrebbe essere applicata una legalità che ad essa è esterna.
Le argomentazioni della dottrina sono avallate anche dalla giurisprudenza; la Corte Costituzionale, infatti, individua nella necessità di perseguire un fine costituzionalmente tutelato, la giustificazione di provvedimenti derogatori rispetto alle leggi e, quindi, adottati in violazione del sistema formale delle fonti (Corte Costituzionale, n. 53 del 1957; Corte Costituzionale n. 216 del 1985).
La condizione di emergenza determinata da fattori interni all’ordinamento richiede, come quella c.d. esterna, l’instaurazione di un regime straordinario di amministrazione.
In materia ambientale, sia per l’inefficiente gestione delle autorità competenti, sia per le calamità naturali, lo stato di emergenza è frequentemente proclamato.
La legge 24 febbraio 1992, n. 225, nell’istituire un «servizio nazionale della protezione civile» prevede, in termini generali, la possibilità, previa deliberazione da parte del Consiglio dei Ministri, dello stato di emergenza in base al verificarsi degli eventi di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c della legge stessa («calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari») di adottare ordinanze[3] «in deroga ad ogni disposizione vigente e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento».
Al Presidente del Consiglio dei Ministri è dato, altresì, emanare «ordinanze finalizzate ad evitare situazioni di pericolo o maggiori danni a persone e a cose», con la possibilità di avvalersi all’uopo di commissari delegati.
Il potere di ordinanza contemplato dalla suddetta legge si inserisce nel solco di poteri extra ordinem, a cui sono riconducibili, anche, le ordinanze contingibili ed urgenti, contemplate nel D.P.R. 915/1982 e nel d.lgs 22/1997 e successive modificazioni.
Il potere di ordinanza disciplinato dall’articolo 13 del d.lgs. 22/1997 non si distingue, sotto il profilo sostanziale, da quelli precedentemente configurati dall’articolo 12 del D.P.R. 915/1982. Il decreto Ronchi e sue modificazioni sembrano solo aver predisposto una regolamentazione più chiara e precisa di quella pregressa, anche allo scopo di renderne più agevole l’attuazione. Il legislatore, conscio delle difformità esegetiche, intende evidenziare maggiormente ed in maniera più nitida i limiti della potestà di emanare ordinanze contingibili ed urgenti. L’articolo 13 del d.lgs. 22/1997, come modificato dal d.lgs. 387/1997, si inquadra nel tentativo di fornire una maggiore specificazione dei presupposti, delle condizioni e dei limiti della potestà di ordinanza extra ordinem, pretendendo dal provvedimento «un elevato livello di tutela della salute e dell’ambiente».
L’emanazione delle ordinanze ex articolo 13 del d.lgs. 22/1997, come di quelle ex articolo 2 e 5 della legge 225/1992, è subordinata alla sussistenza di presupposti di fatto e di diritto, espressamente indicati nelle norme stesse.
Quindi, pur se l’ambito operativo delle disposizioni differisce, riferendosi l’articolo 13 del d.lgs. 22/1997 al poter esercitabile esclusivamente dal Presidente della Regione, della Provincia e dal Sindaco, nell’ambito delle rispettive competenze ed in relazione alla problematica dei rifiuti (delimitazione soggettiva ed oggettiva non riprodotta dagli articoli 2 e 5 della legge 225/1992), la «ratio» sottesa alle ordinanze di entrambe le leggi è identica e consiste nel fronteggiare una situazione emergenziale per ripristinare condizioni ordinarie[4].
Catalizzando l’attenzione sulle ordinanze in materia di protezione civile, si evince dalla lettura delle norme che la legittimità delle stesse è chiaramente ancorata al rispetto di determinati criteri, quali la tassatività, la determinazione contenutistica, la limitatezza temporale.
La legge 225/1992 altro non fa che codificare quanto già affermato, precedentemente alla sua emanazione, dalla Corte Costituzionale, secondo cui «il potere di deroga conferito ad autorità amministrativa deve essere definito nel contenuto, nei tempi, nelle modalità di esercizio, non potendo incidere su settori dell’ordinamento menzionati con approssimatività, senza che sia specificato il nesso di strumentalità tra lo stato di emergenza e le norme di cui si consente la temporanea sospensione»[5].
Il concetto di «protezione civile» assume, negli anni, una connotazione sempre più ampia, con conseguente eccessiva dilatazione dell’ambito operativo degli strumenti derogatori previsti. L’ampliamento è l’effetto, anche, di alcuni interventi legislativi che sembrano favorire il ricorso a strumenti straordinari. Infatti, mentre secondo l’articolo 1 della legge 225/1992, il servizio di protezione civile si pone il fine di «tutelare l’integrità della vita, i beni, gli insediamenti e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e da altri eventi calamitosi», l’articolo 5, comma 1, del d.l. 7 settembre 2001, n. 343, convertito con modificazioni dalla legge 9 novembre 2001, n. 401, sembra andare oltre, in quanto colloca nell’area in cui possono esplicarsi i poteri e le attività di protezione civile anche gli altri grandi eventi, che determinano situazioni di grave rischio.
Ulteriore incoraggiamento verso i rimedi straordinari proviene dalla sanatoria introdotta dal d.l. 7 febbraio 2003, n. 25, convertito con modificazioni dalla legge 8 aprile 2003, n. 62. La sanatoria riguarda alcuni provvedimenti, emanati in forza dei poteri derogatori previsti dalla legge 24 febbraio 1992, n. 225: si dispone la generale conferma e salvezza di tutti i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, delle ordinanze di protezione civile e dei conseguenti provvedimenti emanati in regime commissariale sul territorio nazionale «inerenti alle situazioni di emergenza ambientale e relativamente allo stato di inquinamento delle risorse idriche e nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani, speciali e speciali pericolosi, in materia di bonifica e di risanamento ambientale dei suoli, delle falde e dei sedimenti inquinanti, nonché in materia di tutela delle acque superficiali e sotterranee dei cicli di depurazione».
La legge 62/2003 fornisce una copertura legislativa ai provvedimenti amministrativi di protezione civile, oggetto di annullamento, nonostante il progressivo irrigidimento manifestato dalla giurisprudenza amministrativa a tal proposito.
Ma la legge 62/2003 non riesce a placare le voci di dissenso che censurano l’ampio ricorso agli strumenti di protezione civile. Le critiche si appuntano su due particolari aspetti: rischio della trasformazione di sistemi straordinari in normali sistemi di gestione e limitazione della sanatoria ad un solo tipo di ordinanze, ovvero quelle afferenti la materia ambientale[6].
2. Il Commissario Straordinario di Governo: la ratio dell’istituto.
La pubblica amministrazione deve provvedere alla cura concreta degli interessi pubblici ad essa affidati, garantendo, in ossequio al disposto dell’articolo 97 della Costituzione, un’adeguata realizzazione delle esigenze espresse dalla collettività. L’individuazione del fine da perseguire, la sua qualificazione come pubblico e la successiva assegnazione alla pubblica amministrazione, sono operate in sede di indirizzo politico. Quella della pubblica amministrazione viene definita attività pratica, spontanea e discrezionale.
Si dice pratica, in quanto incide concretamente nella realtà di riferimento, modificando le situazioni esistenti, al contrario di quella legislativa e di quella giurisdizionale, che influiscono solo teoricamente sull’attività di altri soggetti; è spontanea, in quanto viene promossa dall’iniziativa degli stessi organi amministrativi ed è discrezionale, in quanto (questa è la definizione della dottrina tradizionale) attribuisce la facoltà alla pubblica amministrazione di scegliere, tra diverse opzioni giuridicamente lecite, quella più adeguata al soddisfacimento dell’interesse pubblico, in vista del perseguimento di un fine corrispondente alla causa del potere esercitato.
La realizzazione dell’interesse pubblico connota l’attività della pubblica amministrazione, costituendone, nel contempo, limite intrinseco. Infatti, la pubblica amministrazione non potrebbe mai indirizzare la propria attività, in via principale, alla soddisfazione di un interesse privato, il quale può ricevere tutela solo in via indiretta, nella misura, cioè, in cui sia perseguito un interesse pubblico: interesse primario della pubblica amministrazione.
La titolarità del potere discrezionale attribuisce alla pubblica amministrazione la facoltà di scelta in ordine a vari aspetti del suo operare, ovvero all’an (la pubblica amministrazione valuta l’opportunità di emanare un provvedimento), al quando (la pubblica amministrazione decide il momento in cui emanare un provvedimento), al quomodo e al quid (la pubblica amministrazione può determinare gli elementi accidentali e la forma dell’atto, nonché il contenuto che, in concreto, si palesi più opportuno)[7].
La Costituzione (articolo 97) indica espressamente, come essenziali dell’azione amministrativa, due principi: quello dell’imparzialità e della buona amministrazione. Altro principio essenziale risulta implicito nell’ordine costituzionale e cioè il principio di legalità, secondo il quale l’attività svolta dalla pubblica amministrazione deve sottostare alla legge: ogni potere spettante ad essa deve provenire dalla legge e nessun’azione può sfuggire al controllo giurisdizionale.
Nel rispetto dei suddetti principi, la pubblica amministrazione può anche ricorrere a rimedi straordinari, per far fronte a situazioni di necessità che non potrebbero altrimenti essere risolte e dalle quali può derivare un pericolo concreto a danno della collettività.
Quando l’azione «ordinaria» della pubblica amministrazione si rivela inidonea a fronteggiare stati emergenziali, che, per diverse ragioni, possono colpire il territorio, la pubblica amministrazione si avvale delle c.d. «ordinanze di necessità e di urgenza». Si tratta di provvedimenti ordinati a far fronte alla condizione di necessità finchè essa perdura; di conseguenza, le statuizioni in esse contenute esauriscono la loro efficacia al cessare della contingenza che ne legittima l’operatività. Di tali atti, il nostro ordinamento, prevede varie figure, di ambito diverso, riservate ad autorità diverse e giustificate da circostanze diverse ma tutte accomunate da un identico elemento e, cioè, la temporaneità, sia in ordine al tempo, che in ordine allo spazio[8].
Esse possono trovare fondamento esclusivamente nella legge, in quanto può essere solo la legge a prevederle e ad attribuire ad un organo amministrativo il potere di emanarle, comportando la loro previsione una restrizione al principio di legalità; debbono essere adeguatamente motivate e vanno pubblicizzate con mezzi idonei, non possono derogare a norme costituzionali o a principi generali dell’ordinamento. Si tratta di atti atipici, nel senso che la legge ne prevede solo i presupposti, lasciando all’autorità amministrativa un’ampia sfera di discrezionalità circa la determinazione del loro contenuto[9]. Nel nostro ordinamento sono contemplate diverse tipologie di ordinanze[10]: si pensi a quelle di cui all’articolo 2 T.U.L.P.S, secondo cui il Prefetto, in caso di urgenza o di grave necessità pubblica, ha facoltà di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica; a quelle previste dall’ articolo 19 del Testo Unico delle leggi comunali e provinciali del 1934 (il cui disposto è mantenuto fermo dall’ articolo 273 del d.lgs. 276/2000), secondo cui il prefetto adotta, in caso di urgente necessità, tutti i provvedimenti che ritenga indispensabili nel pubblico interesse nelle materie di sua competenza; all’articolo 54 del d.lgs. 267/2000 dove è previsto il potere del sindaco, quale Ufficiale di Governo, di adottare con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico, provveddimenti contingibili ed urgenti, al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini[11].
Un riferimento alla suddetta categoria di ordinanze lo si può trovare nella legge 24 febbraio 1992, n. 225, riguardante l’Istituzione del Servizio Nazionale della Protezione Civile, il cui articolo 5, rubricato Stato di emergenza e potere di ordinanza, autorizza l’adozione di ordinanze in deroga alle legge vigenti in caso di calamità naturali, catastrofi o altri eventi, che, per intensità ed estensione debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari (articolo 2, comma 1, lettera c).
Ritiene la Corte Costituzionale ( sentenza n. 127, del 5 aprile del 1995) che la legge 225/1992, in materia di protezione civile, sia applicabile anche all’emergenza ambientale[12], in considerazione del fatto che l’articolo 2 indica, dopo le calamità naturale e le catastrofi, «altri eventi» che, per intensità ed estensione, debbano essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari, richiedendo, però, nel contempo, ai fini della legittimità degli interventi straordinari, la sussistenza di condizioni eccezionali, oltre alla concreta verifica del necessaria proporzione tra evento imprevisto ed imprevedibile ed interventi ripararatori[13].
Pur in assenza di una apposita disposizione normativa legittimante l’istituto del Commissariamento Straordinario del Governo in materia dei rifiuti, si ritiene di poterne individuare negli articoli 2 e 5 della legge suddetta, un ancoraggio normativo.
La stessa Commissione Parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività ad esso connesse[14], approfondendo, nei documenti del 18 dicembre 2002 e del 18 dicembre 2003, l’istituto del Commissariamento in materia di rifiuti, lo classifica come un modello di intervento amministrativo straordinario, che viene adottato per gli interventi urgenti in materia di protezione civile e ne ribadisce la piena legittimazione avvenuta grazie all’intervento della Corte Costituzionale. L’esercizio dei poteri straordinari di un Commissario, istituito per fronteggiare un’emergenza, incontra dei limiti ben precisi, ovvero la delimitazione temporale della deroga al regime ordinario, la specificità dei poteri conferiti al Commissario, l’esigenza di un nesso di strumentalità tra la situazione di emergenza e le norme alle quali è consentito derogare.
Il Consiglio di Stato, in una nota sentenza ( Cons. Stato, Sez. V, sentenza n. 6809/02), coglie l’occasione per sottolineare e meglio evidenziare il carattere temporaneo dell’istituto, ritenendo incompatibile con il concetto di emergenza un intervento di durata pluriennale, che finirebbe per realizzare una «sovrapposizione di un sistema amministrativo e di gestione alternativo a quello ordinario».
La giurisprudenza e la dottrina sono ferme nel ritenere che il conferimento di poteri straordinari deve contenere l’indicazione delle norme in concreto derogabili all’interno della delega, evitando, in tal modo, un’arbitraria ed incondizionata gestione di un potere, che, ove non ricondotto in limiti precisi, rischia di divenire incontrollabile e di calpestare principi fondamentali su cui si fonda l’ordinamento, espropriando gli enti territoriali delle funzioni, ad essi, istituzionalmente spettanti[15].
L’attività svolta da un Commissario Straordinario, nominato in via eccezionale e per situazioni di emergenza, non sconfina nell’illegittimità solo se risultano scrupolosamente rispettati i requisiti richiesti dalla legge e costantemente interpretati dalla giurisprudenza come necessari al fine di non trasformare in «ordinario» un rimedio «straordinario».
La sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 6280, del 2002, consente di estrapolare i principi fondamentali in materia, indicando i presupposti che autorizzano l’esercizio di poteri di un Commissario, ai sensi dell’articolo 5 della legge 225/1992. La pronuncia è interessante in quanto affronta la tematica con riferimento al delicato settore dei rifiuti, delimitandosi l’ambito di operatività delle ordinanze di cui all’articolo 5 della summenzionata legge. Il potere di adottare ordinanze si giustifica in una situazione non fronteggiabile con mezzi ordinari[16], il cui stato emergenziale viene deliberato dal Consiglio dei Ministri, come previsto dalla legge 225/1992.
Essa si fa carico di circoscrivere lo stato di emergenza con riguardo alla qualità e natura degli eventi, in ossequio al consolidato principio giurisprudenziale della necessaria proporzione tra evento e misure, altresì fissando precisi limiti di tempo e di contenuto con riferimento all’attività dei Commissari delegati.
Aspetto interessante della sentenza è quello che si risolve nell’analisi dell’espressione «gestione dei rifiuti», consentendo di tracciare il raggio d’azione di un Commissario Straordinario in relazione all’adozione di ordinanze di necessità e di urgenza, nella materia.
Il concetto di gestione di rifiuti è onnicomprensivo, come emerge dalla sola lettura del Decreto Ronchi, che, all’articolo 6, definisce la gestione dei rifiuti come «la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compreso il controllo di queste operazioni, nonché il controllo delle discariche e degli impianti di smaltimento dopo la chiusura».
Il Consiglio di Stato, nella consapevolezza della onnicomprensività dell’espressione, dichiara l’illegittimità di provvedimenti che trasferiscano poteri al Commissario Straordinario, in assenza di dettagliate indicazioni circa l’ambito operativo degli stessi. Il conferimento di poteri extra ordinem in materia di rifiuti richiede necessariamente la puntuale descrizione delle funzioni esercitabili, delle norme derogabili ed ogni altra specificazione necessaria a non snaturare i sistemi di intervento eccezionale, in un settore, come quello dei rifiuti, già di per sé, privo di definizioni concettuali dotate di un sufficiente grado di certezza.
Ne deriva l’enucleazione di un principio generale, secondo il quale un provvedimento di delega di funzioni al Commissario (in generale e, ancor di più, in una materia come quella dei rifiuti) che non sia puntualmente dettagliato rispetto alle modalità di esercizio dei poteri, all’ambito temporale degli stessi, alle norme da derogare, alle finalità da realizzare, riportando, al contrario un generico riferimento alla «gestione dei rifiuti», non può valere a legittimare l’esercizio di funzioni e poteri.
La sentenza si inserisce perfettamente nel filone giurisprudenziale, che interpreta in senso restrittivo l’ambito di operatività delle ordinanze emesse ai sensi dell’articolo 5 della legge 225/1992 e che si propone di ricondurre l’istituto del Commissariamento nell’alveo della «straordinarietà», piuttosto che convertirlo nell’«ordinarietà»[17], stigmatizzando ogni tentativo, pur interpretativo, volto a dilatarne smisuratamente e, quindi, illegittimamente, l’operatività.
La stessa giurisprudenza amministrativa valorizza le funzioni dei Commissari solo se effettivamente finalizzate al superamento dello stato di emergenza, per il ripristino di condizioni di ordinarietà e normalità, onde consentire alle autorità istituzionalmente competenti la gestione di problematiche e questioni interessanti il territorio su cui esse insistono. La caratterizzazione dei poteri commissariali, di conseguenza, non spalanca le porte ad un esercizio di poteri eccezionali illimitato, arbitrario e sconfinato, tale da mortificare il ruolo e le competenze di enti territoriali e locali. In tale ottica va interpretata la recente sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, del 29 maggio 2006, n. 3273, che, annullando i provvedimenti commissariali impugnati e il provvedimento conseguente ad essi adottato dalla Provincia di Napoli, intercetta, proprio, il problema dei limiti del potere attribuito ai Commissari Straordinari. Le determinazioni assunte dagli stessi, seppur generalmente sorrette da una riconosciuta legittimazione, non sono esonerate, automaticamente, da giudizi di legittimità e, quindi, dall’eventuale effetto caducatorio derivante da una pronuncia giurisdizionale di annullamento. L’intervento del Consiglio di Stato, alla stregua di molti altri di identica natura, si propone di delimitare l’ambito di operatività delle azioni commissariali, rimarcando la necessità della sottoposizione a giudizi di legittimità. Le situazioni di emergenze che i Commissari si trovano a fronteggiare li dotano di poteri extra ordinem, il cui sconfinato ed incontrollato esercizio, però, rischierebbe di calpestare, in maniera irrimediabile, i principi fondamentali sui quali si fonda il nostro ordinamento e sui quali è organizzata la pubblica amministrazione. Il recente intervento del Consiglio di Stato, a seguito del quale viene disposto l’annullamento di provvedimenti commissariali e di quelli provinciali ad essi conseguenti, è dimostrativo della tendenza a far rientrare nei giusti limiti l’azione dei commissari, la quale, comunque, deve sottostare ai canoni della legalità, della trasparenza, del buon andamento quali canoni ispiratori dell’azione amministrativa, in tutte le forme e modalità in cui essa può estrinsecarsi. Nel caso di specie si controverte della legittimità della determinazione dirigenziale con la quale, sulla base di alcune ordinanze adottate dal Commissario di Governo per l’emergenza rifiuti nella Regione Campania, la provincia dispone la sospensione dell’attività di messa in riserva e recupero dei rifiuti non pericolosi esercitata dalla ricorrente e la sospensione della stessa società del registro delle imprese di cui agli articoli 31 e 33 del d. lgs. 22/1997, in virtù di alcune, infondate, considerazioni da essa espressamente indicate. Rilevandosi che né dal d. lgs. 22/1997, né da alcuna altra disposizione può desumersi l’esistenza del divieto di conferire e trattare nel medesimo impianto rifiuti delle differenti tipologie (su questo principale elemento si fonda la motivazione dei provvedimenti impugnati), e rinvenendosi, al contrario, disposizioni nel senso della compatibilità del trattamento presso il medesimo impianto di differenti tipologie di rifiuti, il Consiglio di Stato opta per l’annullamento dei provvedimenti.
La giurisprudenza amministrativa, pur consapevole della necessità di interventi straordinari in presenza di situazioni emergenziali, si preoccupa di circoscrivere l’ambito operativo dell’istituto commissariale, ancorandolo a parametri di legittimità ben precisi. I giudici amministrativi operano il salvataggio dei provvedimenti commissariali utilizzando gli stessi riferimenti di legittimità che ne determinano la caducazione. Nella sentenza del 30 maggio 2005, n. 2795, Sez. IV, il Consiglio di Stato, infatti, dichiara infondato l’appello proposto contro decisioni e provvedimenti del Commissario di Governo per l’emergenza rifiuti in Puglia, non riscontrandosi, nel caso di specie, alcuna violazione di quelle norme e di quei principi, cui il Commissario deve informare la propria attività. Si sottolinea, anzi, l’adeguatezza dell’intervento straordinario rispetto all’ entità del problema, reputandosi infondate le censure formulate dagli appellanti, soprattutto quelle appuntate sull’irragionevolezza e l’irrazionalità del provvedimento, di cui i difetti relativi alla motivazione sarebbero indici rivelatori. Pur pretendendo, infatti, i giudici amministrativi osservanza e rispetto dei criteri che legittimano l’insediamento di un Commissario Straordinario per l’emergenza rifiuti, onde evitare l’eccessiva ed ingiustificata dilatazione dell’ambito operativo, la quale snaturerebbe l’istituto, riconoscono che, in tema di poteri extra ordinem, la valutazione e la ponderazione degli interessi in gioco non deve seguire pedissequamente le regole e i criteri che governano l’azione amministrativa rispetto a situazioni ordinarie, in modo tale da evitare che ogni carenza, insufficienza o contraddittorietà relativa alla motivazione si trasformi necessariamente in un vizio del provvedimento, sotto forma di una delle figure di eccesso di potere. Dalla comparazione delle due sentenze, si evince chiaramente l’indirizzo giurisprudenziale (almeno quello amministrativo) affermatosi in merito ai limiti dell’azione dei Commissari Straordinari di Governo, ai poteri ad essi spettanti ed al regime giuridico cui devono sottostare i provvedimenti adottati[18].
3. Lo stato di emergenza dei rifiuti in Campania: dal Decreto della Presidenza del Consiglio del febbraio 1994 all’ “emergenza nell’emergenza”.
+ Lo stato di «emergenza-rifiuti» nella Regione Campania venne dichiarato, per la prima volta, nel febbraio del 1994, con la nomina a Commissario Delegato del Prefetto di Napoli, al quale, sostanzialmente, veniva affidato l’incarico di garantire le attività di smaltimento attraverso la realizzazione di nuove discariche e l’eventuale requisizione di quelle esistenti.
L’unica operazione avviabile per fronteggiare la situazione venne individuata nel conferimento dei rifiuti in discariche esclusivamente a titolarità e gestione pubblica, anche, al fine di assicurare trasparenza in un settore ad alto rischio di infiltrazioni malavitose.
Al Prefetto di Napoli[19] spettava il compito di provvedere alla progettazione, realizzazione ed autorizzazione di nuove discariche (O.M. di riferimento 35/94 e 75/94 e tutte fino alla 3032/00), assicurando, nelle more della realizzazione di impianti di produzione di cdr, lo smaltimento dei rifiuti, mediante il massimo riutilizzo di quelle esistenti (O.M. di riferimento 3032/00 fino a 3100/00). Nel 1996, su richiesta del Prefetto di Napoli, venne nominato un secondo Commissario Delegato, nella persona del Presidente della Regione Campania[20], che assumeva poteri in deroga fino all’approvazione del piano regionale. A partire dal 1996, le O.O.M.M. emesse si riferivano sempre al Commissario Delegato, Prefetto di Napoli, responsabile dell’organizzazione degli smaltimenti attraverso l’uso delle discariche individuate, progettate e gestite dallo stesso ricorrendo ai Consorzi di Bacino di cui alla legge 10/1993 ed al Commissario Delegato, Presidente della Regione Campania, responsabile della redazione e dell’attuazione del piano regionale per la gestione dei rifiuti.
La nomina di due Commissari Delegati creava problemi di coordinamento delle attività e dei progetti da realizzare nell’ambito della gestione dei rifiuti, essendo, solo apparentemente, le competenze diverse tra loro ma, in realtà, molto complementari le une alle altre (la complementarietà delle funzioni e delle competenze richiedeva la concentrazione dei poteri in capo alla stessa persona, a garanzia della linearità e della coerenza degli interventi da predisporre).
La distribuzione di funzioni tra due soggetti costituiva un primo, evidente, segnale dell’uso distorto che, in Campania, si faceva dello strumento, di natura eccezionale e straordinaria, del commissariamento. L’ampliamento dei poteri che, di volta in volta, nelle relative ordinanze, si disponeva a favore dei commissari, era indicativo della gestione alterata del sistema commissariale.
Si affermava la tendenza a determinare uno stabile inserimento del commissario sul territorio, con la conseguenza di snaturare lo stesso istituto, i cui poteri, compiti e funzioni, eccessivamente dilatati nel tempo, sembravano debordanti rispetto alle esigenze, che originariamente, ne avevano legittimato la nomina.
L’insediamento del commissario, Presidente della Regione Campania, era stato finalizzato all’adozione di un piano regionale, di cui, secondo il dettato normativo (d.p.r. 91571982 e, successivamente, decreto legislativo 2271997) la Regione avrebbe dovuto munirsi.
La nomina del commissario, Presidente della Regione Campania, rispondeva all’esigenza di predisporre il piano per lo smaltimento dei rifiuti, accelerando i tempi e semplificando le procedure, le quali risultavano incompatibili con la gravità della situazione. Le vicende del commissariamneto in Campania ne hanno stravolto la natura, la quale, per la eccezionalità e la straordinarietà che la connota, è inconciliabile con un ampliamento eccessivo dei poteri e il prolungamento sconfinato della durata. In Campania, si è ormai (siamo quasi a 13 anni di commissariamento) trasformato in ordinario un sistema fondato, al contrario, su ragioni di urgenza ed eccezionalità, la cui operatività dovrebbe essere strettamente limitata ai tempi necessari a ristabilire un regime ordinario, per consentire alla autorità competenti il normale svolgimento delle proprie attività ,espletando funzioni che appartengono ad esse e che non è consentito siano alle stesse sottratte, in nome di situazioni emergenziali. La ratio sottesa all’istituto del commissariamento è frustrata dal fenomeno campano, ove, il ricorso ad un rimedio straordinario ha contribuito ed ancora contribuisce ad aggravare, piuttosto che a ridimensionare, l’entità dell’emergenza.
Con l’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, n. 2425 del 18 marzo del 1996, recante «Integrazioni e modifiche alle precedenti ordinanze concernenti gli interventi intesi a fronteggiare la situazione di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella Regione Campania», in aderenza ai criteri che dovrebbero presiedere alla nomina di un commissario , si incaricava il Presidente della Regione Campania di approvare il piano regionale per lo smaltimento dei rifiuti, fissando il termine ultimo al 31 dicembre 1996 e di redigere, nel contempo, un piano di interventi di emergenza per assicurare la corretta gestione dello smaltimento dei rifiuti solido-urbani ed assimilabili, speciali, tossici e nocivi. Gli articoli 2, 3 e 4 dell’ordinanza indicavano le misure ed i provvedimenti che il commissario poteva disporre nell’espletamento dell’incarico. La dilatazione dei poteri per un periodo, tra l’altro, eccessivamente lungo aveva finito con lo svilire la funzione del commissariamento, che, pur non assurgendo a fattore determinate o a causa esclusiva e principale del disastro campano, di certo ha contribuito all’aggravamento della situazione, fosse solo per aver impedito, con il suo stabile insediamento, il ricorso a soluzioni alternative. La frammentazione del potere commissariale (nomina di due commissari), l’ampliamento di funzioni e compiti spettanti al commissario, avvenuto gradualmente e non pianificato sin dall’origine in relazione agli obiettivi da perseguire, hanno impedito la definizione di una strategia di recupero logica, coerente e, soprattutto, unitaria.
Tra l’altro, l’evoluzione politico-amministrativa ed il succedersi di tre diversi Presidenti della Regione non ha, di certo, favorito univocità di indirizzo e di criteri nella politica promossa nel settore dei rifiuti, alimentando, al contrario incertezze sotto ogni profili, da quello organizzativo, gestionale a quello decisionale.
Dal marzo 1996 al gennaio 1999 (Presidente rastrelli; O.O.M.M. di riferimento 2425/96, 2470/97, 2774/98) si prevedevano, tra le altre, le seguenti principali attività: adozione di un piano per l’emergenza-rifiuti, adozione di un piano regionale, avviamento della raccolta differenziata con l’obiettivo di raggiungere il 10% nel 1997 ed il 35% nel 1999, avviamento delle procedure per la realizzazione di impianti di produzione di combustibile da rifiuti, con la stipula di contratti entro il luglio del 1998.
A parte il piano, trasmesso per la prima volta il 31 dicembre 1996 e, successivamente, adeguato al decreto legislativo 22/1997 (l’obbligo di adeguamento fu sancito con ordinanza 2560/1997), per il resto, gli obiettivi fissati non riuscirono ad essere tradotti in realtà. Nel 1997, la raccolta differenziata viaggiava su percentuali molto basse (tra 0,6% e 0,9%). Non furono stipulati i contratti per la realizzazione degli impianti di cdr (fu emesso il bando di gara il 29 giugno del 1998).
Nei periodi successivi, piuttosto che ridimensionare la portata degli obiettivi, al fine di renderli concretamente perseguibili, se ne stabilirono ancor di più ambiziosi, preannunciandosi, così, un periodo di gran confusione per l’accavallarsi di attività, interventi e provvedimenti.
Dal gennaio 1999 al maggio 2000 (Presidente Losco, O.O.M.M. di riferimento 2948/99, 3011/99, 3031/00, 3032/00), ad esempio, si inserì tra i soggetti deputati alla gestione del problema, un Sub-Commissario, incaricato di avviare la raccolta differenziata e di stabilizzarla su percentuali che si aggirassero intorno al 15% per il 1999 e per il 25% per gli anni a venire.
Piuttosto che imprimere una forte accelerazione ai tempi per il contratto relativo alla costruzione degli impianti di cdr, già non rispettati precedentemente, si prorogava il termine al 31 maggio 1999, provvedendosi, intanto, solo all’approvazione dei progetti esecutivi, sottoposti al parere della valutazione d’impatto ambientale.
I notevoli ritardi, rispetto ai tempi fissati, registratisi durante la gestione commissariale di quegli anni, soprattutto in relazione alla realizzazione della filiera impiantistica ed alla raccolta differenziata, amplificarono la gravità della situazione emergenziale, determinando la c.d. «emergenza dell’emergenza», a partire dal 2001.
Questa breve carrellata di episodi, susseguitisi in Campania dal 1994, fa da sfondo alla trattazione di due aspetti che hanno, da sempre, meritato particolare attenzione nello studio e nell’analisi del fenomeno dei rifiuti in Campania: l’impiantistica e la raccolta differenziata.
Il ricorso al Commissario Straordinario di Governo rispondeva, proprio, all’esigenza di dotare il territorio campano di strutture impiantistiche, strategicamente localizzate, idonee a garantire una efficiente gestione dei rifiuti, oltre che di ridurre la produzione dei rifiuti, recuperando materia prima dalla raccolta differenziata.
L’organizzazione di una politica ambientale efficiente, nel delicato settore dei rifiuti, era affidata alla programmazione e alla pianificazione che dovevano realizzarsi attraverso l’elaborazione e l’adozione di piani regionali. Tanto era, già, previsto dal d.p.r. 915/1982 e fu, poi, riconfermato nel 1993 con la legge regionale n. 10, recante «Norme e procedure per lo smaltimento dei rifiuti in Campania», che fissava gli obiettivi, dettava le norme e le procedure per la redazione e l’attuazione del piano di smaltimento dei rifiuti[21].
Il piano regionale, rimodulato, dopo la prima stesura risalente all’anno 1996, diverse volte, prevedeva la realizzazione di sette impianti di cdr e di due termovalorizzatori. La scelta di avviare la costruzione di sette impianti di cdr, anche in assenza di altre soluzioni impiantistiche che chiudessero il sistema, era legata al livello di gravità raggiunto in Campania dalla situazione dei rifiuti, esasperata anche per la chiusura delle grandi discariche presenti sul territorio.
Gli impianti sono stati realizzati da FISIA Italimpianti S.P.A. (Tufino, Caivano, Giuliano, su progettazione del 1999) e, successivamente, della sua affidataria FIBE Campania S.P.A. (S. Maria Capua Vetere, Casalveduni, Pianodardine, Battipaglia, su progettazione degli anni 2000 e 2001), dopo l’approvazione dei progetti da parte del Commissariato di Governo.
Due elementi di criticità si potevano, immediatamente, segnalare rispetto alle soluzioni impiantistiche, così come formulate nel piano: le carenze del piano, tutto sbilanciato, nella tempistica di attuazione e la non esatta corrispondenza tra impianti progettati e quelli realizzati, come conseguenza della mancanza di una vera e propria politica ambientale.
Sotto il primo aspetto, nel piano non vi è stata adeguata e realistica valutazione della tempistica di realizzazione degli impianti, sia dei cdr che dei termovalorizzatori. Le lungaggini legate alle procedure autorizzative dell’impianto di utilizzo del combustibile derivato dai rifiuti ha dilatato in modo determinante la fase di produzione dello stesso nelle more del suo utilizzo, rendendo indispensabili molte più aree di stoccaggio, anche per la necessità di prevedere una maggiore permanenza del cdr nelle aree stesse. Si è resa, in tal modo, evidente, un’incongruenza contenuta nel contratto di appalto, ove risultava mancante un piano relativo alla localizzazione delle discariche di supporto e di stoccaggio del cdr prodotto.
Procedure e tempi previsti per la realizzazione degli impianti di termovalorizzazione sono risultati poco verosimili, se non addirittura velleitari. In particolare per quanto riguarda le procedure relative alla loro realizzazione: era stata, a tal riguardo, prevista una sfasatura di venti mesi tra la messa in esercizio degli impianti di produzione di cdr e la messa in esercizio dei termovalorizzatori e ciò in quanto l’impegno per la costruzione di un impianto di cdr era maggiore di quello richiesto per un termovalorizzatore, che si aggirava, più o meno, sui due anni. Difformemente da quanto verificatosi, l’avvio dei lavori per le due diverse tipologie di impianti avrebbe dovuto essere contestuale ed i procedimenti per il rilascio di autorizzazioni necessarie per la realizzazione di impianti di recupero energetico avrebbero dovuto essere in stato avanzato (le autorizzazioni, invece, furono concesse solo in data 24 aprile 2004).
Il fatto, inoltre, che la scelta dei terreni fosse stata affidata alla società aggiudicataria ebbe a provocare una serie di ricorsi giurisdizionali in sede amministrativa, da parte dei comuni e di altri enti locali, sui cui territori erano stati acquistati a tale scopo i terreni (sia il comune di Acerra che la provincia di Caserta, in riferimento - quest’ultimo - al termovalorizzatore da edificare presso Santa Maria La Fossa), con ulteriore incidenza sulla tempistica generale degli obblighi di realizzazione degli impianti.
In previsione della sfasatura tra l’avvio degli impianti di produzione del cdr e quelli di termovalorizzazione, era stato stabilito in sede di gara che per lo stesso periodo, esso potesse essere stoccato o posto in riserva per essere poi avviato a combustione una volta messi in esercizio gli impianti.
Invero, in sede di gara, non era stato definito, né era stato richiesto all’aggiudicataria, un piano dettagliato relativo alle aree di stoccaggio del cdr e delle discariche di supporto.
La situazione sfociò, nel 2001, in quella che è stata definita «emergenza nell’emergenza», occasionata dalla saturazione dei volumi delle discariche, con i successivi provvedimenti di sequestro giudiziario delle discariche di Tufino e Montecorvino Pugliano, ma causata dalle carenze di previsione e di gestione illustrate.
In ordine al secondo profilo di criticità emerso in relazione all’impiantistica, gli impianti di trattamento non hanno prodotto i materiali per i quali erano stati autorizzati e, tra l’altro, i materiali ottenuti, qualunque fossero le caratteristiche, sono stati destinati a discarica. Tale insufficiente performance produttiva di tutti gli impianti campani è stata ascritta ad un’inefficace differenziazione dei rifiuti in entrata, a scelte gestionali opinabili, oltre che alla determinante circostanza che gli impianti sono stati destinati a lavorare con materiali, quantità ed a ritmi non previsti in progettazione, con un frequente fermo impianti per manutenzione.
L’utilizzazione degli impianti di cdr non era conforme alla logica comunitaria e nazionale affermatasi in materia ambientale, la quale puntava al reimpiego dei materiali ed alla riduzione della quantità di produzione dei rifiuti. In quest’ottica, il cdr assumeva importanza economica, oltre che dignità legale, in quanto legato alla valorizzazione a fini energetici. Il cdr era prodotto per essere valorizzato; se non si riusciva a termovalorizzarlo, esso continuava a mantenere la sua qualità di rifiuto, da cui non solo non si ricavavano profitti ma anzi derivavano nuovi costi per il suo definitivo smaltimento. Sulla natura del combustibile da rifiuto, la stessa giurisprudenza ha assunto, a seguito dell’entrata in vigore del Decreto Ronchi, una posizione chiara, riconoscendo al prodotto, qualificato come cdr, natura di rifiuto (cfr., ad esempio, Tribunale di Grosseto, Sez. penale, 17 gennaio 2001). Con l’emanazione del Decreto Ronchi, le sostanze in questioni sono divenute, ad ogni effetto, rifiuti sottoposti alla nuova disciplina e gli spazi di equivocità che tale categoria aveva introdotto si sono chiusi, nonostante non siano mancati tentativi minatori in tal senso; le proposte di modifica alla disciplina sui rifiuti, contenuta nel d.lgs. 22/1997, hanno suscitato vivaci reazioni per l’intenzione di regolamentare diversamente il rifiuto sottoposto a pretrattamento. L’interpretazione costante ne ha, comunque, riconosciuto la natura di rifiuto, deponendo, in tal senso, anche la formulazione della norma. Infatti, ai sensi dell’articolo 6, comma 1, lettera p del d.lgs. 2271997 «Il combustibile ricavato da rifiuti urbani mediante trattamento finalizzato all’eliminazione delle sostanze pericolose per la combustione ed a garantire un adeguato potere calorico e che possieda caratteristiche specificate con apposite norme tecniche» è cdr. Tecnicamente l’operazione veniva descritta in questi termini: la trasformazione dei rifiuti solidi urbani in cdr passava attraverso trattamenti meccanici atti a selezionare la frazione a più elevato potere calorifico, ad omogeneizzarla e condizionarla. Nell’impianto di produzione di combustibile da rifiuti si realizzava la preselezione dei rifiuti solidi urbani, per poi sottoporli ad una preparazione. La preselezione costituiva la fase in cui il rifiuto veniva sottoposto a trattamenti di frantumazione, deferrizzazione e vagliatura primaria per la separazione grossolana della materia prevalentemente organica. Mentre la parte organica poteva essere inviata ad un eventuale linea di compostaggio, la frazione combustibile veniva convogliata al reparto di produzione di combustibile da rifiuti, ove subiva un’ulteriore separazione mediante insufflazione d’aria per il recupero della frazione leggera, che veniva ancora triturata in modo da ridurne la pezzatura. Essa rappresentava la parte a più elevato potere calorifico dei rifiuti solidi urbani e poteva essere utilizzata tal quale o poteva essere ulteriormente addensata. E’ stato correttamente sostenuto che tale selezione dei rifiuti finalizzata alla produzione di combustibile da rifiuti costituiva trattamento intermedio dello stesso processo di recupero; trattamento che, in quanto volto ad eliminare la frazione non combustibile e le sostanze pericolose per la combustione, non era di per sé idoneo a mutare la natura giuridica di rifiuto. Lo stesso Ministero dell’Ambiente ha, in più occasioni (nota GAB/99/199763/B09 del 25 maggio 1999; nota 23396/ARS/R/DI del 23 dicembre 1999), ribadito che le sostanze in uscita da un impianto di selezione e trattamento di rifiuti urbani, nonché lo stesso cdr, dovevano essere considerati rifiuti.
La mancata realizzazione di termovalorizzatori, quindi, non consentiva al ciclo di rifiuti di completate il suo percorso ma, anzi, creava un ulteriore problema, quello delle balle, prodotte e non smaltite.
Il piano è stato disatteso anche rispetto ad un altro profilo, ovvero quello riguardante la raccolta differenziata.
Il piano regionale emergenza rifiuti, definitivamente approvato il 9 giugno 1997, prevedeva che il 35% dei rifiuti urbani fosse destinato al recupero di materia prima secondaria, con l’espletamento della raccolta differenziata, mentre il 65%, trattato negli impianti di cdr, evitando di inviare i rifiuti «tal quale» in discarica.
In armonia con il decreto legislativo 22/1997, che aveva sancito l’obbligatorietà della raccolta differenziata, il piano regionale individuava in essa la soluzione strategica, alternativa e razionale al problema dei rifiuti solidi urbani. La promozione della raccolta differenziata soddisfaceva due esigenze: facilitava il recupero dei materiali da reinserire nel ciclo produttivo, come le materie prime; destinava minori quantitativi allo smaltimento.
Ma la raccolta differenziata, in Campania, si è attestata su percentuali bassissime, non ricevendo, tra l’altro, l’attenzione meritata; infatti non è stata supportata da un’adeguata organizzazione (né impiantistica, né gestionale).
Una politica di promozione della raccolta differenziata, era destinata a fallire comunque, non essendo stati congeniati sistemi adatti a completare l’operazione di raccolta differenziata. Infatti i rifiuti da raccolta differenziata dovevano essere trattati in appositi impianti, negli impianti di compostaggio, di cui il piano regionale non faceva menzione. Nonostante incalzassero le ordinanze (O.O.M.M. di riferimento 2560/97, 2774/98 ed altre) al fine di sollecitare la costruzione di impianti di compostaggio, nonostante si cominciavano ad elaborare progetti per gli impianti di compostaggio, concretamente non si intravedevano spiragli di luce, in tal senso[22].
L’espressione emergenza nell’emergenza, in riferimento alla situazione determinatasi in Campania dal 2001, è stata utilizzata quale indice di misurazione delle allarmanti dimensioni dell’emergenza – rifiuti, derivante da due principali fattori: il basso livello su cui si è attestata la raccolta differenziata e le anomalie, soprattutto in relazione alla tempistica, riscontrate nella costruzione della filiera impiantistica.
In una già grave condizione di emergenza, sofferta dalla Regione Campania a partire dalla metà degli anni novanta, la chiusura di alcune discariche prima che il sistema impiantistico fosse avviato e senza che le discariche rimaste in esercizio fossero in grado di assorbire il vuoto lasciato da quelle chiuse e i risultati fallimentari ottenuti con la raccolta differenziata, hanno determinato il tracollo del sistema.
Il Governo, nel giugno 2000, al momento dell’elezione del Presidente della Regione On. A. Bassolino, preso atto che le procedure per l’avvio degli impianti non avevano consentito neppure l’avvio dei cantieri degli stessi e che l’accordo di programma, propedeutico al contratto, non era ancora stato stipulato ma che, contestualmente, il Prefetto di Napoli comunicava la ormai imminente saturazione delle discariche, prorogava le due figure commissariali, stabilendo che il Presidente della Regione procedesse direttamente alla stipula del contratto e il Prefetto di Napoli proseguisse nell’utilizzo delle discariche esistenti, sfruttando fino in fondo anche eventuali volumetrie aggiuntive possibili. Nel gennaio del 2001, pur considerato che le procedure per la realizzazione degli impianti avevano consentito l’avvio dei lavori, prendendo atto che i tempi tecnici necessari alla realizzazione degli impianti non avrebbe potuto coincidere con la capacità del Prefetto di Napoli di garantire i volumi di discarica ancora necessari, prorogava le due figure commissariali, estendendo quella affidata al Prefetto di Napoli anche ai Prefetti delle altre province e attribuendo agli stessi Prefetti il compito e la competenza per avviare forme di smaltimento alternativo, laddove la chiusura delle discariche non avesse coinciso con l’avvio degli impianti di produzione del combustibile derivato dai rifiuti. Sulla base di una prospettata situazione di particolare emergenza che, stante alle informazioni fornite dal Prefetto di Napoli, appariva essere grave ma graduale e gestibile in tempi tali da consentire la realizzazione dell’impiantistica alternativa affidata ai Prefetti delle Province, ha previsto, con l’OM 3100 del dicembre 2000, che tale emergenza potesse essere affrontata con oneri a carico dei Comuni, derivanti da un’addizionale da applicarsi agli smaltimenti[23].
La situazione, a cui l’O.M. 3100 cercava di porre rimedio, precipitò all’improvviso, divenendo ancor più grave di quella paventata; infatti, a soli tredici giorni di distanza dall’O.M., si pervenne al sequestro giudiziario della discarica principale della provincia di Napoli (Tufino), il cui sfruttamento eccessivo e conseguente all’esercizio del Prefetto di Napoli delle competenze di utilizzo delle discariche esistenti, anche oltre i limiti assentiti, comportò problemi di gestione che costrinsero, a loro volta, l’autorità giudiziaria ad intervenire.
Tale provvedimento, seguito, dopo pochi giorni, da analogo provvedimento della Procura di Salerno, in riferimento alla discarica di Parapoti, ha peggiorato la situazione di emergenza, che si sviluppava in modi e dimensioni ben più preoccupanti di quelli previsti dalla OM 3100, rendendo di fatto impotente e poco incidente l’azione e l’intervento posto in capo ai Prefetti delle Province e determinando una situazione che si caratterizzò per le migliaia di tonnellate di rifiuti abbandonati nelle strade dei comuni coinvolti.
L’imprevedibilità venne testimoniata dal fatto che in soli tre mesi furono emesse più O.O.M.M., a pochi giorni di distanza le une dalle altre, che tentavano di adeguare le competenze e le deroghe rispetto ad una situazione di grande drammaticità che evolveva giorno dopo giorno. La particolare emergenza nell’emergenza rispetto a cui i Prefetti delle Province non furono in grado di contrapporre provvedimenti e azioni efficaci, anche perché gli sviluppi della stessa si dimostrarono ben più dirompenti di quanto previsto nella O.M. 3100 e successive, fu affrontata, in rapporto con i Prefetti delle Province, attraverso soluzioni che rendessero possibili anche smaltimenti fuori regione. In questa fase l’attività commissariale si è sviluppata attraverso il coordinamento dei flussi di rifiuti prodotti e avviati a smaltimento con soluzioni diverse; attraverso l’adozione di tutti i provvedimenti necessari per avviare soluzioni di smaltimento in grado di fronteggiare l’emergenza; attraverso l’assistenza tecnica ai comuni interessati; l’adozione di provvedimenti per inviare fuori regione i rifiuti.
Nel 2001, quindi, si è verificata la prima grave emergenza (alla quale seguirà una seconda altrettanto allarmante), con l’esaurimento delle discariche di servizio e la mancata attivazione di impianti per la produzione di cdr.
Nell’analisi delle cause che hanno, a ritmi incontrollabili, determinato il collasso della situazione, non può prescindersi dal risultato negativo della raccolta differenziata. Nota dolente, infatti, della tormentata vicenda dei rifiuti in Campania è costituita, senza ombra di dubbio, dal fallimento che la raccolta differenziata ha ottenuto in Campania; nonostante gli obblighi sanciti da leggi nazionali e regionali, oltre che dal Piano Regionale per l’emergenza rifiuti, il sistema non si è mai avviato al decollo.
Il Piano Regionale per l’emergenza rifiuti prevedeva che il 35% dei rifiuti urbani in Campania fosse destinato al recupero di materia prima secondaria con l’espletamento della raccolta differenziata, mentre il 65% venisse trattato negli impianti di produzione del combustibile da rifiuti, evitando di inviare i rifiuti «tal quale» in discarica («tal quali» sono i rifiuti, non differenziati a monte e trasportati dagli autocompattatori appartenenti ai circuiti di raccolta comunale alle aree di trasferenza. Qui si provvede ad un primo controllo sui rifiuti e, successivamente, al trasferimento presso gli impianti di produzione di combustibile da rifiuti).
Il mancato raggiungimento degli obiettivi dichiarati nel Piano Regionale (oltre che in diverse leggi intervenute in materia, prime fra tutte la legge n. 475 del 9 novembre 1998 e il decreto legislativo 22 del 5 febbraio 1997, come integrato e modificato dal decreto legislativo 389 dell’8 novembre 1997) ha determinato un impatto negativo sull’organizzazione del ciclo dei rifiuti, nella fase di emergenza.
Alla raccolta differenziata si affidava il compito di garantire la diminuzione del flusso dei rifiuti da avviare allo smaltimento, la valorizzazione delle componenti dei rifiuti, sin dalla fase della raccolta, la riduzione della quantità e della pericolosità dei rifiuti da avviare allo smaltimento ed, infine, il recupero dei materiali e delle energie nella fase di trattamento finale.
Se, durante il periodo di Commissariamento, fosse stato realizzato il sistema di raccolta differenziata, sarebbe derivato un effetto positivo per la Regione: l’alleggerimento, cioè, dal peso, ormai insostenibile, costituito dalla produzione di rifiuti non smaltiti, che ha soffocato la Campania, costringendola in una situazione di perdurante allarme.
4. Il Commissario Straordinario di Governo per l’emergenza rifiuti in Campania: da rimedio straordinario a rimedio ordinario.
In data 27 febbraio 2004, a seguito di una nota del 24 febbraio 2004, con cui il Presidente della Regione Campania invitava la Presidenza del Consiglio dei Ministri ad individuare un nuovo Commissario Delegato, fu emessa l’Ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri che nominava, per tale incarico, il dott. Corrado Catenacci (OPCM n. 3341 del 27 febbraio 2004). La repentina sostituzione del Commissario Delegato e la drammatizzazione che colpiva la situazione dei rifiuti in Campania hanno imposto la continuazione di alcune attività da parte del precedente Commissario Delegato, On. A. Bassolino, il quale, tra l’altro veniva incaricato di rendere, quanto prima, operativa l’azione del subentrato Commissario, affinché non si determinasse una paralisi in un momento in cui l’allarme-rifiuti tendeva ad amplificarsi.
L’improvviso passaggio da uno ad un altro Commissario, avvenuto per le dimissioni del primo e non per naturale scadenza dell’incarico, segnalava la difficoltà di gestione di una situazione ormai incontrollabile, di cui erano diventati visibili gli effetti dirompenti. Il Commissario Straordinario di Governo si era, ormai, stabilmente radicato sul territorio, realizzandosi un’«anomalia» sotto un duplice profilo. Innanzitutto, era evidente lo snaturamento dell’istituto, al quale è stato riconosciuto come esclusiva finalità quella di rimediare ad una situazione di emergenza, non altrimenti fronteggiabile, ristabilendo le condizioni di normalità affinché le competenti autorità svolgessero compiti e funzioni istituzionalmente ad esse spettanti. Al contrario, in Campania, il Commissario Straordinario ha affermato la sua presenza in maniera stabile e continuativa, sostituendosi, per un periodo eccessivamente lungo, ai soggetti deputati alla gestione di un servizio pubblico. Sotto un profilo strettamente giuridico, quindi, si è verificata un’anomalia, nel senso di aver trasformato un rimedio straordinario in uno ordinario.
Concretamente, tra l’altro, non sono derivati effetti positivi dallo stabile insediamento del Commissario Straordinario sul territorio, al contrario aggravandosi la situazione fino a raggiungere picchi altissimi nel 2001, prima della realizzazione degli impianti di combustibile da rifiuti e nel 2004, anche a seguito della costruzione di impianti di cdr. L’esperienza commissariale, oltre a non trovare una giustificazione di tipo giuridico, per l’evidente contrasto con la ratio sottesa all’istituto, non ha potuto essere, in nessun altro modo, giustificata, considerati i fallimentari risultati che ne sono conseguiti.
Nonostante gli interventi della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato, che riconducevano l’istituto nei confini di un intervento sussidiario, l’incontrollabilità e l’ingestibilità di una situazione divenuta irrimediabilmente allarmante costringevano a prorogare continuamente lo stato di emergenza-rifiuti, ampliandosi a dismisura i poteri spettanti al Commissario. In tale ottica va rilevato che il decreto legge n. 14 del 2005, recante misure per fronteggiare l’emergenza nel settore dei rifiuti, presentava, appunto, il rischio di dilatare l’ambito dei poteri commissariali, mediante l’attribuzione al Commissario di poteri sostitutivi, non solo nei confronti di enti pubblici, bensì anche di soggetti privati. Era previsto, infatti, che il Commissario autorizzasse le necessarie iniziative di adeguamento tecnico-funzionale degli impianti medesimi da parte dei soggetti affidatari (soggetti cui era stato commissionato il compito di procedere ai lavori per la costruzione di impianti di cdr ecc..) e, in caso, di inadempienza di questi ultimi, provvedesse in via sostitutiva sulla base di apposite procedure di somma urgenza. Il Commissario si insinuava anche nei rapporti contrattuali con i soggetti affidatari, con le anomalie sistematiche che ne conseguivano, prima e più eclatante fra tutte, quella che trasformava l’inadempimento contrattuale del soggetto affidatario in circostanza legittimante interventi sostitutivi, in ambito di tipo squisitamente imprenditoriale. Questo ampliamento dei poteri commissariali rese ancor più problematica la temporaneità dell’intervento commissariale. Era difficile, infatti, pensare ad una gestione provvisoria rispetto ad interventi che avevano come scopo il completamento e l’adeguamento di impianti industriali, soprattutto quando ciò implicava l’adozione di scelte che comportassero un vero e proprio rischio di impresa.
Intanto, però, maturava la consapevolezza della necessità di un ritorno al sistema di gestione ordinario, che responsabilizzasse i soggetti istituzionalmente deputati alla risoluzione di simili questioni, riportandole nell’alveo dell’ordinarietà. Di certo, però, occorreva procedere ad un passaggio controllato, non brusco, alle competenze ordinarie, al fine di arginare il rischio di mandare il sistema in «fibrillazione».
In tale ultima prospettiva, appariva indispensabile avviare, contestualmente alla definizione del rapporto con le imprese affidatarie ed agli interventi di adeguamento dell’impiantistica, opportune forme di coinvolgimento di tutti gli enti pubblici titolari delle competenze in materia, allo scopo di pervenire ad una scelta, secondo criteri omogenei e condivisi, di tutti i contraenti chiamati a gestire nell’ordinario gli impianti.
In tale contesto e con tali premesse, il decreto legge n. 245 del 30 novembre 2005 (convertito in legge 27 gennaio 2006, n. 21), venne a definire le coordinate per superare sia le difficoltà connesse al rapporto contrattuale con le società affidatarie del servizio, sia, più in generale, la fase, ormai pluridecennale, di gestione commissariale della Regione. Indubbiamente la risoluzione del rapporto contrattuale rappresentava uno snodo indispensabile nella definizione di un programma che riportasse a normalità l’intera gestione del ciclo integrato di rifiuti in Campania. Si scelto, quindi, di dichiarare con decreto legge la risoluzione del contratto, facendo salvi gli eventuali diritti derivanti dai rapporti contrattuali risolti; e, per altro, verso imporre la prosecuzione del rapporto con le società affidatarie, fino al subentro delle nuove imprese aggiudicatarie[24].
A prescindere dalla opinabile, quanto inevitabile, scelta relativa al rapporto con FIBE, il decreto legge esprimeva l’esigenza di superare la gestione commissariale, indicando le prospettive del mutamento, a favore del ritorno alla normalità. Innanzitutto, la previsione di adeguamenti del piano regionale costituiva il segnale dell’abbandono di una visione, per così dire, ideologica della gestione del ciclo dei rifiuti in Campania, aprendosi finalmente la programmazione alle migliori sollecitazioni provenienti dalla tecnologia, dalla scienza e dalle sensibilità ambientali. Si intraprendeva, poi, con decisione, la strada dell’incremento della raccolta differenziata, introducendo opportune misure di sostegno. Si considerava l’informazione ambientale un aspetto di assoluta centralità.
Il superamento dell’emergenza e, in generale, il futuro della gestione dei rifiuti in Campania, era, innanzitutto, un fatto culturale, che passava attraverso la capacità di comunicare, modulare, coinvolgere: comunicare, attraverso conferenze di servizi o strumenti ancora più agili, con amministratori locali ed imprese; coinvolgere i cittadini facendoli sentire attori di un processo ampio; modulare il piano di gestione, coniugando la protezione dell’ambiente naturale con l’esigenza dell’ambiente sociale e produttivo.
L’intenzione era di cambiare rotta: la gestione commissariale era espressione di un sistema rivelatosi inidoneo rispetto ad una situazione, quale era quella in Campania, complessa e troppa variegata per essere affidata ad un unico soggetto, la cui prolungata presenza sul territorio, ha contribuito ad aggravare, piuttosto che a risanare, la situazione. Il carattere straordinario dell’istituto ha favorito l’adozione di soluzioni provvisorie; al contrario, la definizione di una politica ambientale, permeata da stabilità e coerenza, avrebbe potuto rimediare ai disastri che hanno gravemente colpito la Campania, costringendola ad uno stato di perdurante emergenza.
Rimedi dettati dalla contingenza della situazione e non da ponderate valutazioni non sono riusciti, neppure, a garantire una politica di prevenzione rispetto all’infiltrazione della criminalità organizzata.
La gestione illecita dei rifiuti ha costituito una delle concause, a monte dell’emergenza, efficacemente rimuovibile solo per intervento di una razionale ed unitaria politica ambientale, ispirata dalla stabilità piuttosto che dall’improvvisazione.
Era maturata la consapevolezza del cambiamento ma le condizioni non ne consentivano una concreta realizzazione, continuando la Campania a vivere in stato di emergenza.
La Campania ha continuato a soffocare nei rifiuti, intrappolando i cittadini, che, nei periodi di maggiore crisi, sono stati costretti ad incendiare le valanghe accumulate lungo strade e marciapiedi. L’incapacità, per la Regione, di dotarsi di un piano strategico, che individuasse azioni ed interventi adeguati a gestire il problema, oltre che autorità competenti per affrontarlo e riportarlo nei margini della normalità, ha fatto sì che, ancora una volta, si ripiegasse sul commissariamento e sul prolungamento dello stato di emergenza, con la nomina, nel 2006, del Generale Jucci per la raccolta differenziata (le basse percentuali della raccolta differenziata sono da annoverarsi tra le cause dello sfacelo in Campania), con l’obiettivo di raggiungere la soglia del 35%, contribuendo a riportare al regime ordinario la gestione dei rifiuti al gennaio 2007 e con l’emanazione del decreto-legge 9 ottobre 2006, n. 263, recante «misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dei rifiuti nella Regione Campania».
Con tale ultimo decreto, considerata la gravità del contesto socio – economico – ambientale, derivante dalla situazione di emergenza, suscettibile di compromettere gravemente i diritti fondamentali della popolazione, è stato nominato Commissario Delegato il Capo del Dipartimento della Protezione Civile.
La Campania è alle soglie del tredicesimo anno di commissariamento: non si può parlare di emergenza ma di cattiva ed inefficiente gestione del problema e, comunque, come è stato affermato, del fallimento di una strategia.
La mancata realizzazione dei termovalorizzatori, dove bruciare le ecoballe, impedendo, in tal modo, la chiusura dell’intero ciclo dei rifiuti, è causa dello sfacelo avvenuto in Campania?
A fronte di quanti fanno derivare l’emergenza-rifiuti proprio dalla mancata costruzione dei termovalorizzatori si contrappone chi, al contrario, individua nella previsione degli inceneritori la vera causa dello stato emergenziale determinatosi in Campania[25].
L’indicazione dell’incenerimento quale via prioritaria e prevalente per la soluzione del problema rifiuti andrebbe a discapito della raccolta differenziata. In Campania, dove già mancano una tradizione ed una cultura di raccolta differenziata, la proposta del termovalorizzatore influenza istituzioni e cittadini, che finiscono con il caricare di ogni aspettativa la suddetta soluzione, con conseguente indebolimento della raccolta differenziata.
Insomma, l’incontrollabilità del fenomeno dei rifiuti in Campania, secondo questa teoria, sembra legato alla prospettazione della strategia incentrata sulla tecnica dell’incenerimento. Se, infatti, quella del termovalorizzatore assume la consistenza della soluzione magica, la raccolta differenziata perde valore, confidandosi, erroneamente, nel fatto che il completamento dell’intero ciclo dei rifiuti, attraverso impianti di produzione di combustibile da rifiuti e termovalorizzatori, possa adeguatamente sostituirla, garantendo gli stessi, se non addirittura più eccellenti, risultati.
Le argomentazioni risultano, però, destituite di fondamento, anche, alla luce degli orientamenti comunitari, che prevedono la possibilità di un recupero energetico della parte residua non altrimenti riciclabile, solo se si rispettate le priorità della riduzione del rifiuto e della raccolta differenziata.
Altro errore imputato ai Commissari ed ai tecnici, sempre da parte di coloro che assumono un atteggiamento critico rispetto al sistema dell’incenerimento e che merita una certa attenzione, consiste nella scarsa considerazione di elementi condizionanti l’esito positivo del progetto di incenerimento, ovvero il consenso delle popolazioni interessate ad ospitare i relativi impianti e la partecipazione attiva delle stesse. I tecnocrati dell’incenerimento avrebbero operato, cioè, proprio secondo quella che è una mentalità manageriale, la quale prescinde totalmente dalle persone, dalla caratterizzazione del territorio, inteso come ambiente, storia, cultura. Si ha a che fare con un territorio eccezionalmente saturo di rifiuti, scorie e liquami disseminati ovunque e senza criteri. Si sarebbe, quindi, secondo coloro che si oppongono ad una politica ambientale che punti esclusivamente sulla soluzione dell’inceneritore, dovuta implementare una politica orientata al «prosciugamento dei flussi di rifiuti diretti a smaltimento», associando e responsabilizzando i cittadini in questa impresa, magari assecondata da un riorientamento delle risorse disponibili per i cosiddetti impianti a tecnologia complessa verso un’azione efficace e dimessa in sicurezza e di bonifica degli scempi commessi in passato. Invece è stata proposta una soluzione con impianti di incenerimento che sono destinati a produrre all’infinito discariche, sia per conferirvi la quantità di rifiuti originati dallo scarto della lavorazione del cdr (Fos - frazione organica stabilizzata – contaminata e sovvalli), sia per collocarvi le ceneri e le polveri pericolose prodotte dall’incenerimento di un cdr che risulterebbe, peraltro, di qualità scadente perché contaminato dall’organico e da altri residui anche pericolosi.
[1] La Campania e la Puglia sono commissariate per l'emergenza rifiuti con Ordinanza del Ministero dell'Interno dal 1994, a seguire dal 1997 la Calabria e infine nel 1999 la Sicilia. Per quanto riguarda la Regione Puglia, con Ordinanza del Presidente del Consiglio, 8 novembre 1994, è stato dichiarato lo stato di emergenza a norma dell'art. 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225, in ordine alla situazione socio-economico-ambientale determinatasi nella Regione Puglia, incaricandosi il Prefetto di Bari di predisporre il programma per “..fronteggiare lo stato di emergenza socio-economico-ambientale determinatosi nella Regione..”. In Calabria, lo stato di emergenza e di crisi socio-economico-ambientale nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani, è stato dichiarato con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, del 12 settembre 1997.
Per quanto riguarda la Sicilia, dopo l’emanazione del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 22 gennaio 1999, con il quale è stato dichiarato lo stato di emergenza, il 31 maggio 1999, il Ministro dell’Interno ha emanato l’Ordinanza n. 2983, con la quale il Presidente della Regione Siciliana è stato nominato Commissario "... per la predisposizione di un piano di interventi di emergenza nel settore della gestione dei rifiuti e per la realizzazione degli interventi necessari per far fronte alla situazione di emergenza".
[2] Relazione Finale della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul ciclo rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse – approvata nella seduta del 15 febbraio 2006.
[3] In generale, sul potere di ordinanze in materia di protezione civile, Corte Costituzionale, 3 giugno 1998, n. 211; Corte dei Conti, sez. Contr., 19 novembre 1996, n. 151; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 27 gennaio 1998, n. 96; cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 19 aprile 2000, n. 2361; Consiglio di Stato, Sez. IV, 19 aprile 2000, n. 2361; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I-ter, 14 febbraio 2001, n. 1148; T.A.R, Sicilia, Palermo, Sez. I, 11 settembre 2002, n. 2373; T.A.R. Sicilia, Sez. II, 27 gennaio 2003, n. 105; in particolare sull’emergenza-rifiuti in Puglia e sui poteri extra ordinem esercitati, cfr. T.A.R. Puglia, Sez. I, 3 maggio 2001, n. 1424; 27 maggio 2002, n. 2587; 20 novembre 2002, n. 5043; Consiglio di Stato, 13 novembre 2002, n. 6280; Consiglio di Stato, 13 dicembre 2002, n. 6809; 28 gennaio 2003, n. 395.
[4] Sulle ordinanze contingibili ed urgenti in materia di rifiuti, v.di F. Novarese, L’ordinanza contingibile ed urgente in materia di rifiuti tra D.P.R. 915/1982 e d.lgs. 22/1997 e successive modificazioni, commento a Cass. Penale, Sez. III, 15 luglio, 1997, n. 9157, in Riv. Giur. Amb., 1999, 1, 96 e ss.
[5] Sui limiti del potere di ordinanza in materia di protezione civile, Cons. Stato, Sez. V, 13 novembre 2002, n. 6280, con commento di A. Gandino, I limiti del potere di ordinanza in materia di protezione civile con riferimento alla nozione di gestione dei rifiuti, in Riv. Giur. Ed, 2, 445 e ss.
[6] Così L. De Pauli, La recente legislazione delle ordinanze di protezione civile in materia ambientale, in Riv. Giur. Amb, 5/2003, 703 e ss.
[7] Cfr., F. Caringella, Il Diritto Amministrativo, Ed. III, Tomo I, Napoli, Simone, 2003, 555 e ss.
[8] Secondo la Corte Costituzionale, i canoni cui le ordinanze devono attenersi possono così riassumersi: «efficacia limitata nel tempo in relazione ai dettami della necessità e dell’urgenza; adeguata motivazione; efficace pubblicazione nei casi in cui il provvedimento non abbia carattere individuale; conformità del provvedimento stesso ai principi dell’ordinamento giuridico», Corte Costituzionale, 2/7/1956, n. 8. Sui caratteri delle ordinanze di necessità ed urgenza, v. di A. M. Sandulli, Diritto Amministrativo, Ed. XV, Tomo I, Napoli, Jovene, 75 e ss.
[10] In materia di rifiuti, il d.p.r. 915/1982 prima, il decreto legislativo 22/1997 poi, hanno previsto, anche, la possibilità per il sindaco di esercitare il potere di ordinanza. Già sotto la vigenza del d.p.r. 915/1982, la Corte aveva indicato i presupposti che legittimavano l’emanazione delle ordinanze: la temporaneità, l’eccezionalità dell’evento verificatosi, la necessità e l’urgenza, la salvaguardia della salute e dell’ambiente, l’individuazione delle concrete e positive misure con cui si doveva realizzare la forma temporanea di smaltimento, una motivazione specifica. Con l’entrata in vigore del decreto Ronchi, essendo stato mantenuto fermo il potere di ordinanza in capo al sindaco per le stesse esigenze, la giurisprudenza ha continuato ad intervenire, precisando sempre maggiormente le condizioni legittimanti l’esercizio del potere. In aderenza al dettato normativo (articolo 13 del decreto Ronchi), si è ancorato il potere di ordinanza ai seguenti presupposti: temporaneità non superiore ai sei mesi, il potere di reiterazione esercitato non più di due volte e, soprattutto, nessuna possibilità di derogare alle disposizioni vigenti in materia ambientale e di sicurezza pubblica. Il presupposto principale rimane quello dell’eccezionalità ed urgente necessità di tutela della salute pubblica e dell’ambiente. Anche tale potere, quindi, può esercitarsi solo in presenza di una situazione sopravvenuta che presenti il carattere dell’eccezionalità, come ad esempio un evento straordinario, per cui si deve intervenire con quella immediatezza incompatibile con i tempi necessari per il rispetto della normativa vigente. Neppure è possibile ricorrere a questi poteri per ragioni finanziarie, in quanto non esiste un principio di giustificazione di tipo economico nel sistema del d.lgs. 22/1997. L’ente ha il dovere di dare la priorità alle spese necessarie per un corretto smaltimento dei rifiuti urbani, anche se il sito si trovi ad una certa distanza e le risorse economiche comunali siano limitate. In tal senso si esprime la Corte di Cassazione, sezione III penale, sentenza 14 ottobre 2004, dove si affronta il problema con riferimento ai poteri del sindaco, ex articolo 13 del d.lgs. 22/1997, per giustificare l’utilizzazione di una discarica senza autorizzazione regionale. Non si può invocare il ricorso al potere di ordinanza, in mancanza di situazioni eccezionali, per risolvere l’ordinaria esigenza di smaltimento di rifiuti. Sulla legittimità delle ordinanze sindacali di necessità ed urgenza, in costanza di situazioni straordinarie, non ordinariamente fronteggiabili, si esprime, in diverse occasioni, il giudice amministrativo. Nella sentenza del T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 21 giugno, 2005, n. 8328, viene ulteriormente ribadito che presupposto dell’esercizio del potere di ordinanza è solo la necessità e l’urgenza, a prescindere da un’eventuale responsabilità della pubblica amministrazione rispetto alla determinazione della contingenza. L’insorgere di una situazione di pericolo, sia pur prevedibile ed imputabile alla pubblica amministrazione, autorizza il ricorso alle ordinanze sindacali, quando esse costituiscano unico rimedio attuabile per la rimozione del pericolo.. Nel caso di specie, la pubblica amministrazione non si è attivata nell’indizione di una nuova gara per l’affidamento del servizio di raccolta e di smaltimento di rifiuti solidi urbani, nonostante che il precedente gestore del servizio avesse manifestato la propria intenzione di non prorogare il relativo contratto. Il giudice risolve stabilendo a favore della legittimità dell’ordinanza sindacale, pur essendo stata causata dalla pubblica amministrazione la situazione di pericolo. Nel definire presupposti, limiti e contenuti delle ordinanze sindacali contingibili ed urgenti, la sentenza si pone in linea di continuità con l’orientamento affermatosi nella giurisprudenza amministrativa, individuando, solo, nella necessità e nell’urgenza presupposti legittimanti l’esercizio del potere, a prescindere da un’eventuale responsabilità della pubblica amministrazione rispetto all’insorgenza del pericolo o, anche, alla prevedibilità dello stesso.
[11] Le principali figure di ordinanze di necessità sono indicate in F. Caringella, op. cit., 124.
[12] Sulle ordinanze in materia di protezione civile, con riferimento anche alle questioni ambientali, e in generale sui poteri extra ordinem esercitabili dalla pubblica amministrazione, v.di Corte Costituzionale, 2 luglio 1956, n. 8; Corte Costituzionale, 27 maggio 1961, n. 26; Corte Costituzionale 12 gennaio 1977, n. 4; Corte Costituzionale, 28 maggio 1987, n. 201; Corte di cassazione, 14 giugno 1991, n. 6756; Corte Costituzionale, 9 novembre 1992, n. 418; Corte dei Conti, sez. contr., 19 novembre 1996, n. 151; Corte di Cassazione, Sez. III, 1 febbraio 1997, n. 42229; T.A.R. Lombardia, Sez. I, 11 giugno 1997, n. 918; T.A.R. Lombardia, Sez. I, 27 gennaio 1998, n. 97; Consiglio di stato, Sez. IV, 16 aprile 1998, n. 197.
[13] La sentenza n. 127 del 1995 della Corte Costituzionale si sofferma sul rapporto Stato-Regioni e sui limiti del potere di ordinanza, di cui all’articolo 2 della legge 225/1992, in costanza di una dichiarazione di stato di emergenza, formalizzata con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Nella specie, si trattava di un giudizio promosso dalla Regione Puglia per conflitto di attribuzione, sorto a seguito del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 novembre 1994 (Dichiarazione dello stato di emergenza a norma dell’articolo 5 della legge 225/1992, in ordine alla situazione socio-economico-ambientale della Regione Puglia) e dell’ordinanza dello stesso Presidente del Consiglio dell’8 novembre 1994 (Immediati interventi per fronteggiare lo stato di emergenza socio-economico-ambientale determinatasi nella Regione Puglia). La Regione Puglia denunciava l’invasione del Presidente del Consiglio che dichiarava lo stato di emergenza, per ingerenza nelle sue attribuzioni, protette dagli articoli 117, 118 e 119 della Costituzione e per violazione e falsa applicazione dell’articolo 2,lettera c della legge 225/1992, non essendovi i presupposti per l’adozione del provvedimento. Secondo la Regione non ricorre la calamità naturale o catastrofe, di cui alla lettera c), dal momento che vi sarebbe stato solo un pericolo di contagio; né ricorrerebbe l’ipotesi residuale degli altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari. La situazione non rientrava, secondo le argomentazioni avanzate dalla Regione, nella fattispecie di cui all’articolo 2, lettera c, bensì in quella di cui alla lettera b del medesimo articolo, in cui si parla di eventi che postulano l’intervento coordinato degli enti e delle amministrazioni competenti, in via ordinaria. La Regione si sentiva privata di potei che ad essa spettano quale ente esponenziale della collettività territoriale. La Corte coglie l’occasione fornita dalla Regione Puglia per riproporre i principi, in passato già esplicitati con puntualità e convinzione, che operano in materia di commissariamento, percependo e non sottovalutando il pericolo di un illimitato ed incondizionato potere conferito al Commissario Straordinario di Governo. Il carattere eccezionale del potere di deroga della normativa primaria conferito ad autorità amministrative munite di poteri di ordinanza impone che siano dettagliati scrupolosamente e puntualmente specificati i poteri dell’organo amministrativo. Tempo, modalità di esercizio, contenuti devono essere indicati precisamente. Ribadisce la Consulta che l’emergenza non legittima il sacrificio illimitato dell’autonomia regionale ed il richiamo a finalità di interesse generale non dà fondamento a misure che vulnerino l’assetto istituzionale determinato dalla Costituzione, compromettendo le competenze delle Regioni. La legge 225/1992 si preoccupa di circoscrivere l’ambito applicativo del potere di ordinanza, legittimando l’intervento straordinario, innanzitutto, quando sia accertata la proporzione tra evento e misure straordinarie da adottare. La Corte richiama, ancora, la legge ricordando che la stessa stabilisce la partecipazione della Regione all’organizzazione e all’attuazione delle attività di protezione civile: Si preoccupa, nel contempo, di fissare precisi limiti, di tempo, di contenuto all’attività dei commissari delegati. Nella misura in cui si garantisca rispetto a questi criteri stabili dalla legge 225/1992, i poteri del commissario Straordinario del Governo, con riguardo soprattutto alla possibilità di adottare ordinanze di cui alla lettera c, dell’articolo 2, si devono reputare legittimi ed anzi necessari.
[14] La legge 339 del 31 ottobre 2001, istitutiva della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, per la durata della XIV legislatura, prevede, all’articolo 1, comma 2, che la Commissione riferisca al fine dei suoi lavori, al Parlamento, sull’attività svolta (l’articolo 82 della Costituzione attribuisce alle Camere il potere di nominare, fra i propri componenti, una commissione di inchiesta. L’articolo così recita: «Ciascuna Camera può disporre inchiesta su materie di pubblico interesse. A tale scopo nomina fra i propri componenti una commissione formata in moda da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi. La commissione di inchiesta procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni della Autorità giudiziaria»).
Nello svolgimento della propria attività istituzionale, la Commissione ha effettuato 31 missioni, di cui tre all’estero, durante le quali sono state sentite oltre 1000 persone e sono stati svolti sopralluoghi presso siti di’interesse. Si sono tenute 178 sedute plenarie della Commissione nel corso delle quali si è proceduto all’audizione di oltre 460 persone. Sono stati organizzati 5 convegni. Alla conclusione dei suoi lavori la Commissione ha approvato nove documenti: nella seduta del 18 dicembre 2002, il documento sui commissariamenti per l’emergenza rifiuti; nella seduta del 16 aprile 2003, il documento sull’attuazione della direttiva 2000/53/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio, relativa ai veicoli fuori uso; nella seduta del 4 novembre, la Relazione territoriale sulla Calabria, nella seduta del 18 dicembre 2003, il secondo documento sui commissariamenti per l’emergenza rifiuti; nella seduta del 1 luglio 2004, il documento sulla nozione giuridica di rifiuto; nella seduta del 28 luglio 2004, la relazione alle Camere sull’attività svolta; nella seduta del 21 dicembre 2004, il documento sull’introduzione nel sistema penale dei delitti contro l’ambiente e contro il fenomeno criminale dell’ecomafia; nella seduta dell’8 marzo 2005, la relazione territoriale sul Friuli Venezia Giulia; nella seduta del 21 dicembre 2005, la relazione territoriale sulla Sicilia e nella seduta del 26 gennaio 2006, la relazione territoriale sulla Campania.
Nel corso dei lavori, la Commissione ha, tra l’altro, cercato di far luce sull’intero ciclo dei rifiuti, sulle organizzazioni che lo gestiscono e sugli eventuali rapporti con la criminalità organizzata, ha accertato la legittimità e la congruità dei comportamenti della pubblica amministrazione, ha individuato le connessioni tra le attività illecite nel settore dei rifiuti ed altre attività economiche ed ha studiato le innovazioni tecnologiche atte a migliorare la gestione integrata dei rifiuti.
Anche per la XV legislatura, con legge 20 ottobre 2006, n. 271, è stata prevista l’istituzione di una Commissione Parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse.
[15] Il pericolo che il ricorso a rimedi «straordinari», il quale dovrebbe essere temporalmente circoscritto, si protragga per un lungo periodo, espropriando gli enti territoriali delle proprie competenze, è stato, in diverse occasioni, evidenziato dalla giurisprudenza. La questione viene, di recente, riproposta, nella nota sentenza della Corte Costituzionale n. 284, del 14 luglio, 2006.
La Consulta affronta la problematica in riferimento alla situazione di emergenza vissuta dalla Calabria, dove nel 1997 è stato dichiarato lo stato di emergenza, con la nomina di un Commissario delegato per effettuare gli interventi necessari al superamento dell’emergenza ambientale nel settore delle acque e dei rifiuti. Già precedentemente, la Corte Costituzionale si era pronunciata in merito ai rapporti Commissario-Regione (sentenza 127/95; sentenza 82/2006), affermando che «l’emergenza non legittima il sacrificio illimitato dell’autonomia regionale; l’esercizio del potere di ordinanza deve risultare circoscritto affinché non venga compromesso il nucleo essenziale delle attribuzioni regionali». Si riteneva che, a fronte dei poteri attribuiti dalla legge 225/1992 al Commissario, dovesse essere tutelata la potestà legislativa regionale.
Lo stesso sistema normativo nazionale sembrerebbe favorire un rapporto di collaborazione tra Commissario e Regione, non precludendo a quest’ultima la partecipazione alle attività svolte dal Commissario. Lo Stato, sulla base di quanto previsto dall’articolo 5 della legge 225/1992, ha una specifica competenza a disciplinare gli eventi di natura straordinaria di cui all’articolo 2, lettera c. Tale competenza si sostanzia nel potere del Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, ovvero, per sua delega, del Ministro per il coordinamento della protezione civile, di deliberare e revocare lo stato di emergenza, determinandone durata ed estensione territoriale in stretto riferimento alla qualità ed alla natura degli eventi. L’esercizio di questi poteri deve avvenire d’intesa con le regioni interessate, sulla base di quanto disposto dall’articolo 107 del decreto legislativo 112/1998 (conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), nonché dall’articolo 5, comma 4-bis, del decreto-legge 7 settembre 2001, n. 343 (disposizioni urgenti per assicurare il coordinamento operativo delle strutture preposte alle attività di protezione civile e per migliorare la strutture logistiche nel settore della difesa civile), convertito, con modificazioni, dall’articolo 1 della legge 9 novembre 2001, n. 401.
Ancor prima della pronuncia della Corte Costituzionale, la giurisprudenza amministrativa si era soffermata sul carattere de eccezionalità e straordinarietà del potere di ordinanza attribuito al sindaco. Con la sentenza 2 aprile 2003, n. 1678, il Consiglio di Stato si sofferma sulla nature delle ordinanze di cui all’articolo 13 del decreto Ronchi, sottolineandone i presupposti legittimanti, ovvero la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a situazioni eccezionali e imprevedibili, cui non può farsi fronte con il ricorso a rimedi ordinari. Il provvedimento deve trovare il suo fondamento unicamente nell’esigenza di porre fine ad una situazione di pericolo per la salute o per l’ambiente.
[16] La tutela dell’ambiente e della salute, in quanto beni costituzionalmente rilevanti, legittima il ricorso ad ordinanze di necessità ed urgenza, ogni qual volta si prospetti il rischio di una seria ed insuperabile compromissione di tali beni, a causa di situazioni eccezionali ed imprevedibili. Nella giurisprudenza amministrativa, si è, di recente, affrontata la questione in relazione ad ordinanze con tingibili ed urgenti che possono essere adottate dal sindaco, ai sensi dell’articolo 50 del d.lgs. n. 267/2000, per imporre limitazioni al transito degli autoveicoli per ragioni sanitaria. Nella sentenza del Consiglio di Stato, sez. v, maggio 2006, n. 3259, viene ribadita, con fermezza e convinzione, la possibilità per il sindaco di un comune, quando evidenti ragioni di tutela della salute lo richiedano, di disporre limitazioni al transito degli autoveicoli, attraverso l’adozione di ordinanze di necessità e di urgenza. Alla cui base stanno gli stessi presupposti e criteri di quelle contemplate, per casi specifici, dalla legge 225/1992.
[17] A tal proposito si veda il commento di A. Gandino, I limiti del potere di ordinanza in materia di protezione civile con riferimento alla nozione di gestione di rifiuti, nota a sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 6280/2002, in Rivista Giuridica Edilizia, 2/2003, 445 e ss.
[18] Sui poteri del Commissario Straordinario di Governo per l’emergenza rifiuti e, in generale, per le situazioni non ordinariamente fronteggiabili, cfr. Cons. Stato, Sez. V, 3 febbraio 2006, n. 422; Corte Costituzionale, 3 marzo 2006, n. 82 ed altre; sugli strumenti ordinari di tutela dell’ambiente, si v.da Cons. Stato, 24 gennaio 2005, n. 1270 e Cons. Stato, 30 gennaio 2004, n. 316, in materia di procedura prevista per la valutazione di impatto ambientale.
[19] Il Prefetto di Napoli era, in quel periodo, Umberto Improta.
[20] Si trattava dell’ On. A. Rastrelli.
[21] L’articolo 2 della legge rubricato, Obiettivi del piano di smaltimento di rifiuti, così recita:«Costituiscono obiettivi del piano: a) il pareggio tra la quantità di rifiuti prodotti e quella a qualsiasi titolo tratta e smaltita in Campania. I sistemi di trasporto e smaltimento dei rifiuti, di qualsiasi tipo programmati e autorizzati a qualsiasi titolo dalla regione, vanno dimensionati in ragione della sua esigenza di smaltire i rifiuti prodotti in Campania; b) la riduzione progressiva della quantità e il miglioramento della qualità dei rifiuti speciali e tossici e nocivi, da perseguire anche attraverso direttive alle aziende pubbliche e private, per la riqualificazione dei cicli produttivi e tecnologici;c) il recupero del rifiuto solido urbano e del materiale riciclabile quale risorsa rinnovabile. La riduzione per il triennio 1993/1995 del numero e della capacità in peso e in volume delle discariche mediante tecniche di compattazione e, principalmente attraverso la raccolta differenziata, fino al 50% della quantità attuale. Le finalità per il triennio consistono: I-1993: 10% raccolta differenziata, 5% riciclo e riuso, 5% compattazione; II – 1994: 20% raccolta differenziata, 10% riciclo e riuso, 10% compattazione; III – 1995: 25% raccolta differenziata, 15% riciclo e riuso, 10% compattazione; d) il censimento ed il programma di risanamento delle aree regionali degradate e inquinate da scarichi abusivi e da qualsiasi altro titolo eseguiti; e) il contenimento della tassa sui rifiuti compatibilmente con l’elevata qualità dei servizi; f) la promozione nelle scuole di un percorso educativo mirante a modificare i comportamenti rispetto alla produzione ed alla gestione del rifiuto.
[22] La ricostruzione della vicende che hanno interessato la Campania, nonché i riferimenti alle ordinanze ministeriali, ai dati ed alle informazioni riguardanti il settore dei rifiuti nella Regione, è stata realizzata attraverso la consultazione della Relazione Finale della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Ciclo dei Rifiuti e sulle attività ad esso connesse, approvata nella seduta del 15 febbraio 2006, relatore On. Paolo Russo (la Commissione è stata istituita con legge 31 ottobre 2001, n. 399). Dati e informazioni utili, a tal fine, sono stati forniti, anche, dagli uffici del Sub-Commissariato del Governo per i rifiuti, siti alla via S. Lucia, Napoli.
[23] L’ordinanza n. 3100 del 22 dicembre 2000, pubblicata in Gazzetta Ufficiale 4 gennaio 2001, n. 3, contiene «Ulteriori disposizioni per fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti in Campania, nonché in materia di bonifica dei suoli, delle falde e dei sedimenti , di tutela delle acque superficiali, di dissesto idrogeologico e del sottosuolo, con particolare riferimento al territorio del comune di Napoli»
[24] Una risoluzione traumatica del rapporto con FIBE avrebbe posto drammaticamente il problema della gestione della fase transitoria, antecedente, cioè, all’individuazione di un nuovo o di nuovi soggetti affidatari. La scelta, però, presenta indubbi profili di criticità; basti pensare al fatto che FIBE era stata incaricata di proseguire nella realizzazione degli impegni di un contratto risolto e, verosimilmente, in pendenza di un contenzioso con la struttura commissariale, quanto ai rapporti precedenti. Di certo non una simile condizione non favoriva una gestione armonica e pienamente efficiente delle iniziative da intraprendere su questioni di notevole impatto per l’ambiente e l’ordine pubblico.
[25] Una spiegazione, apparentemente paradossale, dell’emergenza in Campania è stata azzardata da M. Ruzzementi, L’Italia sotto i rifiuti, presentazione di L.Mara, Milano, Editoriale Jaca Book Spa, 2004, 185 e ss. La previsione degli inceneritori come soluzione portante del piano della Regione Campania avrebbe determinato il fallimento della politica ambientale con riferimento al settore dei rifiuti.