Cass. Sez. III n. 34920 del 18 agosto 2015 (Ud 11 giu 2015)
Pres. Franco Est. Franco Ric. Masselli
Rumore.Attività di bar
L'attività di un bar regolarmente autorizzato dall'autorità amministrativa a rimanere aperto fino a tarda notte ed all'uso di strumenti musicali e di diffusione sonora, va classificata come esercizio di un «mestiere rumoroso», in quanto l'uso di tali strumenti è strettamente connesso e necessario all'esercizio dell'attività autorizzata, con la conseguenza che il superamento, mediante gli strumenti stessi, dei limiti massimi o differenziali di emissione del rumore integra l'illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma secondo, della legge 26 ottobre 1995, n. 447.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
A Masselli Luigi venne contestato il reato di cui all'art. 659, comma 1, cod. pen., in relazione al DPCM 14.11.1997, per avere, quale gestore del Bar Tornassi sito in Milano al Largo Promessi Sposi, n. 2, mediante la produzione di rumore derivante dall'attività di musica in tempo di notte esercitata all'interno del locale, cagionato emissioni rumorose superiori ai limiti consentiti dal DCMP 14.11.1997 e tali da disturbare, anche in tempo di notte, le occupazioni e il riposo delle persone abitanti in via Sebeto n. 1 (fatti denunciati il 25.12.2009, accertati il 27.4.2010, e commessi con permanenza). .
Il giudice del tribunale di Milano, con sentenza del 29 maggio 2012, osservò preliminarmente che il M. era stato già condannato con sentenza del 13 luglio 2011, passata in giudicato l'11 gennaio 2012, per il medesimo fatto per cui si procedeva in questo processo, contestato come denunciato il 30 settembre 2009 e permanente. Rilevò quindi che la permanenza era cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado il 13 luglio 2011 e che pertanto il presente giudizio aveva ad oggetto esclusivamente il nuovo reato costituito dalla condotta contestata come permanente e posta in essere a decorrere dal 14 luglio 2011 alla data della sentenza di primo grado, ossia al 29 maggio 2012. Nel merito ritenne fondata l'accusa e dichiarò il M. colpevole del reato contestatogli e lo condannò, con la continuazione con il fatto di cui alla precedente sentenza, alla pena di mesi due di arresto, rideterminando la pena complessiva in mesi due di arresto ed Euro 250,00 di ammenda.
La corte d'appello di Milano, con la sentenza in epigrafe, confermò integralmente la sentenza di primo grado.
L'imputato, a mezzo degli avv.ti Luigi Stella e Fulvio Simoni, propone ricorso per cassazione deducendo:
1) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione alla applicazione dell'art. 659 c.p., comma 1, essendo nella specie semmai ravvisabile, tutt'al più, l'illecito amministrativo di cui alla L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2.
2) erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta inapplicabilità dell'art. 649 cod. proc. pen. e del principio del ne bis in idem.
Osserva che in realtà i giudici hanno addebitato all'imputato la prosecuzione della condotta criminosa dopo il 14.7.2011 solo perchè questi non aveva provato di averla cessata, con ciò incorrendo in una palese inversione dell'onere della prova ed una violazione del principio che, dopo la cessazione della permanenza, è onere dell'accusa provare - e del giudice verificare - la persistenza della condotta illecita. Inoltre, gli elementi indicati dalla sentenza impugnata si riferiscono tutti ad un periodo antecedente a quello ritenuto in sentenza ed al reato già oggetto del procedimento conclusosi con la sentenza passata in giudicato.
3) erronea applicazione della legge penale e mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione alla sanzione applicata e alla mancata concessione della sospensione condizionale della pena. Lamenta che erroneamente i giudici hanno ritenuto l'ipotesi di reato di cui all'art. 659 c.p., comma 1, applicando la pena dell'arresto, mentre l'ipotesi eventualmente ravvisabile sarebbe semmai quella di cui al comma 2, per la quale è prevista la sola pena dell'ammenda.
In data 26 maggio 2015 la difesa ha depositato motivi nuovi con cui deduce erronea applicazione dell'art. 659 c.p., comma 1, invece dell'illecito amministrativo di cui alla L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2, e, in via subordinata, chiede l'applicazione dell'art. 131 bis cod. pen. ed esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è fondato essendo effettivamente la sentenza impugnata affetta da diverse evidenti violazioni di norme e principi di diritto e da mancanza o manifesta illogicità della motivazione.
Innanzitutto, la sentenza impugnata sembra basarsi su un assunto inaccettabile, ossia su un principio secondo cui se un soggetto è stato dichiarato colpevole di avere tenuto una certa condotta illecita fino ad una certa data nella quale è cessata la permanenza del reato, dovrebbe presumersi provato che, solo per questo, quel soggetto abbia continuato a porre in essere la condotta illecita anche dopo la cessazione della permanenza, a meno che non sia egli stesso a fornire la prova di non avere più tenuto la condotta stessa, non occorrendo invece che sia l'accusa a fornire la prova che la condotta illecita sia effettivamente proseguita nel periodo di cui alla nuova contestazione.
Nel caso di specie, la corte d'appello ha in sostanza ritenuto che, avendo la sentenza del tribunale di Milano del 13 luglio 2011 passata in giudicato, accertato che il M. aveva tenuto una condotta di emissione di rumori molesti integrante il reato di cui all'art. 659 cod. pen. fino al 13 luglio 2011, per il periodo di tempo successivo, e precisamente per il periodo dal 14.7.2011 ed almeno al 30.1.2012, sarebbe spettato all'imputato "l'onere di dimostrare la cessazione, ovvero la riconduzione delle immissioni rumorose entro i limiti di tollerabilità". E, poichè l'imputato non aveva adempiuto tale onere non fornendo la prova "di non avere tenuto la condotta illecita", ha di conseguenza ritenuto che potesse presumersi provata la commissione di tale condotta anche successivamente al 14.7.2011.
E' del tutto evidente la violazione della presunzione costituzionale di non colpevolezza e del principio fondamentale che spetta all'accusa l'onere di dimostrare - e al giudice di verificare - la persistenza della condotta illecita.
Del resto, già in relazione al caso di un unico reato permanente contestato nella forma cd. "aperta" (nella quale cioè manchi l'indicazione del termine finale), la giurisprudenza ha sempre affermato che la regola per cui in tale ipotesi la permanenza si considera cessata con la pronuncia della sentenza di primo grado ha valore esclusivamente processuale e non sostanziale, nel senso che non ricade sull'imputato l'onere di dimostrare, a fronte di una presunzione contraria, la cessazione dell'illecito prima della data della condanna di primo grado. Ne consegue che, qualora dalla data di cessazione della permanenza debba farsi derivare, anche in sede esecutiva, un qualsiasi effetto giuridico, non è sufficiente il riferimento alla data della sentenza di primo grado, ma occorre verificare se il giudice di merito abbia o meno ritenuto, esplicitamente o implicitamente, provata la permanenza della condotta illecita oltre la data dell'accertamento ed, eventualmente, se tale permanenza risulti effettivamente accertata fino alla sentenza. E' pertanto onere dell'accusa dimostrare - e del giudice verificare - la persistenza della condotta illecita (Sez. 1, 24.10.2013, n. 45295, Formicola, Rv. 257725; Sez. 1, 12.7.2011, n. 33053, Caliendo, Rv. 250828; Sez. 1, 26.9.2007, n. 37335, Cannella, Rv. 237506; Sez. 5, 15.5.2007, n. 25578, Sinagra, Rv. 237707).
Tanto più, evidentemente, tale onere grava sull'accusa (e sul giudice) nel caso in esame, in cui si tratta addirittura di accertare la sussistenza di un nuovo e diverso reato che si assume dall'accusa posto in essere dopo la cessazione della permanenza della precedente condotta illecita.
Al di là di siffatta inammissibile presunzione di colpevolezza, la sentenza impugnata non indica alcun elemento di prova da cui si dovrebbe ricavare l'effettiva commissione, da parte dell'imputato, della condotta ritenuta illecita dopo la data del 13 luglio 2011. La sentenza impugnata afferma, genericamente, che tale prova sarebbe stata "correttamente" desunta dal giudice di primo grado "da plurime fonti qualificate". Ma, a parte che non si specifica quali sarebbero queste plurime fonti qualificate, nella frase immediatamente successiva la sentenza impugnata dice che la prova decisiva consisterebbe appunto nella sentenza emessa dal tribunale di Milano il 13 luglio 2011, la quale però ha ovviamente accertato - e non poteva che accertare - le condotte poste in essere tutt'al più fino alla data della sua emissione e certamente non anche le eventuali condotte future.
La sentenza di primo grado, del resto, aveva indicato come elementi di prova: - un sopralluogo del 27.4.2010 dell'Arpa nell'appartamento di Z.P. (che insieme al marito P.G. aveva iniziato una causa civile) posto al primo piano dello stabile; - l'invito del comune a M. a predisporre un piano di bonifica acustica; - un sopralluogo di un impiegato comunale a fine giugno 2010; - un divieto di utilizzo di impianti di diffusione sonora del comune a M. in data 8.6.2010, dopo poco revocato per l'estate 2010 a seguito del deposito il 31.5.2010 del piano di risanamento acustico; - la denuncia del condomino P. per immissioni rumorose presentata il 19 aprile 2011; - la deposizione del teste P. in data 9.6.2011 nel precedente processo; - la denuncia sporta da Z.P., moglie del P., il 25.12.2009; - un'ordinanza del Tar Lombardia del 29.4.2011 che imponeva la verificazione dell'impianto.
Come si vede si tratta di elementi tutti verificatesi tutt'al più fino al giugno 2011 e che (a prescindere dal loro oggettivo significato probatorio) non hanno alcun valore di prova nel presente procedimento che ha ad oggetto esclusivamente condotte illecite contestate come verificatesi a decorrere dal 14 luglio 2011. Da tali elementi, invero, non si può nemmeno in astratto ricavare la prova che l'imputato dopo tale data abbia effettivamente effettuato emissioni sonore non consentite e che tali emissioni sonore avessero le caratteristiche richieste dall'art. 659 cod. pen. per integrare il reato.
Gli unici elementi individuati dalla sentenza di primo grado, e richiamati da quella d'appello, successivi al 14 luglio 2011 sarebbero dati: a) da una ordinanza del Consiglio di Stato del 20 luglio 2011 di rigetto dell'appello da cui risulterebbe che a quella data non era stato ancora verificato il funzionamento dell'impianto (elemento dal quale, quindi, non si può desumere la commissione di alcuna condotta illecita dopo il 14 luglio 2011); b) da una ordinanza emanata il 30 gennaio 2012 nel procedimento civile ex art. 702 bis cod. proc. civ. instaurato da Z.P. e P.F., con la quale si disponeva una CTU per appurare se gli accorgimenti adottati erano stati idonei a ricondurre i rumori nei limiti di legge. Quest'ultimo elemento, in particolare, è l'unico sul quale si basa la corte d'appello di Milano per desumere la prova di una condotta illecita posta in essere dall'imputato dopo il 14 luglio 2011. Sennonchè, come esattamente osserva il ricorrente, tale ritenuto elemento di prova è in realtà costituito da "una mancanza di prova". E cioè dal fatto che nel corso del giudizio non erano stati acquisiti i risultati delle verifiche condotte - nel quadro dell'azione civile ex art. 702 cod. proc. civ. avviata dai denuncianti - circa l'idoneità degli accorgimenti adottati dall'imputato per ricondurre la immissioni rumorose entro i limiti previsti dalla legge.
La corte d'appello infatti afferma che, poichè "l'imputato nulla ha dimostrato nè dedotto in merito agli esiti di tali accertamenti", da ciò si dovrebbe dedurre (al di là di ogni ragionevole dubbio) la sua responsabilità per la condotta illecita contestata come posta in essere dopo il 14 luglio 2011.
E' evidente il totale capovolgimento dell'onere probatorio.
L'argomentazione - a parte la sua erroneità in una sentenza penale - è comunque anche manifestamente illogica. Il dato utilizzato dal giudice di primo grado per presumere la persistenza delle immissioni rumorose dopo il 14 luglio 2011, consiste nella suddetta circostanza che nel gennaio 2012 fosse stata disposta, nel giudizio civile, una CTU diretta a verificare l'idoneità degli accorgimenti adottati dall'imputato per limitare la rumorosità. Secondo la sentenza di primo grado, invero, "deve perciò ritenersi ... sulla base del persistente interesse ad agire dei condomini di via (OMISSIS) fino al gennaio 2012, che la condotta criminosa sia proseguita dopo la pronuncia della sentenza del 13.7.2011". Sennonchè, dalle stesse sentenze di merito emerge che tale accertamento era stato disposto dal giudice civile nell'ambito di una causa civile avviata dai denuncianti nel maggio del 2010 e riferita, dunque, alle immissioni sonore oggetto della sentenza del tribunale di Milano del 13 luglio 2011 e non a quelle oggetto del presente procedimento penale.
In ogni caso, è evidente che dal mancato chiarimento sui risultati di una CTU e dal persistere dell'interesse ad agire degli attori in un processo civile relativo a fatti anteriori, non può sicuramente dedursi la prova, ai fini penali, che l'imputato, dopo il 14 luglio 2011, abbia effettuato emissioni rumorose e tanto meno che tali emissioni abbiano superato i limiti consentiti, senza partire, appunto, da una inammissibile presunzione di colpevolezza penale e da un parimenti inammissibile stravolgimento dell'onere della prova nel processo penale.
In ogni caso, deve anche evidenziarsi che dalle sentenze di merito non si riesce a comprendere bene quale sia l'ipotesi di reato per la quale l'imputato è stato condannato. Con il capo di imputazione si richiamava, oltre all'art. 659 cod. pen., anche il D.P.C.M. 14 novembre 1997, e si contestava all'imputato di avere cagionato, mediante l'esercizio nel suo bar di attività di musica in tempo di notte proveniente dall'esecuzione di attività danzante all'interno del locale, emissioni rumorose superiori ai limiti consentiti dal D.C.M.P. 14 novembre 1997. Sostanzialmente, dunque, si contestava il superamento dei limiti indicati dal decreto presidenziale. La sentenza di primo grado, poi, ha indubbiamente basato l'affermazione di responsabilità soprattutto sulla circostanza che - secondo gli accertamenti eseguiti dall'ARPA nell'aprile del 2010 - l'attività del bar provocava (all'epoca) un rumore che superava il limite differenziale massimo stabilito dal D.P.C.M. 1 marzo 1991, art. 6 (5 db diurno e 3 db notturno) e comunque provocava nell'appartamento sito al primo piano dello stesso stabile in cui è ubicato il bar, il superamento dei limiti massimi assoluti di sera dopo le ore 20:00, arrivando con la musica fino a 68,5 dB con le finestre aperte ed a 46,5 dB con le finestre chiuse. La sentenza della corte d'appello di Milano si basa in sostanza sullo stesso fondamento, avendo affermato che la prova della responsabilità si desumerebbe, oltre ogni ragionevole dubbio, dal fatto che l'imputato non aveva dimostrato che "gli accorgimenti adottati fossero idonei a ricondurre le emissioni nei limiti di legge".
Se però così è, allora - al di là di quanto già osservato sulla palese inversione dell'onere della prova - l'ipotesi di reato accertata e ritenuta dai giudici del merito è indubitabilmente quella di cui all'art. 659 cod. pen., comma 2 il quale punisce con la sola ammenda "chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell'Autorità".
Nella specie, appunto, l'imputato avrebbe esercitato il mestiere rumoroso di esercizio di un bar - autorizzato all'uso, anche di notte, di apparecchi acustici per la diffusione di musica - contro le disposizione di legge e le prescrizioni del D.P.C.M. 1 marzo 1991, superando sia i limiti differenziali sia i limiti assoluti ivi indicati. Dalle sentenze di merito, infatti, non emerge alcuna prova che i rumori molesti provenienti dal bar avessero altra e diversa origine se non quella, evidenziata dalle sentenze stesse, di una ritenuta illegittima utilizzazione degli strumenti di diffusione sonora, ai quali il bar era autorizzato anche di notte, oltre i limiti (differenziali ed assoluti) previsti dagli atti autorizzativi e dal D.P.C.M. del 1991.
Va invero ribadito il principio che i rumori molesti provenienti da un bar integrano la fattispecie di cui all'art. 659, comma 2, quando provengano da attività strettamente connesse e necessarie all'esercizio del bar stesso. In particolare, pertanto, l'attività di un bar regolarmente autorizzato dall'autorità amministrativa a rimanere aperto fino a tarda notte ed all'uso di strumenti musicali e di diffusione sonora, deve essere classificata come esercizio di un "mestiere rumoroso", proprio perchè in tal caso l'utilizzazione degli strumenti musicali e di diffusione acustica deve considerarsi strettamente connesso ed indispensabile all'esercizio dell'attività autorizzata (cfr. Sez. 1, 26.2.2008, n. 11310, Fresina, Rv. 239165).
Deve ricordarsi, infatti, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l'art. 659 cod. pen. prevede due autonome fattispecie di reato configurate rispettivamente dai commi 1 e 2. L'elemento che le differenzia è rappresentato dalla fonte del rumore prodotto, giacchè ove esso provenga dall'esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi la condotta rientra nella previsione del secondo comma del citato articolo per il semplice fatto della esorbitanza rispetto alle disposizioni di legge o alle prescrizioni dell'autorità, presumendosi la turbativa della pubblica tranquillità. Qualora, invece, le vibrazioni sonore non siano causate dall'esercizio della attività lavorativa, ricorre l'ipotesi di cui all'art. 659 cod. pen., comma 1 per la quale occorre che i rumori superino la normale tollerabilità ed investano un numero indeterminato di persone, disturbando le loro occupazioni o il riposo (Sez. 1, 17.12.1998, n. 4820/99, Mannelli, m. 213.395, in un caso di emissioni rumorose provocate non dall'attività di una discoteca, bensì dall'impianto di condizionamento); "L'art. 659 cod. pen. prevede due distinte ipotesi di reato: quello contenuto nel primo comma ha ad oggetto il disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone e richiede l'accertamento in concreto dell'avvenuto disturbo; mentre quello previsto nel secondo comma riguardante l'esercizio di professione o mestiere rumoroso, prescinde dalla verificazione del disturbo, essendo tale evento presunto "iuris et de iure" ogni volta che l'esercizio del mestiere rumoroso si verifichi fuori dai limiti di tempo, di spazio e di modo imposti dalla legge, dai regolamenti o da altri provvedimenti adottati dalle competenti autorità" (Sez. 1, 12.6.2012, n. 39852, Minetti, m. 253475).
Ciò rilevato, deve però anche ricordarsi che la giurisprudenza più recente ha peraltro precisato che "L'inquinamento acustico conseguente all'esercizio di mestieri rumorosi, che si concretizza nel mero superamento dei limiti massimi o differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali in materia, integra l'illecito amministrativo di cui alla L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2, (legge quadro sull'inquinamento acustico) e non la contravvenzione di disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone (art. 659 c.p., comma 2)" (Sez. 1, 13.11.2012, n. 48309, Carrozzo, Rv. 254088); e che "In tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, la condotta costituita dal superamento dei limiti di accettabilità di emissioni sonore derivanti dall'esercizio di professioni o mestieri rumorosi non configura l'ipotesi di reato di cui all'art. 659 c.p., comma 2, ma l'illecito amministrativo di cui alla L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2, (legge quadro sull'inquinamento acustico), in applicazione del principio di specialità contenuto nella L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9" (Sez. 3, 31.1.2014, n. 13015, Vazzana. Rv. 258702).
In conclusione, deve confermarsi il principio più recentemente affermato (cfr. Sez. 3, 18.9.2014, n. 42026, Claudino, Rv. 260658; Sez. 3, 21.1.2015, n. 5735, Giuffrè, Rv. 261885), precisandolo nel senso che in tema di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, l'esercizio di una attività o di un mestiere rumoroso, integra: A) l'illecito amministrativo di cui alla L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2, qualora si verifichi il superamento dei limiti, massimi o differenziali, di emissione del rumore fissati dalle leggi e dai provvedimenti amministrativi; B) il reato di cui all'art. 659 cod. pen., comma 1 qualora i rumori idonei a turbare la quiete pubblica provengano da condotte che eccedano le normali attività di esercizio, ossia non siano strettamente connessi o necessari all'esercizio dell'attività autorizzata; C) il reato di cui all'art. 659 cod. pen., comma 2 qualora siano violate specifiche disposizioni di legge o prescrizioni della Autorità che regolano l'esercizio del mestiere o della attività, diverse da quella relativa ai valori limite di emissione sonora stabiliti in applicazione dei criteri di cui alla L. n. 447 del 1995 (cfr. Sez. 3, 18.9.2014, n. 42026, Claudino, Rv. 260658; Sez. 3, 21.1.2015, n. 5735, Giuffrè, Rv. 261885).
Più in particolare, va affermato il principio che l'attività di un bar regolarmente autorizzato dall'autorità amministrativa a rimanere aperto fino a tarda notte ed all'uso di strumenti musicali e di diffusione sonora, va classificata come esercizio di un "mestiere rumoroso", in quanto l'uso di tali strumenti è strettamente connesso e necessario all'esercizio dell'attività autorizzata, con la conseguenza che il superamento, mediante gli strumenti stessi, dei limiti massimi o differenziali di emissione del rumore integra l'illecito amministrativo di cui alla L. 26 ottobre 1995, n. 447, art. 10, comma 2.
Qualora invece, nel caso in esame, il giudice del merito avesse ritenuto che i rumori provenissero non dagli strumenti musicali o di diffusione sonora o comunque da altre condotte non necessarie e strettamente connesse all'esercizio dell'attività autorizzata e che, di conseguenza, fossero idonei ad integrare il reato di cui all'art. 659 cod. pen., comma 1 va rilevato che nella sentenza impugnata non si rinviene alcuna motivazione (congrua ed adeguata) non solo su quale sarebbe la fonte diversa ed ulteriore di tali rumori, ma nemmeno sugli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 659 c.p., comma 1.
Secondo la giurisprudenza, invero, per integrare il reato di cui all'art. 659, comma 1, è necessario che il fastidio non sia limitato agli appartamenti attigui alla sorgente rumorosa (Sez. 3, 13.5.2014, n. 23529, Ioniez, Rv. 259194), o agli abitanti dell'appartamento sovrastante o sottostante alla fonte di propagazione (Sez. 1, 14.10.2013, n. 45616, Virgillito, Rv. 257345), occorrendo invece la prova che la propagazione delle onde sonore sia estesa quanto meno ad una consistente parte degli occupanti l'edificio, in modo da avere una diffusa attitudine offensiva ed una idoneità a turbare la pubblica quiete. Difatti, "la rilevanza penale della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l'incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l'interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete, sicchè i rumori devono avere una tale diffusività che l'evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare" (ex plurimis, Sez. 1, 29.11.2011, n. 47298, lori, Rv. 251406; Sez. 3, 27.1.2015, n. 7912, Contino).
La sentenza impugnata, invece, si è limitata soltanto a ritenere accertato il superamento dei limiti di immissione, peraltro in modo assolutamente incongruo perchè l'accertamento al quale si riferisce riguardava il diverso reato giudicato con la sentenza emessa il 13 luglio 2011 e la cui permanenza era cessata in tale data. Dalla sentenza impugnata, invece, non risultano accertamenti di superamento dei limiti in riferimento alle emissioni sonore posteriori a detta data ed oggetto del presente giudizio. La sentenza impugnata, inoltre, si limita ad affermare che "non può dubitarsi della idoneità delle immissioni, per l'entità e le caratteristiche accertate, a disturbare un numero indeterminato di persone". Si tratta però di una affermazione meramente apodittica e congetturale sia perchè le caratteristiche accertate riguardavano immissioni diverse da quelle oggetto del presente procedimento e sia comunque perchè non viene spiegato sulla base di quali concreti elementi si è ritenuto provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che i rumori avessero una tale diffusività che l'evento di disturbo fosse potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone.
Al contrario, dalle sentenze di merito sembrerebbe emergere solo la prova che i rumori abbiano recato disturbo unicamente agli abitanti dell'appartamento immediatamente sovrastante il bar, ossia che si fosse in presenza di una fattispecie avente carattere civilistico e non anche penale. Dalla sentenza impugnata invero non risulta alcuna prova che altri soggetti si siano lamentati o che i rumori (successivi al 14 luglio 2011) siano stati percepiti anche da abitanti in appartamenti diversi da quello immediatamente sovrastante, ed anzi nemmeno risulta che costoro siano stati sentiti.
La sentenza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Milano, che si atterrà ai principi di diritto dianzi indicati. Gli altri motivi restano assorbiti.
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Milano.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 11 giugno 2015.