Cass. Sez. III n. 32684 del 19 agosto 2024 (UP 18 lug 2024)
Pres. Liberati Rel. Noviello Ric. Olivieri
Rumore.Reato di cui all'art. 659 cp
Elemento che differenzia tra loro le due autonome fattispecie configurate dall'art. 659 cod. pen. è rappresentato dalla fonte del rumore prodotto: ove esso provenga dall'esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi, la condotta rientra nella previsione del secondo comma (attualmente terzo ai sensi di recente novella ex D. Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150 (c.d. "Riforma Cartabia") del citato articolo per il semplice fatto della esorbitanza rispetto alle disposizioni di legge o alle prescrizioni dell'autorità̀, presumendosi la turbativa della pubblica tranquillità̀; qualora, invece, le vibrazioni sonore non siano causate dall'esercizio dell'attività lavorativa, ricorre l'ipotesi di cui all'art. 659 cod. pen., primo comma, per la quale occorre che i rumori superino la normale tollerabilità e investano un numero indeterminato di persone, disturbando le loro occupazioni o il loro riposo
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza del 12 dicembre 2023, il tribunale di Palermo condannava Oliveri Riccardo in ordine al reato di cui all’art. 659 c.p. In particolare condannava Oliveri Riccardo alla pena ritenuta di giustizia di Euro 300,00 di ammenda in relazione alla contravvenzione ascrittagli a norma dell’art. 659 cod. pen., commi 1 e 2, per aver egli – nella qualità di gestore del locale notturno “Villa Ottaviana” – con condotta perdurante dall’anno 2015 sino all’anno 2019, disturbato le occupazioni ed il riposo delle persone residenti nei pressi del suddetto esercizio commerciale sito in Palermo. Condannava, inoltre, l’odierno ricorrente al risarcimento dei danni (liquidati in via equitativa in Euro 6.000,00, in favore di ciascuna costituita parte civile) nonché al rimborso delle spese processuali.
2. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso Oliveri Riccardo mediante il suo difensore, proponendo cinque motivi di impugnazione.
3. Deduce con il primo la violazione dell’art. 659 comma 3 c.p. in relazione all’art. 10 L. n. 447/1995 e il vizio di motivazione. Alla luce della sola ammenda comminata il ricorrente sarebbe stato condannato ai sensi dell’art. 659 comma 3 c.p. quale reato di pericolo riferito solo a chi esercita una professione o un mestiere rumoroso, con correlati criteri di applicabilità della fattispecie rispetto a quelli previsti dal primo comma dello stesso articolo, riferibile alla condotta commessa da chiunque. Consegue che sarebbe insufficiente l’avvenuta valorizzazione in sentenza di rumori che avrebbero superato la normale tollerabilità, in assenza invece della verifica della violazione – di cui al comma 3 – di disposizioni di legge o prescrizioni dell’Autorità.
4. Con il secondo motivo deduce la nullità della sentenza ex art. 546 lett. d) cod. proc. pen. per la mancata completa indicazione delle conclusioni presentate dalla difesa, non riducibili come invece avvenuto, alla sola richiesta di assoluzione ma comprensive della non punibilità, in via subordinata, per la speciale lievità del fatto, del minimo della pena, dei benefici di legge e delle attenuanti generiche.
5. Con il terzo motivo deduce la mancanza di motivazione e la violazione dell’art. 131 bis c.p. non avendo il tribunale risposto alla richiesta di non punibilità, in via subordinata, per la speciale lievità del fatto.
6. Con il quarto motivo deduce la mancanza di motivazione in ordine alla richiesta delle attenuanti generiche – nonostante plurimi indici a ciò favorevoli citati in ricorso - e della sospensione condizionale della pena pur applicabile secondo il ricorrente, per la sussistenza di elementi favorevoli per la prognosi negativa di recidiva.
7. Con l’ultimo motivo deduce vizi di violazione dell’art. 538 cod. proc. pen. e 1226 cod. civ. nonché di manifesta illogicità e contraddittorietà. Sarebbe arbitraria e sproporzionata la determinazione del danno da risarcire in favore delle parti civili in assenza di ogni documentazione utile, di tipo sanitario, come anche di accertamenti tecnici. La determinazione sarebbe altresì contraddittoria e illogica a fronte di positivi comportamenti collaborativi del ricorrente e di una pena prossima al minimo edittale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo è inammissibile, in ragione innanzitutto dal riferimento all’art. 659 comma 3 cod. pen., posto che in sentenza si esclude la avvenuta definizione di qualsivoglia procedimento autorizzatorio correlabile a limiti e prescrizioni di cui al comma 3 citato, oltre al fatto che la gestione di un locale notturno non può ritenersi rientrare nei mestieri rumorosi ivi contemplati. Conseguentemente, coerente è la avvenuta condanna, esplicitata in motivazione, ai sensi dell’art. 659 commi 1 e 2 c.p. In tale quadro la decisione, fondata sulla adeguata valorizzazione di plurimi elementi convergenti nella medesima direzione accusatoria, e sulla evidenziazione non solo di rumori acustici di vario tipo e non collegabili intrinsecamente ad un locale notturno quale quello dell’imputato ( a partire da fuochi pirotecnici) ma anche di schiamazzi dei clienti del locale, è in linea con il principi sanciti da questa Corte, secondo cui : 1) elemento che differenzia tra loro le due autonome fattispecie configurate dall'art. 659 cod. pen. è rappresentato dalla fonte del rumore prodotto: ove esso provenga dall'esercizio di una professione o di un mestiere rumorosi, la condotta rientra nella previsione del secondo comma (attualmente terzo ai sensi di recente novella ex D. Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150 (c.d. "Riforma Cartabia") del citato articolo per il semplice fatto della esorbitanza rispetto alle disposizioni di legge o alle prescrizioni dell'autorità̀, presumendosi la turbativa della pubblica tranquillità̀; qualora, invece, le vibrazioni sonore non siano causate dall'esercizio dell'attività lavorativa, ricorre l'ipotesi di cui all'art. 659 cod. pen., primo comma, per la quale occorre che i rumori superino la normale tollerabilità e investano un numero indeterminato di persone, disturbando le loro occupazioni o il loro riposo (ex plurimis, Sez. 3 - , n. 24397 del 20/01/2022 Rv. 283239 – 01; Sez. 3, n. 12967 del 17/12/2014, dep. 2015; Sez. 3, n. 37196 del 03/07/2014); 2) perché́ sussista la rilevanza penale ex art. 659 c.p., della condotta produttiva di rumori, censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, è richiesta l'incidenza sulla tranquillità̀ pubblica, in quanto l'interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete, sicché i rumori debbono avere una tale diffusività̀ che l'evento disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, pur se poi concretamente solo taluna se ne possa lamentare (ex plurimis, Sez. 1, n. 47298 del 29/11/2011); 3) risponde del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone (art. 659, primo comma, cod. pen.) il gestore di un pubblico esercizio che non impedisca i continui schiamazzi provocati dagli avventori in sosta davanti al locale anche nelle ore notturne, essendogli imposto l'obbligo giuridico di controllare, anche con ricorso allo ius excludendi o all'Autorità̀, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell'ordine e della tranquillità̀ pubblica (ex plurimis, Sez. 2, n. 28848 del 08/05/2013, Rv. 256463; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, Rv. 217266).
Per completezza occorre ribadire che la giurisprudenza prevalente di questa Corte ammette comunque la possibile coesistenza del reato p. e p. dall'art. 659, commi 1 e 2, cod. pen. con la violazione amministrativa prevista dall’art. 10 della Legge 26 ottobre 1995, n. 447 (“Legge Quadro sull'inquinamento acustico”) per violazione dei limiti fissati dalla legge speciale per l'esercizio di attività rumorose, stante la diversa finalità perseguita (per un’ampia disamina, v. Cass. sez. III n. 1075 del 17.01.2007; Cass. sez. 1I, n. 32468 del 2004; Cass. sez. I, n. 43202 del 2002; Cass. sez. I, n. 3123 del 26.4.2000; in senso contrario, ex multis, cfr. Cass. sez. III, n. 10715 del 20.01.2015).
Così, la norma codicistica mira a sanzionare gli effetti negativi della rumorosità in funzione della tutela della tranquillità pubblica; diversamente, la legislazione speciale – essendo diretta unicamente a stabilire i limiti di intensità delle sorgenti sonore provenienti fisiologicamente da attività rumorose, oltre i quali deve ritenersi sussistente l'inquinamento acustico – prende in considerazione soltanto il dato oggettivo del superamento di una certa soglia di rumorosità, rimanendo impregiudicato, in caso di superamento di tali limiti, l'accertamento se, nel caso concreto, sia stato arrecato o meno anche un effettivo disturbo alle occupazioni e al riposo delle persone.
Il legislatore ha inteso, invero, da un lato regolare in maniera rigida e rigorosa l'esercizio di alcune professioni, ancorché suscettibili di disturbare in certa misura la tranquillità pubblica, in vista di interessi superiori come quelli stabiliti dall'economia nazionale, entro limiti strettamente necessari a garantire tali interessi; e, dall'altro, mantenere intatta la punibilità in sede penale di condotte che non rispettino tali limiti, considerati ex lege invalicabili ai fini della salvaguardia del diritto al riposo e alla tranquillità della comunità sociale. Per cui, una volta accertato il superamento di tali limiti, è possibile procedere alla verifica in ordine alla eventuale contestuale sussistenza, in presenza dei presupposti previsti dalla legge, della condotta integrante la ipotesi di cui all'art. 659 c.p., commi 1 e 2 (v. Cass. sez. I, n. 319 del 2000; Cass. sez. I, n. 382 del 1999; Cass. n. 23072 del 2005).
8. Il secondo motivo deve essere esaminato assieme a quello inerente la omessa decisone sulla lieve entità del fatto ex art. 131 bis c.p. Si tratta di questione che assume priorità logico-giuridica rispetto agli altri motivi, incidendo, invero, sulla applicabilità o meno di decisioni di condanna da parte del tribunale. Premesso che la mancata illustrazione in sentenza di tutte le conclusioni avanzate dalle parti non è sanzionata come ipotesi di nullità, notoriamente connotata dal carattere della tipicità, va rilevato che effettivamente non vi è stata esplicita risposta sul punto in questione, pur proposto, peraltro comunque in maniera generica e dunque inammissibile in sé.. Tuttavia, va premesso che ai fini del controllo critico sulla sussistenza di un valido percorso giustificativo, ogni punto argomentativo non può essere autonomamente considerato, dovendo essere posto in relazione agli altri, con la conseguenza che la ragione di una determinata statuizione può anche risultare da altri punti della sentenza (ovvero, quindi, del provvedimento in concreto impugnato) ai quali sia stato fatto richiamo, sia pure implicito (v. Sez. 4, n. 4491 del 17/10/2012 (dep. 2013), Pg in proc. Spezzacatena e altri, Rv. 255096, conf. Sez. 5, n. 8411 del 21/5/1992, Chirico ed altri, Rv. 191487). E allora deve rilevarsi che dall’esame complessivo della sentenza è dato rinvenire una obiettiva esclusione della fattispecie in questione, laddove il giudice ha illustrato le plurime fonti di accusa ed evidenziato un vero e proprio stato di esasperazione provocato nelle persone offese “dalla reiterazione di comportamenti della stessa indole….tanto da ricorrere più volte all’intervento delle autorità competenti…” così da rilevarsi invero un fatto grave – quale circostanza che di per sé esclude la speciale tenuità - tanto che la stessa ammenda è stata comminata nel limite massimo.
9. Il quarto motivo è manifestamente infondato. Sebbene risulti dal verbale di udienza del 28.11.2023, pp. 13 e 14 che il ricorrente in via subordinata chiese altresì il minimo della pena e l’applicazione dei benefici di legge come tali comprensivi della sospensione condizionale della pena e delle attenuanti generiche, emerge nel contempo la assoluta genericità delle richieste stesse, siccome in alcun modo illustrate nel loro fondamento, a partire da quelle inerenti le attenuanti generiche e il beneficio della pena sospesa, posto che la pena appare comunque adeguatamente motivata alla luce della complessiva sentenza. Per cui trova applicazione il principio secondo il quale nel caso di mancato riconoscimento della riduzione correlata alla citate attenuanti, l'obbligo di motivazione non sussiste, in assenza di richiesta da parte dell'interessato o nell'ipotesi di richiesta generica. (cfr. sez. 3, n. 35570 del 30/05/2017 Rv. 270694 – 01). Egualmente deve dirsi per la sospensione condizionale.
10. Con riferimento all’ultimo motivo, esso è manifestamente infondato. Il danno morale, per cui è intervenuta condanna, non essendo di natura economica ma consistendo in un turbamento psichico, non è suscettivo di una valutazione meramente aritmetica talché la sua commisurazione in denaro necessariamente deve sopportare un apprezzamento soggettivo (cfr. seppure in tema di diffamazione, Sez. 5, n. 2113 del 29/01/1997 Rv. 207007 – 01). Tanto precisato deve altresì aggiungersi che in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, la valutazione del giudice, affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, è censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio della motivazione solo se essa difetti totalmente di giustificazione o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria (Sez. 5 - n. 7993 del 09/12/2020 Ud. (dep. 01/03/2021 ) Rv. 280495 – 02). Tale non è il caso di specie, connotato da una precisa motivazione quanto al nesso di causalità e alle ragioni della avvenuta rilevazione del danno, quali le fonti acquisite, la rilevanza dell’interesse protetto, la validità del ricorso all’id quod plerumque accidit, individuato nell’insorgere di una sofferenza morale a fronte di accertati e persistenti molestie acustiche. Nessuna contraddizione consegue ai comportamenti collaborativi – invero asseriti e non documentati dinnanzi a questa Corte - dell’imputato, al più generativi di una interruzione della sofferenza morale ma non certo di una eliminazione, né alla pena comminata che, pur di rango pecuniario, non è stabilita nei minimi e comunque non può ritenersi diretto contraltare, penale, del danno morale inferto.
11. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende
Così deciso in Roma, il 18 luglio 2024