Cass. Sez. III n. 24277 del 19 giugno 2024 (UP 15 mag 2024)
Pres. Ramacci Est. Mengoni Ric. Stagno
Urbanistica.Attività edilizia libera e disciplina regionale
Quella del t.u. edilizia è normativa espressiva dei princìpi fondamentali in materia di «governo del territorio» e, quindi, l’’attività demandata alla Regione si inserisce pur sempre nell’ambito derogatorio definito dall’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, attraverso la enucleazione di interventi tipici da sottrarre a permesso di costruire e SCIA (segnalazione certificata di inizio attività). Non è perciò pensabile che il legislatore statale abbia reso cedevole l’intera disciplina dei titoli edilizi, spogliandosi del compito, proprio del legislatore dei princìpi fondamentali della materia, di determinare quali trasformazioni del territorio siano così significative, da soggiacere comunque a permesso di costruire. Lo spazio attribuito alla legge regionale si deve quindi sviluppare secondo scelte coerenti con le ragioni giustificatrici che sorreggono, secondo le previsioni dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, le specifiche ipotesi di sottrazione al titolo abilitativo. Ne consegue che il limite assegnato al legislatore regionale dall’art. 6, comma 6, lettera a), del d.P.R. n. 380 del 2001 sta, dunque, nella possibilità di estendere i casi di attività edilizia libera ad ipotesi non integralmente nuove, ma “ulteriori”, ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli interventi di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 6.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 5/7/2023, la Corte di appello di Palermo confermava la pronuncia emessa il 20/7/2022 dal Tribunale di Agrigento, con la quale Rosario Stagno era stato giudicato colpevole di violazioni di cui al d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, ed al d. lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, e condannato alla pena di tre mesi di arresto e 14mila euro di ammenda.
2. Propone ricorso per cassazione lo Stagno, deducendo i seguenti motivi:
- violazione degli artt. 507 e 603 cod. proc. pen. La Corte di appello avrebbe erroneamente rigettato la richiesta di rinnovazione istruttoria mediante l'ammissione della testimonianza del dirigente dell'ufficio tecnico del Comune di Agrigento; questa deposizione, infatti, sarebbe risultata decisiva, in quanto avrebbe consentito di accertare se a carico del ricorrente fossero stati adottati provvedimenti amministrativi quali l'ordine di demolizione. Ebbene, un eventuale esito negativo avrebbe prodotto evidenti effetti sull'esistenza stessa dell'abuso contestato, conducendo alla conclusione che per l'amministrazione comunale - non per il solo vigile urbano intervenuto - l'opera realizzata (una recinzione in aperta campagna) non avrebbe richiesto il previo rilascio del permesso di costruire;
- violazione degli artt. 37 e 44, d.P.R. n. 380 del 2011, 3, l.r. Sicilia 10/8/2016, n. 16. Ribadito il carattere modesto dell'intervento, si evidenzia che ai sensi della legge regionale citata lo stesso rientrerebbe nel novero dell'attività di edilizia libera o, a tutto concedere, richiederebbe una mera SCIA. La recinzione in oggetto, peraltro, costituirebbe la ricostruzione di una preesistente opera, protezione di una casa di campagna, e sarebbe da qualificare come pertinenza dell'immobile. Le differenti conclusioni raggiunte dalla Corte di appello sarebbero, pertanto, illegittime, ed i Giudici si sarebbero sostituiti al legislatore regionale (autore di lex specialis per identificare le attività edilizie e gli strumenti concessori a queste necessarie), individuando quali interventi edili possano essere compiuti sul territorio siciliano in modo libero o con semplice SCIA;
- mancanza o insufficienza della motivazione con riguardo alla parte della sentenza con cui il beneficio della sospensione condizionale della pena è stato subordinato alla demolizione delle opere abusive, i cui argomenti sarebbero viziati.
Gli stessi motivi sono stati ribaditi con memoria del 15/4/2024.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso risulta manifestamente infondato.
4. Con riguardo al primo motivo, che lamenta la mancata rinnovazione istruttoria in sede di appello, occorre evidenziare che, per consolidato indirizzo, la completezza e la piena affidabilità logica dei risultati del ragionamento probatorio seguito dalla Corte territoriale giustificano la decisione contraria alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale sul rilievo che, nel giudizio di appello, essa costituisce un istituto eccezionale fondato sulla presunzione che l'indagine istruttoria sia stata esauriente con le acquisizioni del dibattimento di primo grado, sicché il potere del Giudice di disporre la rinnovazione è subordinato alla rigorosa condizione che egli ritenga, contro la predetta presunzione, di non essere in grado di decidere allo stato degli atti (per tutte, Sez. U, n. 2780 del 24 gennaio 1996, Panigoni, Rv. 203974; successivamente, tra le altre, Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, Ricci, Rv. 266820). Del pari, questa Corte ha più volte affermato che in tema di ricorso per cassazione, può essere censurata la mancata rinnovazione in appello dell'istruttoria dibattimentale qualora si dimostri l'esistenza, nell'apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, che sarebbero state presumibilmente evitate se si fosse provveduto all'assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello (tra le altre, Sez. 5, n. 32379 del 12/4/2018, Impellizzeri, Rv. 273577; Sez. 2, n. 48630 del 15/9/2015, Pircher, Rv. 265323). Deve ritenersi "decisiva", pertanto, secondo la previsione dell'art. 606, comma 1, lett. d) cod. proc. pen., la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (Sez. 3, n. 9878 del 21/1/2020, R., Rv. 278670).
4.1. Tanto premesso in termini generali, il Collegio osserva che quella invocata dall'appellante (testimonianza del dirigente dell'ufficio tecnico comunale) non possiede affatto tali caratteri, per come la stessa prova viene indicata nel ricorso: lungi dall’individuare un apporto istruttorio decisivo, infatti, il rilievo della testimonianza viene ancorato ad elementi del tutto ipotetici, quali ”apprendere notizie certe sulla adozione (o meno) da parte del Comune di Agrigento di eventuali provvedimenti a carico del ricorrente, diretti a sanzionare l'abuso”.
4.2. Con la richiesta istruttoria, pertanto, non si chiedeva l'acquisizione di un dato certo, idoneo a scardinare l'impianto motivazionale della condanna, ma si prospettava un dato meramente ipotetico ed eventuale, tale, pertanto, da non poter essere qualificato come prova decisiva.
4.3. A ciò si aggiunga, infine, che la Corte di appello, richiamati i principi che precedono, ha poi correttamente affermato - con argomento non censurabile - che l'eventuale, mancata adozione di un ordine di demolizione non inciderebbe comunque sull'esistenza del reato, accertato nelle sentenze di merito con motivazione più che solida ed ampia.
5. Inammissibile, di seguito, è anche il secondo motivo di ricorso, in punto di responsabilità.
5.1. La censura, in primo luogo, si sviluppa lungo una linea di merito evidentemente non consentita in questa sede, con la quale viene descritta l'opera in questione e se ne offre una definizione (intervento di ricostruzione di una precedente recinzione; protezione di una casa di campagna; mera pertinenza). Neppure una considerazione, peraltro, è sviluppata con riguardo ai passi della sentenza che hanno trattato le medesime questioni, riscontrando che l'intervento doveva essere qualificato come nuova costruzione e che non era stata offerta alcuna prova quanto all'esistenza di una precedente struttura (non riscontrata neppure da Google Earth, 2 anni circa prima dell'accertamento); quand'anche, poi, questa circostanza fosse stata provata, l'assenza di qualunque indicazione circa le caratteristiche (e, prima ancora, la regolarità) di tale previa recinzione avrebbe comunque impedito - come ben affermato nella sentenza - di qualificare l'opera in oggetto come mera ricostruzione. Analogamente, la Corte di appello ha escluso che il manufatto possa essere qualificato come pertinenza, sviluppando un argomento adeguato e con il quale, ancora, il ricorso non si confronta affatto.
5.2. La sentenza, di seguito, ha anche escluso che l'opera possa essere realizzata a titolo di edilizia libera, o al più tramite SCIA, ai sensi della legge Regione Sicilia n. 16 del 2016; in particolare, e senza alcuna sostituzione al legislatore regionale, la Corte di appello (come già il primo Giudice) ha sottolineato che la normativa locale non può avere alcuna attitudine scriminante rispetto alla legislazione penale nazionale, attesa l’unitarietà del sistema penale.
5.3. Il principio, qui da ribadire, ha trovato conferma in una recente sentenza della Corte costituzionale (n. 90 del 2023), peraltro con oggetto proprio la legge regionale n. 16/2016 qui in esame. Nell’occasione, il Giudice delle leggi ha affermato che il testo unico dell’edilizia – dopo aver offerto all’art. 3 le definizioni degli interventi edilizi – all’art. 6 propone un elenco di quelli che possono essere eseguiti senza alcun titolo abilitativo; all’art. 10 indica quali interventi sono subordinati al permesso di costruire; all’art. 22 stabilisce quali interventi sono assoggettati alla SCIA; all’art. 23 individua gli interventi che, in alternativa al permesso di costruire, possono essere realizzati mediante SCIA; all’art. 6-bis, infine, dispone che «gli interventi non riconducibili all’elenco di cui agli articoli 6, 10 e 22» sono realizzabili previa CILA.
5.4. Al contempo, l’art. 6, comma 6, prevede che le regioni a statuto ordinario possono estendere la disciplina concernente l’esecuzione di interventi senza alcun titolo abilitativo a «interventi edilizi ulteriori», salvo che non rientrino nelle ipotesi di cui all’art. 10 o all’art. 23. L’art. 6-bis, comma 4, similmente dispone che la disciplina concernente gli interventi edilizi realizzabili previa CILA può essere estesa dalle regioni a statuto ordinario a «interventi edilizi ulteriori».
5.5. Ebbene, la Corte costituzionale ha da tempo rilevato che quella del t.u. edilizia è normativa espressiva dei princìpi fondamentali in materia di «governo del territorio» e che, quindi, «[l’]’attività demandata alla Regione si inserisce pur sempre nell’ambito derogatorio definito dall’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, attraverso la enucleazione di interventi tipici da sottrarre a permesso di costruire e SCIA (segnalazione certificata di inizio attività). Non è perciò pensabile che il legislatore statale abbia reso cedevole l’intera disciplina dei titoli edilizi, spogliandosi del compito, proprio del legislatore dei princìpi fondamentali della materia, di determinare quali trasformazioni del territorio siano così significative, da soggiacere comunque a permesso di costruire. Lo spazio attribuito alla legge regionale si deve quindi sviluppare secondo scelte coerenti con le ragioni giustificatrici che sorreggono, secondo le previsioni dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, le specifiche ipotesi di sottrazione al titolo abilitativo» (sentenza n. 139 del 2013). Ne consegue che «[i]l limite assegnato al legislatore regionale dall’art. 6, comma 6, lettera a), del d.P.R. n. 380 del 2001 sta, dunque, nella possibilità di estendere “i casi di attività edilizia libera ad ipotesi non integralmente nuove, ma “ulteriori”, ovvero coerenti e logicamente assimilabili agli interventi di cui ai commi 1 e 2 del medesimo art. 6” (ancora sentenza n. 139 del 2013)» (sentenza n. 282 del 2016).
5.6. L’art. 14, lettere f) e n), dello statuto speciale, d’altra parte, affida alla Regione Siciliana la potestà legislativa esclusiva nelle materie dell’urbanistica e della tutela del paesaggio: essa, tuttavia, «deve essere esercitata “senza pregiudizio” delle riforme economico-sociali, che assurgono, dunque, a limite “esterno” della potestà legislativa primaria» (così, da ultimo, sentenza n. 252 del 2022). Ebbene, la Corte costituzionale ha già riconosciuto che le norme del testo unico dell’edilizia concernenti i titoli abilitativi sono norme fondamentali di riforma economico-sociale, in quanto di queste condividono «le caratteristiche salienti» che vanno individuate «nel contenuto riformatore e nell’attinenza a settori o beni della vita economico-sociale di rilevante importanza» (sentenza n. 24 del 2022). Esse, d’altro canto, «rispond[o]no complessivamente ad un interesse unitario ed esig[o]no, pertanto, un’attuazione su tutto il territorio nazionale» (sentenza n. 198 del 2018).
5.7. Anche il secondo motivo di ricorso, pertanto, è manifestamente infondato.
6. Alle stesse conclusioni, infine, il Collegio giunge quanto alla terza doglianza, che contesta il vizio di motivazione circa la confermata subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione degli abusi; questo vizio, infatti, non si riscontra.
6.1. La Corte di appello, sul punto, ha sottolineato che l'illecito si inseriva in un contesto di generalizzato abusivismo, dato che in sede dibattimentale era emerso che anche il corpo principale dell'abitazione era sprovvisto di titolo; ancora, la sentenza ha evidenziato che la permanenza dell'opera continuava a deturpare l'assetto del territorio, essendo insistente all'interno di una zona sottoposta a vincolo ambientale (in particolare, vincolo archeologico, come zona di inedificabilità assoluta). Ne risulta, dunque, un più che adeguato apparato motivazionale, che non merita censura.
7. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 15 maggio 2024