Cass. Sez. III n. 40111 del 11 ottobre 2012 (Ud. 10 mag. 2012)
Pres. Mannino Est. Rosi Ric. Iodice ed altri
Urbanistica. Cessione di cubatura
In tema di cessione di cubatura, la efficacia della volontà del proprietario "cedente" costituisce, all'interno del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire, presupposto di tale provvedimento, così che il trasferimento di volumetria si realizza soltanto con il rilascio finale del titolo edilizio. Peraltro, soltanto per effetto dei rilascio del provvedimento amministrativo si costituisce il ''vincolo di asservimento" che, senza oneri di forma pubblica o di trascrizione, incide definitivamente sulla disciplina urbanistica ed edilizia delle aree interessate, in quanto nel territorio comunale il titolo abilitativo edilizio crea un nuovo lotto di pertinenza urbanistica dell'edificio, che non coincide con i confini di proprietà ed ha una consistenza indipendente rispetto ai successivi interventi nelle aree medesime, derivandone l'impossibilità di assentire e di richiedere ulteriori ed eccedenti realizzazioni di volumi costruttivi sul fondo asservito, per la parte in cui esso è rimasto privo della potenzialità edificatoria già utilizzata dal titolare del fondo in favore del quale ha avuto luogo l'asservimento
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica SENTENZA P.Q.M.REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA
Dott. MANNINO Saverio Felice - Presidente - del 10/05/2012
Dott. SQUASSONI Claudia - Consigliere - SENTENZA
Dott. LOMBARDI Alfredo Maria - Consigliere - N. 1301
Dott. GENTILE Mario - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. ROSI Elisabetta - rel. Consigliere - N. 3389/2010
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso proposto da:
1) IODICE GIULIA N. IL 31/03/1962;
2) PEPPE STEFANIA N. IL 25/02/1965;
3) D'ANGELIS FILIPPO N. IL 12/01/1949;
avverso la sentenza n. 9844/2008 CORTE APPELLO di ROMA, del 16/06/2009;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 10/05/2012 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ELISABETTA ROSI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Policastro Aldo che ha concluso per l'inammissibilità dei ricorsi;
Udito il difensore Avv. De Simona Corrado per Peppe e Iodoce ed anche in sost. dell'avv. Maurizio Biondi per De Angelis che ha chiesto l'accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 16 giugno 2009, ha confermato la sentenza di primo grado del Tribunale di Latina, sez. distaccata di Terracina del 18 aprile 2008, che aveva condannato Iodice Giulia e Peppe Stefania, quali proprietarie e committenti, e De Angelis Filippo, quale direttore dei lavori (rideterminando la pena per lo stesso, in relazione all'estinzione per prescrizione della violazione di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93, 94 e 95), per i reati di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), per aver realizzato in totale difformità dalla concessione edilizia n. 4136/01, e dai permessi di costruire nn. 180/03 e 222/04, mediante la divisione di un vano garage, una nuova superficie complessiva di mq 150, nonché il cambio di destinazione d'uso del piano terreno da attrezzature agricole a residenza, con un incremento del volume destinato a residenza pari a mq 902, opere accertate in corso di realizzazione in Fondi l'1 febbraio 2005.
Le imputate Iodice e Peppe erano titolari di una concessione edilizia rilasciata il 28 dicembre 2001 per la costruzione di un fabbricato rurale, comprensivo anche di un piano adibito ad abitazione e per la realizzazione della volumetria assentita venivano asserviti dei terreni non contigui; con ulteriore permesso a costruire n. 222 del 2004 era stato concesso l'ampliamento della superficie destinata ad attrezzature agricole nel piano terreno; era stato accertato che le opere realizzate, sotto la direzione lavori del De Angelis, avevano comportato la realizzazione sul lato nord, nel garage che avrebbe dovuto avere l'altezza di 5 metri, di una divisione con un solaio in due piani, con accesso in tale soppalco tramite scala interna, con aumento della superficie per mq 150 e realizzazione di un vano dotato di luce e finestra; sul lato sud, laddove doveva essere realizzata una vasca per accumulo di acque di irrigazione, era stata accertata la predisposizione per due piscine. Il Comune di Fondi aveva rilasciato altri due provvedimenti: la concessione in sanatoria n. 604 del 2005 per il soppalco e la variante con permesso a costruire n. 903 del 2005 per assentire il mutamento della destinazione d'uso del piano terreno da agricolo a residenziale, tramite l'asservimento di ulteriori terreni (da ma. 80.000 a mq 180.000). I giudici di merito hanno ritenuto, in primis, che tali provvedimenti amministrativi fossero da ritenere nuove concessioni, in quanto il manufatto aveva mutato nella sostanza la sua destinazione (perché, a fronte di 1.800 mq di residenza, solo 100 mq restavano funzionali all'impiego agricolo) e che fossero inoltre illegittimi, poiché in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti, in quanto era stato consentito l'asservimento di fondi non contigui, non ammesso dalla L.R. n. 8, non potendosi estendere la portata della norma transitoria di cui all'art. 8 della citata Legge Regionale al caso di specie. Pertanto i giudici avevano ritenuto gli imputati responsabili del reato loro ascritto. 2. Gli imputati, tramite i loro difensori, hanno proposto ricorso per cassazione, Iodice e Peppe. lamentando i seguenti motivi:
1) Violazione e falsa applicazione dell'art. 603 c.p.p., per mancata rinnovazione del dibattimento, avendo i giudici di appello respinto la richiesta di esame del consulente tecnico di parte Arch. De Simone e per omessa risposta sul punto relativo alle lamentate carenze istruttorie, essendo evidente che il consulente tecnico del pm aveva confuso il piano terra dell'edificio con il piano interrato ed aveva erroneamente ritenuto che il soppalco avesse determinato un incremento del volume assentito; 2) Motivazione omessa sui motivi di appello e omessa lettura degli atti (memoria difensiva e consulenza tecnica di parte), in quanto i giudici avevano ritenuto privi di effetti estintivi del reato edilizio i permessi a costruire in sanatoria rilasciati dal comune. Erroneamente sarebbe stata ritenuta illegittima la concessione edilizia n. 604 del 2005, non essendosi determinato alcun incremento del volume con la realizzazione del soppalco, poiché nella zona agricola è la superficie che definisce il volume, come precisato nella Circolare della Regione Lazio e nel parere regionale del 4 agosto 2008;
3) Difetto di motivazione e vizio di motivazione, per avere ritenuto che la realizzazione del soppalco determinasse un mutamento di destinazione e che la realizzazione delle vasche fosse finalizzata ad uso non agricolo;
4) Insufficiente motivazione e violazione e falsa applicazione della legge regionale n. 8 del 2003 e del piano regolatore del Comune di Fondi, in relazione alla constatazione dell'asservimento relativo a fondi non contigui che non sarebbe stato consentito dalla legge regionale, in quanto i giudici avrebbero interpretato erroneamente l'art. 8 di tale Legge, contenente una norma transitoria applicabile, invece, al caso di specie.
5) Violazione e falsa applicazione della L.R. n. 8 del 2003 e vizio di motivazione per errata lettura delle risultanze dibattimentali, laddove sarebbe stata ritenuta sussistente una diversa destinazione rispetto a quella agricola delle opere in corso di realizzazione;
6) Violazione e falsa applicazione delle norme e principi generali in materia di accertamento della responsabilità dei titolari del permesso di costruire, atteso il principio di buona fede ed affidamento da parte del soggetto non munito di specifiche competenze, nei confronti della pubblica amministrazione, non avendo il giudice penale proceduto alla valutazione della sussistenza dell'elemento soggettivo della contravvenzione edilizia;
De Angelis, lamentando:
1) Inosservanza od erronea applicazione della legge penale, in riferimento al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 in quanto non si può parlare di totale difformità dal permesso di costruire, posto che la giurisprudenza ha ritenuto che il soppalco sia un'opera interna. Inoltre il mutamento della destinazione d'uso sarebbe stato fondato su elementi incerti;
2) Inosservanza od erronea applicazione del art. 36, cit. D.P.R., in relazione al D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93, 94 e 95 in quanto non sarebbe stata considerata l'Intervenuta estinzione del reato per effetto del rilascio della concessione in sanatoria, dovendo riconoscersi a tali reati, secondo un'interpretazione in bonam partenti, natura urbanistica;
3) Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione alla L.R. n. 8 del 2003, art. 8 e violazione e falsa applicazione dei principi generali in materia di ius edificandi, in quanto la stessa Corte di appello aveva menzionato la disposizione transitoria che consentiva l'asservimento anche di fondi non contigui, ma poi non l'aveva ritenuta applicabile al caso di specie; inoltre la sentenza sarebbe illogica in quanto aveva considerato lo stravolgimento del rapporto del volume concesso per le attrezzature agricole con quello residenziale, per la realizzazione del soppalco che è mera opera interna, quando invece l'assetto planovolumetrico dell'opera risultava conforme a quanto permesso, ed aveva considerato l'uso residenziale delle vasche di contenimento delle acque, ritenendole piscine;
4) Inosservanza della legge penale in riferimento all'art. 157 c.p., poiché i reati sarebbero stati già prescritti al momento della celebrazione del giudizio di appello, dovendo considerarsi commessi il 18 aprile 2004.
3. Le ricorrenti Iodice e Peppe hanno depositato successive memorie, con le quali hanno ribadito le censure già avanzate, evidenziando quale fatto nuovo la norma di interpretazione autentica dell'art. 65 bis, e art. 3 della Legge Urbanistica Regionale, introdotta con la L.R. Lazio 13 agosto 2011, n. 12, art. 1, comma 153 dalla quale si evincerebbe che i manufatti oggetto del procedimento penale sono ab origine conformi alla normativa edilizia ed urbanistica, per cui hanno chiesto l'annullamento della sentenza perché il fatto non è previsto dalla legge come reato; inoltre hanno ribadito le censure di cui al quarto motivo, circa l'erronea interpretazione della disposizione transitoria di cui alla L.R. n. 8 del 2003, art. 8 operata dalla Corte di appello che avrebbe ritenuto la previgente norma di P.R.G. non applicabile alle domande presentate anteriormente, ma non ancora decise all'entrata in vigore della legge. Di contro le ricorrenti hanno osservato come i titoli edificatori successivi al primo risultino strutturalmente, funzionalmente e teologicamente collegati all'originario titolo edilizio (rilasciato il 28 dicembre 2001), tale intervento interpretativo della legge sarebbe consentito anche dalla giurisprudenza costituzionale dovendo essere chiarita una situazione di obiettiva incertezza nell'applicazione della disciplina. CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Tutti i ricorsi sono manifestamente infondati.
Il primo motivo di ricorso proposto dalla difesa delle imputate Iodice e Peppe deve essere rigettato in quanto - a parte il fatto che il giudice di appello ha l'obbligo di motivare quando dispone la rinnovazione dell'istruttoria e non quando invece ritiene completo il quadro probatorio, potendosi in tal caso la motivazione del diniego considerarsi implicita (Cfr. Sez. 3, n. 24294 del 25/6/2010., D.S.B., Rv. 247872) - deve essere sottolineato che, nel caso di specie, i giudici hanno chiarito le ragioni per le quali risultava ininfluente la rinnovazione dell'esame del C.T., peraltro dopo avere fornito ampia ricostruzione in punto di fatto dell'iter amministrativo della opera edilizia di cui è processo ed avere evidenziato la questione interpretativa, in diritto, in tema di asservimento, quale unico punto ancora necessario ai fini della decisione ed avere, anche, ribadito l'assoluta infondatezza della asserita erronea valutazione del consulente quanto all'ampliamento del piano terra, escludendo che potesse essere ritenuto interrato il piano ove le opere abusive erano state realizzate.
2. Del pari manifestamente infondati il secondo, il terzo ed il quinto motivo di ricorso delle proprietarie committenti ed il primo motivo di ricorso del De Angelis, i quali, nella sostanza, propongono delle censure in fatto. In tema di sindacato del vizio della motivazione, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre, in quanto la mera prospettazione di una diversa (e per il ricorrente più favorevole) valutazione delle emergenze processuali non costituisce vizio, comportante controllo di legittimità (sez. U, n. 930 del 29/1/1996, Clarke, Rv, 203428). Inoltre, come è stato più volte affermato da questa Corte (cfr. Sez. 4, n. 15227 dell'11/4/2008, Baretti, Rv. 239735; Sez. 6, n. 1307 del 14/1/2003, Delvai, Rv. 223061), quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente e forma con essa un unico complessivo corpo argomentativo. Peraltro nel caso di specie la Corte di appello ha anche fornito puntuale risposta alle doglianze avanzate in tale sede, pressoché identiche a quelle proposte in Cassazione, essendo evidente che i vizi di motivazione dedotti finiscono, in realtà, per dissimulare la critica alle valutazioni probatorie che spettano al giudice di merito e che sono state trasfuse in una diffusa trama argomentativa, immune da vizi di sorta, oltre che aderente alle risultanze acquisite. In particolare, la Corte di appello ha spiegato perché ha condiviso la valutazione del giudice di prime cure circa l'improduttività di effetti estintivi del cd. permesso in sanatoria n. 604 del 2005, relativo alla realizzazione del solaio, per mancata conformità alla normativa urbanistica (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 16591 del 31/3/2011, dep. 28/4/2011, P.M. in proc. Marotti, Rv. 250153), ritenendo anche impropria la definizione di soppalco attribuita all'opera, atteso che la stessa era stata costruita con struttura in cemento armato, per un aumento di superficie di 150 mq, ed in comunicazione con i vani ad uso abitativo del primo piano, per cui ne risultava evidente il mutamento di destinazione da unità a servizio agricolo a residenziale e l'ampliamento del volume. Del pari la Corte di appello ha anche chiarito le ragioni per le quali aveva ritenuto di confermare la valutazione di illegittimità anche per il permesso in variante n. 903 del 2005, relativo al cambio di destinazione d'uso, rilasciato erroneamente sulla scorta delle previgenti norme del piano regolatore.
È ormai consolidato (sin dall'arresto delle Sezioni unite di questa Corte del 21 dicembre 1993, ric. Borgia) che il giudice penale, nel valutare la sussistenza o meno della liceità di un intervento edilizio, deve verificarne la conformità a tutti i parametri di legalità fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dalla concessione edificatoria. Il giudice, quindi, non deve limitarsi a verificare l'esistenza ontologica del provvedimento amministrativo autorizzatorio, ma deve verificare l'integrazione o meno della fattispecie penale "in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela" (nella specie tutela del territorio). È la stessa descrizione normativa del reato che impone al giudice un riscontro diretto di tutti gli elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa, ivi compreso l'atto amministrativo per cui il giudice deve accertare la conformità dell'intervento ai parametri di legalità (SSUU. 28 novembre 2001, Salvini). Il reato di esecuzione di lavori edilizi in "assenza di concessione" può quindi ravvisarsi anche in presenza di una concessione illegittima senza che occorra fare ricorso alla procedura di disapplicazione dell'atto amministrativo, essendo sufficiente la sola valutazione della sussistenza dell'elemento normativo della fattispecie, atteso che la conformità della costruzione e della concessione alla normazione urbanistica è elemento costitutivo o normativo dei reati contemplati dalla disciplina urbanistica, stante l'individuazione del parametro di legalità urbanistica e edilizia quale ulteriore interesse protetto dalle disposizioni in questione (ex multis, Sez. 3 n. 41629/2007, Rv. 237995; Sez. 3 n. 25144/2008, Rv. 240728; Sez. 3 n. 21487/2006, Rv. 234469).
3. A tale proposito, risultano del pari manifestamente infondati anche i motivi di ricorso n. 4 delle ricorrenti Iodice e Peppe e n. 3 del De Angelis, con i quali si contesta l'erroneità dell'interpretazione data dai giudici di merito alla disciplina regionale di cui alla L. n. 8 del 2003 che, avendo inibito l'asservimento di fondi non contigui, avrebbe tuttavia consentito in via transitoria questa possibilità - prevista nel P.R.G. del Comune di Fondi - per le domande presentate anteriormente al 30 giugno 2002, e quindi nel caso di specie. Va premesso che questa Corte si è ripetutamente occupata dell'istituto del cd. "asservimento di terreno per scopi edificatori" (o cessione di cubatura), che consiste in un accordo tra proprietari di aree contigue, aventi fa stessa destinazione urbanistica, in forza del quale il proprietario di un'area "cede" una quota di cubatura edificabile sul suo fondo per permettere all'altro di disporre della minima estensione di terreno richiesta per l'edificazione, ovvero di realizzare una volumetria maggiore di quella consentita dalla superficie del fondo di sua proprietà. Gli effetti che ne derivano hanno carattere definitivo ed irrevocabile, integrano una qualità oggettiva dei terreni e producono una minorazione permanente della loro utilizzazione da parte di chiunque ne sia il proprietario, La giurisprudenza amministrativa e civilistica prevalente è orientata nel senso che la efficacia della volontà del proprietario "cedente" costituisce, all'Interno del procedimento amministrativo di rilascio del permesso di costruire, presupposto di tale provvedimento, così che il trasferimento di volumetria si realizza soltanto con il rilascio finale del titolo edilizio (vedi Cons. Stato, Sez. 5, 28/6/2000, n. 3637 e Cass. civ.: 12/9/1998, n. 9081). Peraltro, soltanto per effetto del rilascio del provvedimento amministrativo si costituisce il "vincolo di asservimento" che, senza oneri di forma pubblica o di trascrizione, incide definitivamente sulla disciplina urbanistica ed edilizia delle aree interessate, in quanto nel territorio comunale il titolo abilitativo edilizio crea un nuovo lotto di pertinenza urbanistica dell'edificio, che non coincide con i confini di proprietà ed ha una consistenza indipendente rispetto ai successivi interventi nelle aree medesime, derivandone l'impossibilità di assentire e di richiedere ulteriori ed : eccedenti realizzazioni di volumi costruttivi sul fondo asservito, per la parte in cui esso è rimasto privo della potenzialità edificatoria già utilizzata dal titolare del fondo in favore del quale ha avuto luogo l'asservimento (Cfr. Sez. 3, n. 21177 del 30/4/2009, dep. 20/5/2009, Guardiano, Rv. 243623).
Per quanto attiene al caso di specie, la vigente legge della Regione Lazio non consente, come detto, l'asservimento di fondi non contigui, previsti invece nel piano regolatore del Comune di Fondi adottato in precedenza. In particolare, il tanto discusso art. 8 della cit. L.R. Lazio, nel dettare la disciplina transitoria, dispone: "1. Alle domande per l'edificazione nelle zone agricole pervenute ai comuni entro il termine del 30 giugno 2002, previsto dalla L.R. 30 gennaio 2002, n. 4, continuano ad applicarsi le disposizioni degli strumenti urbanistici vigenti a tale data.
2. A decorrere dalla data del 1 luglio 2002, alle zone agricole definite all'interno degli strumenti urbanistici vigenti si applicano le disposizioni di cui al titolo 4^ della L.R. n. 38 del 1999, come modificata dalla presente legge." L'articolo 5 della medesima L. n. 8 del 2003, ha sostituito la L.R. 22 dicembre 1999, n. 38, art. 55 proprio relativo all'edificazione in zona agricola, stabilendo che:
"1. Fermo restando l'obbligo di procedere prioritariamente al recupero delle strutture esistenti, la nuova edificazione in zona agricola è consentita soltanto se necessaria alla conduzione del fondo e all'esercizio delle attività agricole e di quelle ad esse connesse. ... 3. Gli edifici esistenti in zona agricola alla data di entrata in vigore della presente legge possono essere soggetti a interventi di rinnovo, fino alla demolizione e ricostruzione, con il vincolo di non superare le superfici lorde utili esistenti, salvo un aumento, per una sola volta, del dieci per cento delle sole superfici con destinazione residenziale per motivi di adeguamento igienico sanitario. ... 5. Le strutture adibite a scopo abitativo, salvo quanto diversamente e più restrittivamente indicato dai piani urbanistici comunali, dai piani territoriali o dalla pianificazione di settore, non possono, comunque, superare il rapporto di 0,01 metri quadri per metro quadro, fino ad un massimo di 300 metri quadri per ciascun lotto inteso come superficie continua appartenente alla stessa intera proprietà dell'azienda agricola. Il lotto minimo è rappresentato dall'unità aziendale minima di cui all'art. 52, comma 3. È ammesso, ai fini del raggiungimento della superficie del lotto minimo, l'asservimento di lotti contigui, anche se divisi da strade, fossi o corsi d'acqua." Orbene risulta assolutamente congrua e corretta la motivazione della sentenza impugnata, che ha interpretato la disposizione nel senso che la stessa è applicabile solo alle domande presentate sotto la vecchia normativa che non siano state ancora decise e non già laddove, come nel caso di cui si tratta, la concessione sia stata già rilasciata ed i lavori abbiano avuto inizio. Elemento comunque risolutivo è stato ritenuto il fatto che il permesso n. 903 del 2003, denominato variante in corso d'opera, doveva considerarsi sostanzialmente illegittimo, in quanto modificativo della destinazione d'uso, non certo consentita dalla normativa transitoria.
4, Per quanto attiene al motivo nuovo sollevato nella memoria da ultimo presentata, fondato sul fatto che la Regione Lazio avrebbe emanato una legge di interpretazione autentica in grado di evidenziare la perfetta legittimità dell'opera realizzata per la sua evidente conformità agli strumenti urbanistici vigenti "in via transitoria", questo Collegio ne osserva la manifesta infondatezza, attesa l'inconferenza con il caso di specie.
Infatti il comma 153 dell'art.1 contenuto nella L.R. Lazio 13 agosto 2011, n. 12 prevede una norma di interpretazione autentica del comma 3, art. 65 bis L.R. 22 dicembre 1999, n. 38 (Norme sul governo del territorio), che così recita: "Ai fini di cui al comma 3, ai titoli abilitativi edilizi e successive varianti, ivi comprese quelle aventi ad oggetto le variazioni previste dalla L.R. 11 agosto 2008, n. 15, art. 17 (Vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia), sempre che le richieste di titolo abilitativo siano pervenute entro la data di cui al comma 2 ed anche se i relativi titoli siano stati rilasciati successivamente a tale data, si applicano le disposizioni previste rispettivamente dagli strumenti urbanistici vigenti ovvero, nei comuni sprovvisti di pianificazione urbanistica, alle zone poste al di fuori del perimetro dei centri abitati, quelle previste dalla L.R. 6 luglio n. 1977, n. 24, art. 1 concernente la disciplina urbanistico- edilizia nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici generali, e successive modifiche".
Per comprendere il significato della disposizione, va evidenziato che non viene interpretato in via autentica la L.R. n. 8, art. 8 ma l'art. 65 bis delle norme regionali in tema di Governo del territorio, che detta le disposizioni transitorie per le zone agricole: "1. Ai fini degli adempimenti comunali di cui all'art. 52, la Giunta regionale, entro il 15 dicembre 2000, con propria deliberazione, detta appositi criteri ed indirizzi per la definizione della diverse aree produttive del Lazio.
2. Entro il 31 dicembre 2Q01, i comuni provvedono ad indicare l'unità aziendale ottimale e l'unità aziendale minima ai sensi dell'art. 52, comma 3.
3. Fino alla scadenza del termine di cui al comma 2, in deroga a quanto disposto nell'art. 51, comma 2, alle zone agricole definite all'interno degli strumenti urbanistici vigenti continuano ad applicarsi le disposizioni previste negli strumenti stessi. Decorso il termine suddetto alle zone agricole definite all'interno degli strumenti urbanistici vigenti si applicano le disposizioni di cui al Titolo 4^."
Orbene non è dubitabile della piena legittimità di un intervento legislativo regionale, con norma di interpretazione autentica, nella materia del governo del territorio: il legislatore regionale ha semplicemente sottolineato che il termine del 31 dicembre 2001, nel quale la disciplina delle zone agricole segue il vecchio regime", va considerato avendo riguardo alla data di presentazione della "domanda di titolo abilitativo", sia esso originario od in variante, come chiarito nello stesso dettato della disposizione.
Ferme restando le problematiche di coordinamento tra le due disposizioni, risulta comunque evidente che nessuna delle due è applicabile al caso di specie, laddove con successive domande, presentate in epoca successiva al 31 dicembre 2001 ed anche al 30 giugno 2002, i ricorrenti avevano richiesto concessioni in sanatoria e, soprattutto, concessione in variante, con ulteriore asservimento di fondi, per ampliare la volumetria residenziale realizzabile. Appare invece chiaro che tali istanze, ed i provvedimenti stessi, finiscono per collocarsi nella vigente disciplina regionale delle aree agricole, quella del Titolo 4^ della L. n. 38 del 1999, come successivamente modificata.
Del resto la giurisprudenza di questa Corte, seppure in un ambito diverso, ha ritenuto che il rilascio di un nuovo permesso di costruire per consentire il completamento delle opere necessita della rivalutazione del progetto nella sua globalità, la cui legittimità è sindacabile dal giudice penale (in tal senso, Sez. 3, n. 41451 del 29/9/2011, dep. 14/11/2011, Oliveri, Rv. 251307), per cui, nel caso di specie, va affermato il medesimo principio anche in relazione al permesso di costruire in variante, non potendosi negare che in tale momento la pubblica amministrazione deve effettuare un controllo complessivo della legittimità dell'opera in corso di realizzazione con gli strumenti urbanistici vigenti, soprattutto nel caso in esame, laddove il permesso in variante integrava in pratica una modificazione sostanziale della destinazione da rurale a residenziale, che non poteva, comunque, trovare salvezza nella disciplina transitoria, più favorevole unicamente in ragione della dimensione del lotto minimo e dell'asservimento dei fondi non contigui.
5. Risulta del pari manifestamente infondato il secondo motivo di ricorso avanzato dal De Angelis, che vorrebbe che il "permesso in sanatoria" n. 604 del 2005, del quale, come detto, i giudici di merito hanno motivatamente escluso ogni legittima valenza estintiva, estendesse i propri effetti anche in relazione al reato di cui al D.P.R. n. 380, artt. 94 e ss. (peraltro dichiarato estinto per prescrizione in grado di appello), senza considerare che, per giurisprudenza pacifica, il rilascio della concessione in sanatoria riverbera effetti unicamente in relazione agli illeciti urbanistici, e non già a quelli afferenti la disciplina antisismica o a quella di realizzazione di opere in cemento armato, come quella di cui al residuo capo b) relativa all'assenza di progetto esecutivo redatto da un tecnico abilitato (cfr. Sez. 3, n. 11271 del 17/2/2010, dep. 24/3/2010, Braccolino e altri, Rv. 246462).
6. Questo Collegio rileva, infine, la palese infondatezza anche del quarto motivo di ricorso presentato dal direttore dei lavori, fondato su una fantasiosa retrodatazione del tempus commissi delicti. La data di accertamento del reato è risultata cristallizzata nel momento della verifica che le opere erano in corso di realizzazione (1 febbraio 2005); peraltro al termine lungo di prescrizione (quattro anni e mezzo) - che non era affatto decorso al 16 giugno 2009, data della sentenza di secondo grado - deve essere aggiunto un periodo di oltre due mesi di sospensione del dibattimento per impedimento del difensore.
7. La inammissibilità genetica dei dedotti motivi di ricorso, impedendo l'istaurarsi di un valido rapporto impugnatorio, preclude comunque la rilevazione e declaratoria del sopravvenuto spirare (successivo all'impugnata decisione di secondo grado) del termine di prescrizione per il reato ascritto ai ricorrenti.
Alla declaratoria di inammissibilità consegue, atteso il disposto di cui all'art. 616 c.p.p., la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti ciascuno al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 10 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 11 ottobre 2012