Cass. Sez. III n. 1053 del 14 gennaio 2020 (UP 25 set 2019)
Pres. Lapalorcia Est. Reynaud Ric. D’Agostino
Urbanistica. Opere di scavo di sbancamento e di livellamento del terreno
In tema di reati urbanistici, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 18 ottobre 2018, la Corte d’appello di Palermo ha parzialmente confermato la sentenza di primo grado appellata dall’odierno ricorrente e, per quanto qui interessa, lo ha ritenuto responsabile dei reati di cui agli artt. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 181, comma 1, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, per aver effettuato in zona vincolata, in assenza di permesso di costruire e autorizzazione paesaggistica, lavori di deposito di materiali di riporto su un’area di circa 234 mq., rendendola percorribile, e di deposito di materiali di risulta e livellamento su un’area di circa 1.020 mq. con modifica dell’orografia del terreno.
2. Avverso la sentenza di appello, ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, lamentando, con il primo motivo, la violazione dell’art. 2, secondo e quarto comma, cod. pen. per non essere più assoggettati ad autorizzazione gli interventi effettuati sul fondo di proprietà dell’imputato, giusta la previsione contenuta nell’art. 2, comma 1, d.P.R. 31 del 2017 (con riferimento al disposto di cui al punto A.12 dell’Allegato A), che esenta dalla previa richiesta di autorizzazione paesaggistica la realizzazione di camminamenti nelle aree di pertinenza degli edifici non comportante significative modifiche degli assetti planimetrici e vegetazionali. Alla luce di tale disposizione – si allega in ricorso – la realizzazione di una stradina in semplice terreno al fine di accedere al fondo non poteva essere considerata “intervento edilizio” ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 ed era dunque intervenuta abolitio criminis con necessità di fare applicazione dell’art. 2 cod. pen.
3. Con il secondo motivo si deduce il vizio di motivazione per essere stato ritenuto, con argomentazioni illogiche, che l’imputato fosse committente dei lavori soltanto perché, quale proprietario del fondo, era stato presente al momento dell’accertamento e aveva gestito una diversa pratica autorizzativa per la realizzazione di una recinzione in precedenza effettuata, ciò che semmai dimostrava come egli non fosse incline a commettere abusi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile, trattandosi di violazione di legge non dedotta in grado di appello ed essendo comunque la doglianza manifestamente infondata.
1.1. Quanto al primo aspetto, richiamando consolidati principi affermati con riguardo alla causa di inammissibilità di cui all’art. 606, comma 3, ult. parte, cod. proc. pen., deve ribadirsi che è inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca una violazione di legge se non si procede alla specifica contestazione del riepilogo dei motivi di appello, contenuto nella sentenza impugnata, che non menzioni la medesima violazione come doglianza già proposta in sede di appello, in quanto, in mancanza della predetta contestazione, il motivo deve ritenersi proposto per la prima volta in cassazione, e quindi tardivo (Sez. 2, n. 31650 del 03/04/2017, Ciccarelli e a., Rv. 270627; Sez. 2, n. 9028/2014 del 05/11/2013, Carrieri, Rv. 259066). Nella specie ciò non è stato fatto e per ciò solo il ricorso sarebbe inammissibile per genericità.
Deve aggiungersi che l’esame dell’atto d’appello ha consentito al Collegio di verificare che la violazione dell’art. 2, secondo e quarto comma, cod. pen. per non essere più assoggettati ad autorizzazione gli interventi nella specie effettuati giusta la previsione contenuta nell’art. 2, comma 1, d.P.R. 31 del 2017, non era stata effettivamente dedotta nel gravame di merito, benché, peraltro, la sentenza di primo grado (fg. 4) avesse esaminato l’applicabilità di tale ultima disposizione, escludendola, ciò che avrebbe dunque imposto al ricorrente che intendesse dolersi di tale decisione di sottoporre la questione al giudice di secondo grado. In casi similari, infatti, questa Corte ha sempre ritenuto che, non essendo invocabile l’art. 609, comma 2, ult. parte, cod. proc. pen., ricorra la causa di inammissibiilità del ricorso di cui al precedente art. 606, comma 3, ult. parte. (cfr., quanto alla causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., Sez. 3, n. 23174 del 21/03/2018, G, Rv. 272789; Sez. 5, n. 57491 del 23/11/2017, Moio, Rv. 271877; Sez. 3, n. 19207 del 16/03/2017, Celentano, Rv. 269913).
1.2. In ogni caso la doglianza è manifestamente infondata.
Va rilevato che le previsioni contenute nel d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31 (“Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata”), avendo natura regolamentare rispetto alle disposizione di legge di cui al d.lgs. 42/2004, individuano, tra l’altro, interventi che non richiedono la necessità dell’autorizzazione paesaggistica, o per loro riconducibilità alle tre categorie delineate dall’art. 149 d.lgs. 42/2004, ovvero perché, già in astratto, ne è evidente l’insignificante impatto paesaggistico. Tenendo conto della natura secondaria di tali disposizioni e della necessità che le stesse siano conformi al dettato normativo primario, va innanzitutto rammentato che è compito dell’interprete verificare la loro legittimità nel senso indicato ed escludere interpretazioni che abbiano l’effetto di ampliare, anche in via analogica, il campo di operatività delle stesse, trattandosi comunque di norme derogatorie rispetto al generale obbligo di richiedere l’autorizzazione paesaggistica per lavori da eseguirsi sui beni vincolati e dunque di stretta interpretazione (cfr. art. 14 disp. prel. cod. civ.).
1.3. Ciò premesso la disposizione invocata dal ricorrente prevede, per quanto qui interessa, che l’autorizzazione non sia necessaria per gli «interventi da eseguirsi nelle aree di pertinenza degli edifici non comportanti significative modifiche degli assetti planimetrici e vegetazionali, quali l'adeguamento di spazi pavimentati, la realizzazione di camminamenti, sistemazioni a verde e opere consimili che non incidano sulla morfologia del terreno» (d.P.R. 31/2017, All. A, punto A.12, prima parte).
Reputa il Collegio che la richiamata previsione non si attagli al caso di specie per plurime ragioni: dalle sentenze di merito non risulta (né il ricorrente lo allega) che i lavori in questione siano stati effettuati in area pertinenziale di edifici; la superficie interessata (234 mq., quanto alla stradina, e 1.020 mq. quanto alla restante porzione di area) era di significativa estensione e tale da escludere che potesse trattarsi di “camminamenti” (concetto che evoca uno sviluppo spaziale limitato al transito pedonale e, dunque, contenuto, laddove la sentenza impugnata attesta che «l’imputato aveva creato, cambiando così l’assetto del terreno, una strada perfettamente percorribile»); soprattutto, all’evidente scopo di rispettare il generale principio sancito dalla legislazione statale, la previsione secondaria richiede che i lavori esenti dall’obbligo di autorizzazione non comportino «significative modifiche degli assetti planimetrici», ciò che nel caso di specie le sentenze di merito invece escludono, confermando (come pure in ricorso si rammenta) che le opere avevano innalzato la quota di terreno per uno spessore di m. 0,30 (quanto alla stradina) e di m. 0,45 (quanto all’ulteriore superficie interessata).
1.4. Non potendo dunque ritenersi che i lavori in questione non fossero assoggettati al previo rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, va peraltro ulteriormente precisato come la disciplina del d.P.R. 31/2017 non riguardi in alcun modo la verifica della legittimità urbanistica delle opere, trattandosi di piani distinti che il ricorrente indebitamente sovrappone senza argomentare in diritto la conclusione. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, invece, la realizzazione di interventi in zone protette e/o vincolate deve di regola essere sottoposta al preventivo rilascio di distinti provvedimenti, ciascuno dei quali segue regole proprie, vale a dire il permesso di costruire (o altro titolo edilizio) disciplinato dal T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 e l'autorizzazione paesaggistica di cui al d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42 (eventualmente, se ne ricorrano le condizioni, il nulla osta dell'ente parco, di cui alla l. 6 dicembre 1991 n. 394), stante l'autonomia dei profili paesaggistici ed ambientali da quelli urbanistici (Sez. 3, n. 33966 del 12/07/2006, Salvemini, Rv. 235118; v. anche Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv. 261152; Sez. 3, n. 47706 del 09/10/2003, Messere, Rv. 226858).
Ciò posto, il ricorrente non argomenta per quale ragione, sul piano urbanistico, i lavori in questione non fossero assoggettati al previo rilascio del permesso di costruire, mentre la sentenza impugnata ha fatto applicazione del corretto principio secondo cui la trasformazione edilizia o urbanistica del territorio che costituisce “intervento di nuova costruzione” soggetto a permesso di costruire ai sensi del combinato disposto degli artt. 10, comma 1, lett. a), e 3, comma 1, lett. e), d.P.R. 380 del 2001, è quella che determina la permanente modifica del suolo (cfr. le definizioni di cui all’art. 3, comma 1, lett. e.3 e e.7, del citato testo unico; v. anche Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016, dep. 2017, Palma, Rv. 268847, ove si reputa necessario il permesso di costruire per interventi sul terreno che determinino una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio). E’ infatti consolidato – e va qui ribadito - il principio secondo cui, in tema di reati urbanistici, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio (Sez. 3, n. 4916 del 13/11/2014, dep. 2015, Agostini, Rv. 262475; Sez. 3, n. 29466 del 22/02/2012, Batteta, Rv. 253154; Sez. 3, n. 8064 del 02/12/2008, dep. 2009, Dominelli e a., Rv. 242741). Quanto alla realizzazione della stradina di accesso al fondo, è del pari evidente la necessità del permesso di costruire, essendo la costruzione di reti viarie, sia pur in terra battuta, riconducibile agli interventi di urbanizzazione (art. 3, comma 1, lett. e.2, T.U.E.) ovvero infrastrutturali che comportano la trasformazione in via permanente di suolo inedificato (art. 3, comma 1, lett. e.3, T.U.E.), come pure si è ritenuto nel caso di interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante apporto di terreno e materiale inerte e successivo sbancamento e livellamento del terreno, in quanto tale attività determina una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio (Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016, dep. 2017, Palma, Rv. 268847). Del resto, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, anche di recente ribadito, il permesso di costruire (come pure l’autorizzazione paesaggistica, se si tratti di area vincolata) è necessario anche nel caso di mera modificazione o allargamento di una strada preesistente (Sez. 3, n. 26193 del 28/03/2019, Vullo, Rv. 276042; Sez. 3, n. 1442 del 06/11/2012, dep. 2013, Pallone, Rv. 254264; Sez. 3, n. 33186 del 03/06/2004, Spano, Rv. 229130).
2. Il secondo motivo è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.
Con l’atto di appello (pag. 3) l’imputato si era limitato a contestare del tutto genericamente l’insufficienza della prova circa il fatto che fosse stato lui a commissionare sul suo fondo la realizzazione di quegli interventi. Dalla stessa lettura della sentenza di primo grado, peraltro, non emerge che in quel giudizio egli avesse contestato la responsabilità sotto quel profilo (la difesa si era limitata a chiedere l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato e non già per non averlo l’imputato commesso). Reputa, dunque, il Collegio che la sentenza impugnata abbia non illogicamente ritenuto che la sua responsabilità si ricavasse dal fatto che il ricorrente era il proprietario del fondo abusivamente trasformato, che era presente al momento del sopralluogo della polizia municipale e dei funzionari dell’ufficio tecnico comunale (e non risulta che neppure nell’immediatezza avesse protestato la propria estraneità alle opere) e che egli si interessava anche di fatto alla gestione e trasformazione urbanistica del proprio fondo per aver, soltanto l’anno precedente, gestito una pratica edilizia per la realizzazione di una recinzione. Si tratta di giudizio di fatto sorretto da una motivazione non manifestamente illogica, che le critiche addotte in ricorso non scalfiscono, introducendo, peraltro, anche elementi di valutazione che non risultano dalle sentenze di merito – e che non erano state devolute con il gravame - come la circostanza che la stradina servirebbe non soltanto il fondo dell’imputato, ma anche quelli vicini e mirando in ultima analisi a sollecitare questa Corte a compiere un inammissibile sindacato di merito sulla decisione. Alla Corte di cassazione, tuttavia, sono precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507), così come non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilità delle fonti di prova, circa la scelta tra divergenti versioni e interpretazioni dei fatti (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D’Ippedico e a., Rv. 271623; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362).
3. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, tenuto conto della sentenza Corte cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., oltre all'onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di €. 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 25 settembre 2019.