Consiglio di Stato, Sez. V, n. 3147, del 23 giugno 2014
Urbanistica.Legittimità diniego sanatoria per opere edilizie su argini corsi d’acqua
E’ legittimo il diniego di sanatoria per un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali, imposto dall'art. 96 lett. f), r.d. 25 luglio 1904 n. 523, ha carattere assoluto ed inderogabile; pertanto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 l. 47/1985 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree. Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua, previsto dalla lettera f) del predetto art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell'art. 33 della legge 47/1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)
N. 03147/2014REG.PROV.COLL.
N. 02420/2003 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2420 del 2003, proposto da:
Gimignani Mirella e Lavanderia Casavecchia di Tozzi Alessandro e C. s.n.c., in persona del legale rappresentante in carica, rappresentati e difesi dall'avv. Vittorio Chierroni, con domicilio eletto presso l’avv. Gian Marco Grez in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 18;
contro
Comune di Bagno a Ripoli, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dall'avv. Paolo Golini, con domicilio eletto presso la Segreteria sezionale del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, 13;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. TOSCANA, SEZIONE III, n. 00277/2003, resa tra le parti, concernente diniego rilascio concessione in sanatoria per opere edilizie.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Bagno a Ripoli;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 aprile 2014 il Cons. Paolo Giovanni Nicolo' Lotti e uditi per le parti gli avvocati Raniero Raggi su delega dell'avv. Vittorio Chierroni e Claudia Molino su delega dell'avv. Paolo Golini.
FATTO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, Sez. III, con la sentenza 12 febbraio 2003, n. 277, ha respinto il ricorso proposto dall’attuale parte appellante per l’annullamento dell’ordinanza n. 35 del 31 agosto 2000, emessa dal dirigente del settore Assetto del Territorio del Comune di Bagno a Ripoli, avente ad oggetto ”diniego al rilascio della concessione in sanatoria per opere ricomprese nell’istanza n. 3001-86 e conseguente diffida a demolire le medesime”, relativa a manufatti di proprietà della sig.ra Mirella Gimignani ove viene esercitata l’attività di impresa della “Lavanderia Casavecchia di Tozzi Alessandro e C. s.n.c.”.
Il TAR fondava la sua decisione rilevando, sinteticamente, che, attesa la natura dei vincoli puntualmente descritti nel provvedimento impugnato, doveva ritenersi errato il richiamo dell’art. 32 della legge n. 47-85; infatti, uno dei due vincoli individuati, quello imposto a tutela della costa fluviale, è esattamente disciplinato dal successivo art. 33.
Ha osservato il TAR che il vincolo di rispetto stradale, previsto dall’art. 33, a differenza di quello di inedificabilità relativa previsto dall’art. 32, che può essere rimosso a discrezione dell’autorità preposta alla cura dell’interesse tutelato, contiene un divieto di edificazione di carattere assoluto che comporta la non sanabilità dell’opera abusiva realizzata dopo la sua imposizione, trattandosi di vincolo per sua natura incompatibile con ogni manufatto.
Nella specie, inoltre, per il TAR non è contestato che entrambi i vincoli in questione sussistessero al momento dell’esecuzione delle opere abusive, com’è pacifico che la via comunale preesiste alla realizzazione delle opere (risalenti, secondo quanto sostenuto in ricorso, al 1969).
Ha ancora osservato il TAR che, in generale, è esatto che la previa acquisizione del parere dell’organo consultivo è necessaria anche ai fini della definizione della domanda di concessione in sanatoria. In questa ipotesi, tuttavia, trattandosi di decidere in base a mere considerazioni giuridiche, univocamente intese, e senza margini di discrezionalità sul piano dell’interpretazione dei fatti, il parere della commissione edilizia non è necessario; nella fattispecie, la sussistenza dei vincoli fluviale e stradale, richiamati nel provvedimento impugnato, non è contestata, né lo è la preesistenza dei medesimi rispetto alle opere abusive realizzate.
Per il TAR, inoltre, il diniego di concessione edilizia in sanatoria non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, essendo questo iniziato ad istanza di parte.
In ordine al motivo con il quale si è dedotto il vizio di incompetenza per violazione degli artt. 31 e 37 L.R. n. 52-99, il TAR ha rilevato che, nella fattispecie in esame, oggetto della censura di incompetenza è un provvedimento emesso in data anteriore all’entrata in vigore del D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, recante il T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.
Per il TAR, l’art. 31 della L.R. n. 52-99, nella parte in cui attribuisce al sindaco la competenza ad emettere l’ingiunzione di demolizione dell’opera abusiva, deve intendersi nel senso che la relativa competenza spetta al dirigente.
Infine, per il TAR è palesemente infondato il motivo con cui si censura la mancata individuazione delle aree eventualmente da acquisire, trattandosi di un adempimento successivo ed eventuale rispetto all’ordinanza di demolizione, che pertanto non può costituire presupposto di legittimità del provvedimento impugnato.
L’appellante contestava la sentenza del TAR deducendo:
- Motivazione erronea, contraddittoria e comunque insufficiente. Violazione e/o falsa applicazione artt. 32 e 33 Legge 28 febbraio 1985, n. 47; art. 3 Legge 7 agosto 1990, n. 241; art. 96 R.D. 25 luglio 1904, n. 523; D.M. 1° aprile 1968, n. 1404. Eccesso di potere per difetto di istruttoria, carenza di parere obbligatorio, violazione del giusto procedimento, carenza di motivazione. Illegittimità derivata;
- Motivazione erronea, contraddittoria e comunque insufficiente. Violazione e/o falsa applicazione art. 4 Legge n. 493-1993, come modificato dall’art. 2, comma 60, Legge n. 662-1996, in relazione agli artt. 31 e 35 Legge n. 47-1985. Violazione e falsa applicazione artt. 10 e 37 della L.R. Toscana n. 52- 1999. Eccesso di potere per difetto di istruttoria, carenza di parere, violazione del giusto procedimento, carenza di motivazione. Illegittimità derivata;
- Motivazione erronea, contraddittoria e comunque insufficiente. Violazione e/o falsa applicazione art. 7 e segg. della Legge 7 agosto 1990, n. 241. Eccesso di potere per violazione del giusto procedimento e del principio del contraddittorio;
- Motivazione erronea, contraddittoria e comunque insufficiente. Violazione art. 7 Legge 28 febbraio 1985, n. 47. Violazione dei principi in materia di irrogazione delle sanzioni. Eccesso di potere per carenza assoluta di motivazione ed illogicità manifesta;
- Motivazione erronea, contraddittoria e comunque insufficiente. Incompetenza. Violazione e/o falsa applicazione artt. 31 e 37 Legge Regionale Toscana 14 ottobre 1999, n. 52;
- Motivazione erronea, contraddittoria e comunque insufficiente. Violazione e/o falsa applicazione art. 7 Legge 28 febbraio 1985 n. 47. Eccesso di potere per violazione del giusto procedimento, difetto di istruttoria.
Con l’appello in esame, quindi, si chiedeva l’accoglimento del ricorso di primo grado e si riproponeva la domanda risarcitoria.
Si costituiva l’Amministrazione appellata chiedendo il rigetto dell’appello.
All’udienza pubblica del 15 aprile 2014 la causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
Quanto al primo motivo d’appello, questo Collegio deve rilevare che l’impugnata ordinanza n. 235 del 31 agosto 2000, con la quale il Dirigente del Settore Assetto del Territorio del Comune di Bagno a Ripoli negava il rilascio della concessione in sanatoria e, come diretta conseguenza del diniego, applicava la sanzione di cui all’art. 7 della Legge n. 47-1985, ha trovato fondamento nel rilievo che le opere realizzate dai ricorrenti in primo grado insistono su un’area nella quale è vietata l’edificazione perché ricompresa nella fascia di m. 10 a partire dal ciglio di sponda del torrente Rimaggio, sottoposta al vincolo di cui al R.D. 25 luglio 1904, n. 523 ed in parte nella fascia di rispetto stradale di cui al D.M. 1° aprile 1968, n. 1404.
I vincoli fluviali e stradale sono sicuramente riconducibili alla disciplina di cui all’art. 33 della legge n. 47-85, e quindi il caso di specie rientra nelle ipotesi in essa indicata.
Quanto al vincolo fluviale, esso ha indubbiamente carattere assoluto ed inderogabile; tale vincolo non opera esclusivamente nel caso in cui risulti obbiettivamente e prima facie che non sussista una massa di acqua pubblica suscettibile di essere utilizzata ai fini pubblicistici; ma tale evenienza non riguarda il torrente Rimaggio in prossimità del quale è stata realizzato l’edificio di cui trattasi.
Peraltro, questa Sezione ha già affermato, con forza e del tutto condivisibilmente, che è legittimo il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria relativamente ad un fabbricato realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, atteso che il divieto di costruzione ad una certa distanza dagli argini dei corsi d'acqua demaniali, imposto dall'art. 96 lett. f), r.d. 25 luglio 1904 n. 523, ha carattere assoluto ed inderogabile; pertanto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con tale divieto trova applicazione l'art. 33 l. 28 febbraio 1985, n. 47 sul condono edilizio, il quale contempla i vincoli di inedificabilità, includendo in tale ambito i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 26 marzo 2009, n. 1814).
Come afferma costantemente la giurisprudenza, il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua, previsto dalla lettera f) del predetto art. 96, è informato alla ragione pubblicistica di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cass. civ., SS.UU., 30 luglio 2009, n. 17784) e ha carattere legale e inderogabile: ne segue che le opere costruite in violazione di tale divieto ricadono nella previsione dell'art. 33 della legge n. 47 del 1985 e non sono pertanto suscettibili di sanatoria (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. V, 26 marzo 2009, n. 1814; Id., Sez. IV, 12 febbraio 2010, n. 772; Id., Sez. IV, 22 giugno 2011, n. 3781; Trib. Sup. acque pubbl., 15 marzo 2011, n. 35; ivi riferimenti ulteriori).
E ben vero che la lettera f) dell'art. 96, che qui viene in questione, commisura il divieto alla distanza "stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località" e in mancanza di queste lo stabilisce alla distanza "minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi".
Sennonché - come è stato più volte affermato in giurisprudenza - alla luce del generale divieto di costruzione di opere in prossimità degli argini dei corsi d'acqua, il rinvio alla normativa locale assume carattere eccezionale. Tale normativa, per prevalere sulla norma generale, deve avere carattere specifico, ossia essere una normativa espressamente dedicata alla regolamentazione della tutela delle acque e alla distanza dagli argini delle costruzioni, che tenga esplicitamente conto della regola generale espressa dalla normativa statale e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga. Nulla vieta che la norma locale sia espressa anche mediante l'utilizzo di uno strumento urbanistico, come può essere il piano regolatore generale, ma occorre che tale strumento contenga una norma esplicitamente dedicata alla regolamentazione delle distanze delle costruzioni dagli argini anche in eventuale deroga alla disposizione della lettera f) dell'art. 96, in relazione alla specifica condizione locale delle acque di cui trattasi (cfr. Cass. civ., SS. UU., 18 luglio 2008, n. 19813; Cons. Stato, Sez. IV, 29 aprile 2011, n. 2544).
In mancanza di una difforme disciplina sul punto specifico nel P.R.G., deve ritenersi non sussistere una normativa locale derogatoria di quella generale, alla quale dunque occorre fare riferimento.
Quanto al vincolo stradale, per le opere realizzate in zona vincolata, ricadente in fascia di rispetto stradale, si è parimenti in presenza di un vincolo di carattere assoluto, che prescinde dalle caratteristiche dell'opera realizzata, in quanto il divieto di edificazione sancito dall'art. 4, d.m. 1° aprile 1968 (recante norme in materia di distanze minime a protezione del nastro stradale da osservarsi nella edificazione fuori del perimetro dei centri abitati, di cui all'art. 19, l. 6 agosto 1967, n. 765), non può essere inteso restrittivamente, cioè al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali suscettibili di costituire, per la loro prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone, ma è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile per finalità di interesse generale e, cioè, per esempio, per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza vincoli limitativi connessi alla presenza di costruzioni (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 4 febbraio 2014, n. 485).
Pertanto, la sentenza T.A.R. Toscana è corretta anche nella parte in cui afferma che il vincolo stradale di cui al D.M. 1° aprile 1968, n. 1404 ha carattere inderogabile ed assoluto, con la conseguenza che, nella fattispecie, trova applicazione l’art. 33 della L. 28 febbraio 1985, n. 47 che non consente alcuna possibilità di deroga da parte dell’autorità preposta - a differenza del caso in cui l’edificazione sia avvenuta all’interno del centro abitato - in relazione alle opere costruite successivamente all’imposizione del vincolo, sicché doverosamente e legittimamente l’amministrazione ha escluso la sanabilità dell’opera abusiva de qua.
Anche il secondo motivo d’appello è infondato, poiché, come ha specificato questo Consiglio, la specialità del procedimento di condono edilizio rispetto all'ordinario procedimento di rilascio della concessione a edificare e l'assenza di una specifica previsione in ordine alla sua necessità rendono, per il rilascio della concessione in sanatoria, il parere della Commissione edilizia non obbligatorio ma, tutt'al più, facoltativo, al fine di acquisire eventuali informazioni e valutazioni con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi, in assenza dei quali il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 5 novembre 2012, n. 5619).
Il parere della Commissione edilizia può essere sollecitato soltanto con riguardo a particolari e sporadici casi incerti e complessi, in assenza dei quali il rilascio della concessione in sanatoria è subordinato alla semplice verifica dei presupposti e condizioni espressamente e chiaramente fissati dal legislatore (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 3 agosto 2010, n. 5156; Id., Sez. IV, 6 luglio 2012, n. 3969; ivi riferimenti ulteriori). Che nella specie non sussistessero particolari condizioni, tali da rendere complessa o difficoltosa la valutazione del Comune, è circostanza già emersa nel corso della disamina del precedente motivo dell'appello; dunque, non v'erano spazi per poter invocare utilmente l'intervento dell'organo consultivo collegiale.
Anche il terzo motivo d’appello è infondato.
Infatti, la comunicazione dell'avvio del procedimento non era necessaria, trattandosi di procedimento a istanza di parte (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. VI, 8 giugno 2010, n. 3624) e di provvedimento a contenuto vincolato, rispetto al quale l'interessata non avrebbe potuto apportare alcun contributo partecipativo (cfr. per tutte Cons. Stato, Sez. IV, 7 settembre 2011, n. 5028; Id, Sez. IV, 17 settembre 2012, n. 4925).
Tale principio è applicabile per il diniego di condono e, a fortiori, per il conseguente, ineludibile, ordine di demolizione.
Anche il quarto motivo d’appello è infondato, poiché nel caso di specie l’Amministrazione comunale non aveva alcun obbligo specifico di motivare la concreta applicazione della sanzione della demolizione.
Il Comune, nel momento in cui ha rilevato l’insanabilità dell’opera, conseguentemente e doverosamente ne ha ordinato la demolizione; il pedissequo provvedimento demolitorio risulta, dunque, in re ipsa motivato.
Infatti, a fronte del diniego di sanatoria, l’ordinanza di demolizione si appalesa come atto meramente consequenziale al diniego e l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; né, infine, può ammettersi alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere legittimato (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 31 agosto 2010, n. 3955).
Pertanto, il Collegio deve ribadire, in adesione a costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, che il provvedimento di repressione degli abusi edilizi (ingiunzione a demolire e/o ordine di demolizione, ed ogni altro provvedimento sanzionatorio), costituisce atto dovuto della pubblica amministrazione, riconducibile ad esercizio di potere vincolato, in mera dipendenza dall’accertamento dell’abuso e della riconducibilità del medesimo ad una delle fattispecie di illecito previste dalla legge.
Anche il quinto motivo d’appello è infondato.
Infatti, si devono innanzitutto confermare le conclusioni alle quali è pervenuto il giudice di I grado, in relazione alla competenza ad emettere i provvedimenti sanzionatori.
Inoltre, come ha chiarito la giurisprudenza di questo Consiglio (Consiglio di Stato, sez. IV, 20 luglio 2011, n. 4403), occorre aggiungere che il d. lgs. n. 80-1998 ha introdotto, nell’ambito dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni (compresi gli enti locali, per espresso richiamo normativo: attualmente, art. 1, comma 2, d. lgs. n. 165-2001), il principio di distinzione tra organi di indirizzo politico-amministrativo ed attività di gestione, nella quale ultima i titolari dei primi organi non devono ingerirsi.
Tale principio è stato ritenuto cogente anche per la legislazione regionale dalla Corte Costituzionale, in quanto di diretta e coerente attuazione dell’art. 97 Cost. (Corte Cost., 13 gennaio 2004, n. 2).
A completamento del principio generale espresso, l’art. 45, comma 1, d. lgs. n. 80-1998 ha affermato che: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, le disposizioni previgenti che conferiscono agli organi di governo l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi di cui all'art. 3, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti.”
Tale disposizione è stata poi abrogata dall’art. 72, lett. bb), d. lgs.30 marzo 2001, n. 165, che ha riconfermato la competenza dirigenziale nell’emanazione dei provvedimenti amministrativi.
Alla luce di quanto esposto, appare evidente come, per un verso, la disciplina dettata dalla legge regionale sia tenuta al rispetto dei principi generali desumibili (anche) dalla legislazione statale, in quanto attuativi di norme della Costituzione, cui anche la potestà legislativa regionale è tenuta a conformarsi (art. 117, primo comma, Cost.), con la conseguente necessità, nel caso di specie, di dare una lettura costituzionalmente orientata della legge regionale n. 52-1999.
Per altro verso, appare del tutto evidente come la legislazione statale (dapprima il d. lgs. n. 80-1998, poi il d. lgs. n. 165-2001) si imponga, quanto alla esclusione di attività di gestione a titolari di organi di indirizzo politico-amministrativo e ad attribuzioni dei dirigenti, alla difforme legislazione regionale, di modo che il giudice, nell’eventuale contrasto di norme, non può che accordare prevalenza alla norma statale, sia perché coerente con principi costituzionali, sia perché, nel caso di specie, espressiva di un principio introdotto prima rispetto alla l. reg. n. 52-1999, vigente al momento dell’entrata in vigore di quest’ultima, e successivamente riconfermato (il che giustifica la “prevalenza” anche sotto il profilo dei rapporti tra leggi succedutesi nel tempo).
Infine, anche il sesto motivo d’appello è infondato.
La giurisprudenza amministrativa ha, infatti, interpretato l’art. 7 della Legge n. 47 del 1985 nel senso che, solo nel momento in cui venga accertata l’inottemperanza all’ingiunzione a demolire, l’Amministrazione sia tenuta ad individuare dettagliatamente l’opera abusiva e le aree da acquisire.
In assenza di profili di illegittimità degli atti impugnati, non è possibile ritenere fondata la richiesta risarcitoria.
Conclusivamente, alla luce delle predette argomentazioni, l’appello deve essere respinto in quanto infondato.
Le spese del presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna parte appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio in favore del Comune, spese che si liquidano in euro 3000,00, oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 aprile 2014 con l'intervento dei magistrati:
Carmine Volpe, Presidente
Vito Poli, Consigliere
Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere, Estensore
Fulvio Rocco, Consigliere
Doris Durante, Consigliere
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L'ESTENSORE |
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IL PRESIDENTE |
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DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 23/06/2014
IL SEGRETARIO
(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)