Il Consiglio di stato vuol davvero contribuire a combattere l’abusivismo edilizio e la corruzione?
(Nota critica a Cons. Stato, adunanza plenaria, n. 8 del 17.10.2017)
di Massimo GRISANTI
Ancora una volta registro una deludente sentenza del Consiglio di Stato in tema di annullamento di titoli abilitativi edilizi per violazione della sostanziale disciplina urbanistica.
L’Adunanza plenaria se per davvero non voleva negare “9.1 … l’evidente esigenza di un deciso contrasto al grave e diffuso fenomeno dell’abusivismo edilizio, che deve essere fronteggiato con strumenti efficaci e tempestivi e con la piena consapevolezza delle gravi implicazioni che esso presenta in relazione a svariati interessi di rilievo costituzionale (quali la salvaguardia del territorio e del paesaggio, nonché la tutela della pubblica incolumità) …” doveva iniziare ad interrogarsi se il titolo abilitativo edilizio che contrasta sostanzialmente con la disciplina urbanistico-edilizia debba essere considerato annullabile o nullo.
Più ragioni portano a dover considerare nullo, con conseguente inapplicabilità dell’art. 21 nonies della legge 241/1990, un titolo abilitativo edilizio in forza del quale vengono eseguiti interventi sostanzialmente contrastanti con la disciplina urbanistica:
1) Dal momento che solo il Consiglio comunale è l’organo competente a variare gli strumenti urbanistici, tanto che i piani attuativi possono essere adottati ed approvati da parte della Giunta comunale solo se conformi al piano generale, come è possibile che i Giudici amministrativi continuino a considerare valido, anziché nullo ex art. 21 septies L. 241/1990 per difetto assoluto di attribuzione, un permesso di costruire rilasciato dal dirigente in violazione dei piani regolatori, quindi in violazione dei limiti di competenza ex art. 107 d.lgs. 267/2000? Un tale permesso di costruire si sostanzia, nel concreto, in una variante agli strumenti urbanistici adottata non solo da soggetto incompetente, ma addirittura al di fuori delle procedure prestabilite per la formazione e la variazione dei piani regolatori.
Nel continuare ad evitare di prendere “il toro per le corna”, ovverosia di prendere posizione su questo punto, il Consiglio di Stato finisce per risultare, nei fatti e suo malgrado, un agevolatore dell’abusivismo edilizio e della corruzione nei pubblici uffici, atteso che coloro i quali vogliono “trafficare” con i beni comuni e gli interessi pubblici confidano nel passaggio di diciotto mesi per consolidare l’indebito vantaggio economico conseguito.
Eppure, la Suprema Corte di Cassazione, sez. III penale, con la sentenza n. 16591/2011 (Pres. Gentile, Rel. Ramacci) da tempo ha tracciato la strada, pronunciandosi in ordine ai permessi di costruire in deroga ex art. 14 d.P.R. 380/2001: “… al di fuori dei limiti indicati dalla disposizione in esame, viene a configurarsi un’ipotesi di variante urbanistica la cui approvazione è soggetta alla specifica disciplina”.
2) Dal momento che il permesso di costruire è sostanzialmente configurato come un’autorizzazione, rilasciare un permesso di costruire in sostanziale violazione della disciplina urbanistica equivale ad attribuire al proprietario del bene immobile uno ius aedificandi che per legge non ha. Da qui il mutamento genetico del permesso da autorizzazione a concessione attributiva di diritti edificatori ulteriori rispetto a quelli predeterminati dalla legge e dalla pianificazione.
La Corte costituzionale, con la celeberrima sentenza n. 5/1980, ebbe a statuire che “… l’avente diritto può solo costruire entro limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici … la concessione a edificare non è attributiva di diritti nuovi ma presuppone facoltà preesistenti, sicché sotto questo profilo non adempie a funzione sostanzialmente diversa da quella dell’antica licenza, avendo lo scopo di accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall’ordinamento per l’esercizio del diritto, nei limiti in cui il sistema normativo ne riconosce e tutela la sussistenza”.
Ed ancora con la sentenza n. 127/1983: “… appare con altrettanta chiarezza che “il proprietario dell’area o chi abbia titolo” in suo luogo, come testualmente si esprime la legge, ha “diritto” di edificare, se la costruzione risulta rispettosa della disciplina urbanistica …”.
Il Consiglio di Stato ha altresì affermato al punto 9.4 della sentenza in commento che non esiste un solido fondamento normativo che stabilisca nel settore dell’edilizia un assetto in tema di presupposti per l’esercizio dell’autotutela decisoria tale da espungere in via ermeneutica due elementi normativamente indefettibili quali la ragionevolezza del termine e la motivata valutazione dei diversi interessi in gioco.
E al punto 9.5 è scritto: “… è necessario riconoscere che il Legislatore (pur consapevole della gravità e diffusività del fenomeno dell’abusivismo edilizio e della frequente inadeguatezza delle risorse messe in campo dalle amministrazioni locali per fronteggiarlo) non ha tutt’oggi approntato una speciale disciplina in tema di presupposti e condizioni per l’adozione dell’annullamento ex officio di titoli edilizi, in tal modo giustificando un orientamento volto a riconoscere anche in tali ipotesi la generale valenza dell’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 …”.
Lo scrivente ritiene che quanto affermato dal Supremo consesso amministrativo non risponda assolutamente al vero.
I Giudici amministrativi – fatta eccezione per qualche eccezione (v. TAR Veneto, n. 861/2016: “… il potere di repressione degli abusi edilizi di cui all’art. 27 del testo unico dell’edilizia non è inciso dall’art. 21 nonies della legge n° 241 del 1990 che prevede il limite temporale di diciotto mesi dall’adozione dell’atto illegittimo affinché questo possa essere annullato. L’art. 27 del testo unico dell’edilizia costituisce infatti norma speciale che, in relazione alla necessaria tutela del territorio ed alla natura permanente degli illeciti edilizi, quand’anche assentiti da titolo edilizio, impone che sia assicurata in ogni tempo la vigilanza sul territorio con la conseguenza che sussiste in ogni tempo il potere del comune di annullare le concessione edilizie illegittime dallo stesso rilasciate…”) – vogliono continuare a non cogliere l’importante novazione che il legislatore ha apportato all’art. 4 della legge 47/1985 – al fine di combattere tanto l’abusivismo edilizio, quanto la connivenza degli organi amministrativi con ogni forma di malaffare – quando ha scritto l’art. 27 del testo unico dell’edilizia.
L’innovazione introdotta dal Legislatore – già rilevata da TAR Campania, Napoli, sentenza n. 9278/2004: “… ora articolo 27 del D.P.R. n. 380 del 2001, che ne ha ampliato la previsione a tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche …” – è al comma 2 dell’art. 27 TUE, laddove aggiungendo “… nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici …” ha ampliato il potere-dovere del dirigente di ingiungere la demolizione di opere eseguite.
E in tutti i casi non può che significare come sia obbligo del dirigente il provvedere ad ingiungere la demolizione anche di opere venute ad esistenza in forza di titoli abilitativi sostanzialmente contrastanti con la disciplina urbanistica (implicitamente imponendosi l’annullamento in autotutela in via preliminare).
Il Legislatore, quindi, contrariamente a quanto affermato dal Consiglio di Stato, con la predetta innovazione ha prestabilito che gli interessi privati al mantenimento del titolo e dell’opera recedono sempre in presenza di sostanziali violazioni alla disciplina urbanistica, e che alcun legittimo affidamento può essere riconosciuto a colui il quale ha portato all’approvazione un progetto non assentibile, finendo per essere egli stesso causa del suo male.
E dal momento che colui il quale presenta un progetto inapprovabile non può logicamente vantare alcun affidamento legittimo, ecco che non vengono in gioco né il termine ragionevole per l’annullamento del titolo abilitativo, né la motivata valutazione degli interessi.
Del resto il Consiglio di Stato ha già affermato nella sentenza n. 5346/2014 che “… nell’ordinamento giuridico, vi è un principio generale, secondo cui non può fondatamente chiedere il risarcimento dei danni chi abbia con la sua colpa cagionato la sua verificazione. Nel diritto privato ciò si desume dall’art. 1338 cod. civ., relativo alle ipotesi di responsabilità precontrattuale in capo alla parte che abbia taciuto una causa di invalidità del contratto nei confronti dell’altra parte, che ottiene la tutela risarcitoria solo se abbia confidato, “senza sua colpa”, nella validità del contratto: l’affidamento sul buon esito delle trattative non è quindi riconosciuto meritevole di tutela se la parte si sia rappresentata o si sarebbe potuta rappresentare l’esistenza di una patologia del contratto poi concluso. Nel diritto amministrativo, è applicabile un corrispondente principio, per il quale chi chiede il rilascio di un provvedimento amministrativo, in assenza dei relativi presupposti e dunque chiedendo ciò che non ha titolo ad ottenere, non si può dolere del fatto che – in applicazione doverosa del principio di legalità – il provvedimento medesimo sia annullato o in sede giurisdizionale (su ricorso di chi vi abbia interesse), o in sede di autotutela (da parte dell’autorità emanante), ovvero quando vi siano ragioni di tutela dell’unità dell’ordinamento (da parte del Governo, ai sensi dell’art. 2, comma 3, lettera p) della legge n. 400 del 1988). In tal caso, o in sede giurisdizionale o in sede amministrativa è rimosso il provvedimento che ha inevitabilmente leso l’interesse pubblico rilevante nel settore (e nelle materie dell’edilizia e del paesaggio, l’integrità del territorio e dell’ambiente, la cui lesione comporta l’irrogazione delle relative sanzioni e non la spettanza di un risarcimento che altrimenti premierebbe un comportamento contra ius). Nel caso di proposizione di una domanda non accoglibile, il “bene della vita” non spetta ab origine e il successivo annullamento del titolo abilitativo illegittimamente formatosi non consente di chiedere un risarcimento del danno per la perdita di un quid sostanzialmente non spettante … Non può invece dolersi del danno chi – per una qualsiasi evenienza e con un provvedimento espresso, ovvero a seguito di un silenzio assenso o una s.c.i.a. – abbia ottenuto un titolo abilitativo presentando un progetto oggettivamente non assentibile: in tal caso il richiedente sotto il profilo soggettivo ha manifestato quanto meno una propria colpa (nel presentare il progetto assentibile solo contra legem) e sotto il profilo oggettivo attiva con efficacia determinante il meccanismo causale idoneo alla verificazione del danno. In altri termini, la domanda della Co.ge.a. va respinta perché ha causato l’emanazione delle concessioni edilizie, per avere appunto presentato un progetto non conforme alle norme urbanistiche rilevanti nella presente fattispecie: essa, a ben vedere, in linea di principio va considerata autrice di un illecito, e non già danneggiata, poiché gli unici soggetti astrattamente danneggiati dall’emanazione dei titoli ad edificare (poi annullati in sede giurisdizionale) sono la stessa Amministrazione (del quale è stato violato il territorio, salve le questioni riguardanti le domande di condono), nonché i confinanti che hanno vittoriosamente esperito l’azione impugnatoria contro i provvedimenti in questione. Solo nei confronti di costoro, la società immobiliare odierna appellante ed il Comune di Taranto hanno invece colpevolmente concorso all’illegittimità provvedimentale, mediante condotte autonome ma causalmente convergenti nella realizzazione dell’illecito, secondo un principio generale dell’ordinamento cui si ispira anche l’art. 2055, primo comma, cod. civ.: la prima per avere presentato un progetto costruttivo in violazione dei limiti di edificabilità applicabili nella zona, la seconda per averne consentito la realizzazione mediante i necessari assensi. Ne consegue che un medesimo fatto non può, per la contraddizione che non lo consente, ad un tempo costituire un illecito fonte di responsabilità civile, ma anche di pregiudizi tutelabili allo stesso titolo per il suo autore. Difetta in questo caso il necessario presupposto dell’antigiuridicità, che nell’illecito civile si sostanzia nell’ingiustizia del danno ex art. 2043 cod. civ. (contra ius e non iure), e che consiste – come ampiamente noto - nella lesione di una situazione soggettiva riconosciuta meritevole di tutela dall’ordinamento giuridico, e che rileva anche quando si tratti di controversie di diritto pubblico, per verificare quando sia configurabile un illecito. Lo stesso ordinamento giuridico non può ad un tempo riprovare un fatto e allo stesso offrirgli protezione, sotto forma di risarcimento per equivalente. E la conferma di quanto ora affermato si trae dal fatto che, come visto sopra, non è ammessa la tutela dell’affidamento colpevole in ordine ad un comportamento altrui. Pertanto, la Co.ge.a. non può pretendere dal Comune di Taranto alcunché a titolo di risarcimento di danni per il rilascio in suo favore delle concessioni edilizie poi annullate, atteso che, lungi dall’avere per effetto di ciò subito una lesione ad un bene giuridicamente protetto, in realtà l’appellante – nel presentare un progetto ab origine inaccoglibile – con il proprio determinante impulso ha concorso con l’amministrazione ad arrecare danni ingiusti a terzi …”.
In ultimo, quando il Legislatore – con le disposizioni dell’art. 38 T.U.E., anch’esse inserite nel Titolo IV riservato alle norme in tema di vigilanza sull’attività urbanistico edilizia – ha disciplinato in modo peculiare, per usare le parole del Consiglio di Stato, le ipotesi di c.d. ‘illegittimità sopravvenuta’ dell’intervento edilizio, ha voluto precisare, in correlazione a quelle contenute nell’art. 27, che non in tutti i casi di titoli abilitativi adottati in difformità dalle norme urbanistiche il dirigente deve adottare l’ingiunzione di demolizione, risultandone esclusi quelli venuti ad esistenza per meri vizi delle procedure amministrative.
Del resto, la Corte costituzionale, con sentenza n. 209/2010, in ordine all’art. 38 TUE ha affermato che “… l’espressione «vizi delle procedure amministrative» non si presta ad una molteplicità di significati, tale da abbracciare i «vizi sostanziali», che esprimono invece un concetto ben distinto da quello di vizi procedurali e non in quest’ultimo potenzialmente contenuto, con la conseguenza di escludere la sanatoria nelle ipotesi di violazioni diverse da quelle formali-procedurali …”.
Di conseguenza, ammettere, come fa il Consiglio di Stato, che i titoli abilitativi sostanzialmente violativi della disciplina urbanistica non possono essere annullati in ogni caso e in ogni tempo – come, invece, è dato evincere dalla correlazione tra l’art. 27, comma 2, e l’art. 38 del TUE – significa introdurre per via giurisprudenziale nell’ordinamento un condono edilizio extra ordinem che addirittura va al di là della incostituzionale sanatoria giurisprudenziale perché non abbisogna nemmeno della modifica degli strumenti urbanistici al fine di poter rendere legittima un’opera venuta ad esistenza in forza di permessi di costruire che si atteggiano, nel concreto, a varianti ad hoc dei piani regolatori.
Concludendo, ecco che il Consiglio di Stato finisce per essere, suo malgrado, il miglior alleato dei “trafficanti” di beni comuni e di coloro i quali non vogliono l’applicazione di norme (leggi: art. 27, comma 2, TUE) che pongono nel nulla il risultato dell’ottenimento di permessi di costruire sostanzialmente violativi dell’interesse pubblico contenuto nelle leggi e nella pianificazione.
È auspicabile che la Suprema Corte di Cassazione inizi a precisare, nelle proprie sentenze, che il permesso di costruire ex art. 12 d.P.R. 380/2001 adottato in violazione della pianificazione è nullo ex art. 21 septies L. 241/1990 per difetto assoluto di attribuzione perché atteggiantesi ad inammissibile variante agli strumenti urbanistici.