ROSSI-MARSON. Un brand, una garanzia.
(commento critico al Regolamento n. 64/R della Regione Toscana, emanato con decreto del Presidente della Giunta 11 novembre 2013)

di Massimo GRISANTI

Finalmente, anche Eddyburg si accorge – un po’ in ritardo – della pericolosità delle disposizioni del c.d. Decreto del Fare.

 

Tuttavia – alla pari dell’arch. Vezio De Lucia (che tanto ha decantato la nuova proposta di legge della Regione Toscana, finendo la recensione con “Meglio di così mi pare impossibile”: vedi http://www.eddyburg.it/2013/11/procedure-di-pianificazione-ed.html) – anche Salzano sempre non comprendere che il “braccio armato” dei sovvertitori della Legge Urbanistica nazionale è ancora una volta la Regione Toscana.

 

Ne costituisce prova il Regolamento regionale n. 64/R emanato con D.P.G.R. 11 novembre 2013-

 

In venticinque anni di professione non ho mai visto una roba del genere!

 

Le disposizioni in commento sembrano disvelare, salvo il vero o rettifiche degli Autori verso i quali vi è sin d’ora la massima disponibilità al confronto, una volontà sistematica di eludere gli obblighi costituzionali al fine di gettare alle ortiche la legislazione statale del settore dell’urbanistica, in particolare della pianificazione.

 

Per non dire che un procuratore della Repubblica che fosse addentro alla materia potrebbe, forse, vederci una sorta di attentato all’unità nazionale, un tentativo di destabilizzazione dell’ordine costituito.

 

Sembra che il Governatore dott. Enrico Rossi e l’assessore Arch. Anna Marson siano adepti della corrente “lupiana” che, a partire dalla metà degli anni settanta (come racconta Edoardo Salzano), piano piano si è impadronita dell’INU ed oggi costituisce, a vedere ciò che succede, il pensiero dominante nel settore dell’urbanistica, il cui dogma è la cosiddetta “urbanistica contrattata”.

 

Ma affinché gli adepti possano arrivare a conseguire l’implicitamente dichiarato obiettivo finale – che, in tutta evidenza, è quello dell’accaparramento dei beni comuni prima che i Cittadini si rendano conto che è solo a loro che appartengono in forza del principio di sovranità (cfr. Paolo Maddalena, Vice Presidente emerito della Corte Costituzionale, “I BENI COMUNI NEL CODICE CIVILE, NELLA TRADIZIONE ROMANISTICA E NELLA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA”) – è necessario che avvenga lo smantellamento della legge urbanistica nazionale, la n. 1150/1942 (emanata d’estate, in pieno periodo fascista, da un gruppo di parlamentari illuminati che sfruttarono le voglie del mare estivo dei colleghi per poter approvare, in aule parlamentari più deserte possibili, una legge quadro che consentisse di gettare le basi per lo sviluppo urbanistico e socio-economico dell’intera Nazione).

 

Non è escluso che il Governo Letta, di marca toscano-lombarda, sia un attore, più o meno consapevole, dell’operazione fin qui riuscita nell’ignoranza totale degli operatori del settore e nell’assoluto silenzio delle pseudo associazioni ambientaliste. Così come non è escluso, in ragione del particolare legame affettivo di natura territorial-politica, che il Presidente del Consiglio dei Ministri rinuncia a ricorrere alla Corte Costituzionale contro il regolamento regionale in esame.

 

Del resto, le avvisaglie della volontà di smantellamento le avevamo già avute quest’estate con il D.L. 21/6/2013, n. 69 che ha introdotto l’art. 2-bis al Testo Unico dell’Edilizia (sia consentito rimandare a: http://lexambiente.it/urbanistica/184-dottrina184/9686-urbanistica-decreto-del-fare-e-urbanistica.html).

 

Ora, la Regione Toscana – che insieme alla Lombardia ha sempre rivendicato a sé, all’indomani della riforma del Titolo V della Costituzione, senza riuscendovi con le leggi, ma ottenendo sempre comunque i risultati voluti con gli atti amministrativi regionali e indirizzando all’uopo gli strumenti urbanistici comunali, privandoli dell’atto approvativo regionale con il silente consenso dello Stato – dopo aver emanato il regolamento n. 36/R che ha conseguito una parziale declaratoria indiretta di incostituzionalità (per effetto della sentenza n. 64/2013 della Consulta che ha dichiarato illegittimi l’art. 1, commi 1 e 2, della L.R. Veneto n. 9/2012 a cui, la Regione Veneto, si era dichiaratamente inspirata) e dopo aver ricevuto, invece, la diretta declaratoria di incostituzionalità del condono sismico regionale (v. sentenza n. 101/2013 della Consulta), ecco che fa nuovamente da capofila per tentare lo scardinamento del principio di pianificazione urbanistica e riprovare ad impossessarsi, in via esclusiva, dei settori dell’edilizia e dell’urbanistica.

 

Operazione che appare funzionale a scopi tutt’altro che nobili e/o pubblici, in pieno contrasto con i principi di diretta derivazione costituzionale.

 

E’ per questo che è stato invitato il Presidente del Consiglio dei Ministri ad impugnare il regolamento regionale n. 64/R.

 

Se davvero Eddyburg ha a cuore il principio di pianificazione pubblica e la difesa dei beni comuni, ebbene, invitiamo Edoardo Salzano ad unirsi nell’istanza rivolta al Presidente del Consiglio dei Ministri per ottenere l’annullamento del regolamento n. 64/R della Regione Toscana.

 

In prosieguo il testo dell’istanza e le motivazioni a supporto.

 





Scritto il 25 novembre 2013

 

 

 

 

Al Presidente del Consiglio dei Ministri

Al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri

Al Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti

Al Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo

All’Avvocato generale dello Stato



E p.c. Presidente della Repubblica

Corte Costituzionale





INVITO-DIFFIDA

a ricorrere alla Corte Costituzionale

avverso il Decreto del Presidente della Giunta della Regione Toscana 11 novembre 2013 emanante il regolamento n. 64/R



Il sottoscritto (…)

visto

il Decreto del Presidente della Giunta della Regione Toscana 11 novembre 2013, pubblicato sul B.U.R.T. n. 54 del 15/11/2013, con il quale viene emanato il “Regolamento di attuazione dell’articolo 144 della legge regionale 3 gennaio 2005, n. 1 (Norme per il governo del territorio) in materia di unificazione dei parametri urbanistici ed edilizi per il governo del territorio”,

rilevato

  • che le disposizioni in prosieguo gravate sembrano disvelare una volontà sistematica di eludere gli obblighi costituzionali al fine di disapplicare la legislazione statale del settore dell’urbanistica, in particolare della pianificazione;

  • che tali norme costituiscono, ad avviso dello scrivente, anche una sorta di attentato all’unità nazionale, un tentativo di destabilizzazione dell’ordine costituito;

temendo

che in ragione del particolare legame territorial-politico il Presidente del Consiglio dei Ministri rinunci a ricorrere alla Corte Costituzionale contro il regolamento regionale in esame;

tutto ciò premesso

INVITA-DIFFIDA

  1. Il Presidente del Consiglio dei Ministri pro-tempore;

  2. Il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti;

  3. Il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali;

rispettivamente ed alternativamente, ricorrendone i casi,

a ricorrere alla Corte Costituzionale

avverso il Decreto del Presidente della Giunta della Regione Toscana 11 novembre 2013, pubblicato sul B.U.R.T. n. 54 del 15/11/2013, con il quale viene emanato il “Regolamento di attuazione dell’articolo 144 della legge regionale 3 gennaio 2005, n. 1 (Norme per il governo del territorio) in materia di unificazione dei parametri urbanistici ed edilizi per il governo del territorio”,

per i seguenti motivi

o diversi che vorranno individuare le Autorità e/o gli Organi competenti.



§§§

I FATTI

Si premette che l’art. 144 della legge regionale della Toscana recita:

“Art. 144 - Unificazione dei parametri e delle definizioni.

1. La Regione, con regolamento da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente articolo, determina i parametri urbanistici ed edilizi e le definizioni tecniche da applicarsi nei regolamenti edilizi e negli strumenti ed atti di cui all’articolo 52.

2. I comuni adeguano i propri regolamenti edilizi al regolamento regionale entro un anno dall’entrata in vigore dello stesso. Decorso inutilmente tale termine, i parametri e le definizioni contenute nel regolamento regionale sostituiscono i difformi parametri e definizioni dei regolamenti edilizi.

3. I comuni adeguano gli strumenti ed atti di cui all’articolo 52, ai contenuti del regolamento regionale nei termini e con le modalità stabilite dal regolamento medesimo. Decorsi inutilmente tali termini, i parametri e le definizioni contenuti nel regolamento regionale sostituiscono i difformi parametri e definizioni contenuti negli strumenti e negli atti di cui all’articolo 52.”.



Ebbene, a mezzo del decreto 11 novembre 2013 (pubblicato sul B.U.R.T. n. 54 del 15/11/2013) il Presidente della Giunta della Regione Toscana ha emanato il regolamento n. 64/R, approvato dalla Giunta, che dà concreta attuazione all’art. 144 della L.R.T. n. 1/2005.

RILEVATO

  1. La singolarità dell’obiettivo contenuto nell’art. 144 della L.R.T. n. 1/2005, atteso che in costanza – come vigono, senza soluzione di continuità dal 1/9/1967 – dei principi fondamentali contenuti negli articoli 10 e 36 della legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii. (prescriventi i compiti di approvazione sia degli strumenti urbanistici generali, sia dei regolamenti edilizi, trasferiti alle Regioni a statuto ordinario con il D.P.R. n. 8/1972) non si vede come sia stato possibile che la Regione arrivasse ad avvertire – se non a causa del cattivo, oppure omesso, esercizio della funzione autorizzatoria regionale – la necessità di procedere all’unificazione di parametri. Una necessità ancor più “inspiegabile” se consideriamo che la Regione Toscana aveva provveduto in passato (v. pubblicazione “Regolamento edilizio – Criteri e schede di orientamento – Regione Toscana, Giunta regionale ISBN 88 – 7040 – 055 – 7”) a redigere un regolamento edilizio tipo, quale schema direttore per la funzione normativa dei comuni, alla cui formazione avevano contribuito con osservazioni e contribuiti specifici: i comuni della Toscana, gli ordini professionali, i dipartimenti assetto del territorio e sicurezza sociale della Regione Toscana, la Commissione regionale tecnico amministrativa;



  1. Che il riconoscimento come principio fondamentale dell’urbanistica, ad opera della Corte Costituzionale (v. sentenza n. 26/1996), dell’approvazione regionale ex art. 10 della legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii., porta seco il dovere della Regione Toscana di rispettare tale principio (e gli altri) sia in sede amministrativa che in sede legislativa (ex multis: Corte Costituzionale, n. 272/2013: “… Occorre preliminarmente osservare che l’ambito materiale su cui incide la norma impugnata è inequivocabilmente ascrivibile ai settori dell’edilizia e dell’urbanistica. Ne consegue l’inclusione della stessa nella sfera delle potestà legislative inerenti alla materia concorrente del «governo del territorio», come costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 102 e n. 6 del 2013, n. 309 e n. 192 del 2011; n. 340 del 2009; nonché sentenze n. 196 del 2004 e n. 362 del 2003). Questa Corte ha già chiarito, in più pronunce, l’ampiezza e l’area di operatività dei “principi fondamentali” riservati alla legislazione statale nelle materie di potestà concorrente, affermando, tra l’altro, che «il rapporto tra normativa di principio e normativa di dettaglio […] deve essere inteso nel senso che l’una è volta a prescrivere criteri ed obiettivi, mentre all’altra spetta l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi» (sentenza n. 237 del 2009, nonché sentenze n. 200 del 2009, n. 336 e n. 50 del 2005). Né può ritenersi che la specificità delle prescrizioni di per sé possa escludere il carattere di principio di una norma, «qualora essa risulti legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione» (sentenze n. 237 del 2009 e n. 430 del 2007; nonché n. 211 e n. 139 del 2012, n. 182 del 2011, n. 326 del 2010 e n. 297 del 2009). Ne consegue che l’ambito materiale relativo al presente giudizio rientra nel «governo del territorio», ed è quindi oggetto di legislazione concorrente, nell’ambito della quale le Regioni debbono osservare i principî fondamentali ricavabili dalla legislazione statale.”;



  1. Che le disposizioni del regolamento regionale qui gravato incidono e/o interferiscono, a parere dello scrivente, con le disposizioni di principio contenute nel D.M. n. 1444/68;



  1. Che più volte i Supremi consessi amministrativo, civile e penale hanno statuito che le disposizioni del D.M. n. 1444/68 hanno efficacia di legge in quanto emanate in virtù di delega contenuta nell’art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii.



Recita a tal proposito il Consiglio di Stato, Sez. IV, con sentenza n. 354/2013:

“(…) Simmetricamente a tale approdo, la giurisprudenza di legittimità penale ha affermato di recente che “è illegittimo il permesso di costruire rilasciato per l'edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze minime tra gli edifici, previste dall'art. 9 del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze tra costruzioni, il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, comma 2, essendo stato emanato su delega della legge 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto dalla legge 6 agosto 1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica; (…)”.



Anche la Suprema Corte di Cassazione, sezioni unite civili, con sentenza n. 14953/2011 ha avuto modo di ribadire:

“(…) La giurisprudenza di legittimità … si è univocamente orientata, sulla scorta della sentenza delle sezioni unite 1° luglio 1997, n. 5889, nel senso che il decreto ministeriale, in quanto emanato su delega dell’art. 41-quinquies inserito nella legge 17 agosto 1942, n. 1150, dall’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765, ha efficacia di legge, …”.



Per non dire di quanto affermato dalla Corte Costituzionale, con propria sentenza n. 232/2005:

“(…) La disciplina delle distanze fra costruzioni ha la sua collocazione anzitutto nella sezione VI del Capo II del Titolo II del Libro III del codice civile, intitolata appunto “Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra fondi”. Tale disciplina, ed in particolare quella degli articoli 873 e 875 che viene qui in più specifico rilievo, attiene in via primaria e diretta ai rapporti tra proprietari di fondi finitimi. In caso di sua violazione, la tutela dei diritti su di essa fondati, assicurata davanti al giudice ordinario, può essere suscettibile di esecuzione in forma specifica. Non si può pertanto dubitare che la disciplina delle distanze, per quanto concerne i rapporti suindicati, rientri nella materia dell'ordinamento civile, di competenza legislativa esclusiva dello Stato.

Tuttavia, poiché i fabbricati insistono su di un territorio che può avere rispetto ad altri – per ragioni naturali e storiche – specifiche caratteristiche, la disciplina che li riguarda – ed in particolare quella dei loro rapporti nel territorio stesso – esorbita dai limiti propri dei rapporti interprivati e tocca anche interessi pubblici. Ed è per l'influenza che le peculiarità dei diversi insediamenti possono avere che lo stesso codice civile, ancor prima della Costituzione, ha attribuito rilievo ai regolamenti locali, in un'epoca in cui unica fonte di normativa primaria era lo Stato.

Una volta assegnate alle Regioni competenze normative primarie, il rilievo della connessione e delle interferenze tra interessi privati e interessi pubblici e della importanza delle caratteristiche locali in tema di distanze tra costruzioni ha trovato attuazione nel riparto di competenze legislative e nell'attribuzione alle Regioni, in sede di competenza concorrente, della materia del governo del territorio, comprensiva, come si è detto, dell'urbanistica e dell'edilizia.

Ma in quanto titolari di competenza concorrente e non residuale riguardo ad una materia che, relativamente alla disciplina delle distanze, interferisce con altra di spettanza esclusiva dello Stato, le Regioni devono esercitare le loro funzioni nel rispetto dei principi della legislazione statale.

Ora, in materia di distanze tra fabbricati, primo principio, fissato in epoca risalente ma ancora di recente ribadito, è che la distanza minima sia determinata con legge statale, mentre in sede locale, sempre ovviamente nei limiti della ragionevolezza, possono essere fissati limiti maggiori.

In secondo luogo, l'ordinamento statale consente deroghe alle distanze minime con normative locali, purché però siffatte deroghe siano previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio. Tali principi si ricavano dall'art. 873 cod. civ. e dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, emesso ai sensi dell'art. 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (introdotto dall'art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765), avente efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato.

I suindicati limiti alla possibilità di fissare distanze inferiori a quelle previste dalla normativa statale trovano la loro ragione nel rilievo che le deroghe, per essere legittime, devono attenere agli assetti urbanistici e quindi al governo del territorio e non ai rapporti tra vicini isolatamente considerati in funzione degli interessi privati dei proprietari dei fondi finitimi. (…)”.



  1. Che i tutti i Comuni del territorio nazionale sono obbligati, ai sensi dell’art. 41-quinquies, comma 8, della legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii., a rispettare le disposizioni del D.M. n. 1444/68 nella formazione o revisione degli strumenti urbanistici;



  1. Che nel caso in cui le disposizioni dell’emanato regolamento regionale contrastino con quelle contenute nel D.M. n. 1444/68 esse si risolvono in un obbligo-istigazione imposto dalla Regione ai Comuni affinché quest’ultimi vìolino la legge statale di principio (ai sensi dell’art. 10 delle preleggi sussiste l’obbligo di osservanza dei regolamenti);



  1. Che allo Stato competono, ai sensi dell’art. 9 del D.P.R. n. 8/1972, le funzioni di indirizzo e di coordinamento, che devono essere esercitate al fine di assicurare anche unitarietà e coordinamento all'attività di pianificazione urbanistica ai vari livelli di circoscrizione territoriale. Ne consegue che, in ogni caso, spetta allo Stato adottare atti che garantiscano l’uniformità di intervento sul territorio, anche ai fini di tutela paesaggistica, nonché pari trattamento dei Cittadini nel godimento dei diritti loro derivanti dal codice civile;



  1. Che l’art. 44 della legge n. 1150/1942 ha mantenuto in capo allo Stato il potere di emanare norme integrative e regolamenti di esecuzione della legge urbanistica fondamentale (disciplinante anche l’attività edilizia, così come previsto dall’art. 4 della L.U.N.). A tal proposito la Corte Costituzionale ha stabilito in più occasioni (ex multis: sentenza n. 272/2013) che non “… può ritenersi che la specificità delle prescrizioni di per sé possa escludere il carattere di principio di una norma, «qualora essa risulti legata al principio stesso da un evidente rapporto di coessenzialità e di necessaria integrazione» (sentenze n. 237 del 2009 e n. 430 del 2007; nonché n. 211 e n. 139 del 2012, n. 182 del 2011, n. 326 del 2010 e n. 297 del 2009).”. Ne consegue che nel caso in cui le disposizioni regionali qui gravate vengano riconosciute come norme integrative o di esecuzione della legge fondamentale urbanistica – come lo scrivente è dell’opinione che lo siano, alla pari, ad esempio, del D.M. n. 1444/68 – ecco che automaticamente la Regione Toscana non era competente ad intervenire.

***

Ciò posto, in ragione di tutto quanto sopra,

SI RITIENE

  1. Che le disposizioni del suddetto regolamento regionale abbiano forza di legge in quanto emanate su delega contenuta nell’art. 144 della L.R.T. n. 1/2005, e perciò impugnabili alla Corte Costituzionale mediante ricorso di legittimità in via principale;



  1. Che allorquando la norma di legge, impugnabile con ricorso in via principale di legittimità costituzionale, rimandi a disposizioni regolamentari aventi forza di legge (anch’esse impugnabili in via principale ex art. 134 Cost.) l’ambito, il contenuto concreto nonché la portata della norma stessa si completano/trasferiscono anche sul regolamento attuativo. Si invererebbe così la possibilità (anzi, potere-dovere) per il Presidente del Consiglio dei Ministri di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’unicum normativo costituito dalla norma di legge e dalle disposizioni regolamentari (art. 144 della L.R.T. n. 1/2005 e regolamento n. 64/R approvato con D.P.G.R. del 11/11/2013 nel caso di specie);



  1. Che diversamente opinando rispetto a quanto considerato al punto immediatamente precedente, al fine di eludere il giudizio di legittimità costituzionale – oppure rendere impossibile l’esercizio del potere-dovere d’impugnativa del Presidente del Consiglio dei Ministri – sarebbe sufficiente che le disposizioni di dettaglio, le quali in base alla Costituzione devono essere emanate con disposizione di legge da parte delle regioni nelle materie c.d. a competenza concorrente, fossero contenute in regolamenti attuativi;



  1. Che le disposizioni del D.M. n. 1444/68 siano ascrivibili anche alla materia dei livelli essenziali delle prestazioni ex art. 117, comma secondo, lettera m) in cui lo Stato ha la competenza esclusiva sia legislativa che regolamentare (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 644/2013 – in ordine ai meccanismi di attribuzione della capacità edificatoria del P.R.G. di Torino: “… Nel caso in esame, va rimarcato come il piano regolatore generale comunale di Torino non sia stato oggetto d’impugnazione e, conseguentemente, non è possibile nemmeno sindacare la compatibilità del sistema normativo sopra evidenziato con il nuovo quadro costituzionale (con particolare riferimento ai temi dell’art. 117 ed ai concetti di ordinamento civile, governo del territorio e livelli essenziali di prestazione). Ciò a proposito della circostanza che questi meccanismi di attribuzione, di fatto, trasferiscono sul livello minimo dell’organizzazione territoriale della Repubblica i poteri di determinazione in concreto della qualità della vita urbana, con possibilità di una non uniforme disciplina sul piano nazionale.”);



  1. Che talune disposizioni del suddetto decreto ministeriale, quali ad esempio quelle relative all’obbligo di determinazione dell’indice di densità territoriale per le zone omogenee B (v. art. 7 D.M. n. 1444/68), incidono anche nella materia dell’ordinamento civile in quanto costituenti la base normativa minima dell’istituto della perequazione urbanistico-edilizia e dell’attribuzione dei diritti edificatori (con la conseguente circolazione dei diritti stessi);



  1. Che la competenza legislativa concorrente si componga in primis di due competente legislative esclusive (allo Stato, i principi – alle Regioni, i dettagli) e la concorrenza è del solo Stato in quella di dettaglio fino a quando le Regioni non la esercitano nei limiti ad esse attribuiti dalla Costituzione;



  1. Che, in ogni caso, non spetta alle Regioni a statuto ordinario – come la Toscana – emanare regolamenti incidenti nella trasversale materia dei livelli essenziali delle prestazioni e nelle materie dell’ordinamento civile e del paesaggio;



  1. Che nel caso in cui venga ritenuto che il regolamento regionale de quo non abbia forza di legge in virtù della forma di emanazione, si ha comunque l’effetto della violazione delle competenze esclusive dello Stato ed in ragione della gravità del caso sarebbe finanche giustificabile la richiesta di sospensione ex art. 40 della legge 11 marzo 1953, n. 87.

***

SI RITIENE

altresì, quali motivazioni di contrasto del Regolamento regionale n. 64/R con la normativa nazionale:



  1. In ordine alla violazione del livello essenziale minimale della c.d. perequazione urbanistica.



Gli articoli 3, 6 e 7 del regolamento regionale n. 64/R qui gravato:

  1. prima definiscono la “superficie territoriale” limitandola a quella compresa solo entro il perimetro dei piani attuativi o degli interventi unitari subordinati alla stipula di convenzione (art. 3);

  2. poi definiscono, in relazione ad essa, la densità territoriale, che viene variamente indicata come “indice di fabbricabilità territoriale” (art. 6) e/o “indice di utilizzazione territoriale” (art. 7).

Il D.M. n. 1444/68, le cui disposizioni devono essere applicate dai Comuni nella formazione e/o revisione degli strumenti urbanistici (art. 1) ai sensi dell’art. 41-quinquies, comma 8, della legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii.:

  1. prima, all’art. 2, definisce le singole varietà delle zone territoriali omogenee, che per quanto concerne quelle di tipo B e C differiscono tra esse in relazione alla superficie coperta degli insediamenti, alla superficie fondiaria e all’indice di densità territoriale della zona;

  2. poi, all’art. 7, stabilisce l’obbligo di fissazione del limite di densità territoriale e fondiaria nelle zone B, oltre a non consentire il superamento della densità territoriale preesistente nelle zone A. Nelle zone C, invece, la densità della zona territoriale deriva dalla combinazione di più fattori.

Sulla funzione della definizione ex art. 2 del D.M. n. 1444/68 in zone territoriali omogenee così si pronuncia il Consiglio di Stato con la sentenza n. 7039/2010:

“(…) Né può essere condiviso il secondo dei mezzi costituenti il capo di impugnazione in esame perché è ragionevole ritenere che gli indici indicati dall’art. 2 del D.M. n. 1444 del 1968 non sono indici minimi di edificabilità, bensì indici di misurazione fisica dell’esistente cui la norma collega, se oggettivamente sussistenti, la possibilità di qualificare un’area come zona B.

In breve, la norma anzidetta prevede che una zona possa essere qualificata B, con connessa applicazione della disciplina prevista dalle altre norme del medesimo DM per gli standards da garantire necessariamente, per l’individuazione dell’indice di fabbricabilità introducibile, delle distanze e delle altezze ammissibili, soltanto se ha determinate caratteristiche fisiche costituite, appunto, dal rapporto di copertura degli edifici esistenti che deve essere pari al 12,5 % della superfice fondiaria di zona e dall’indice di densità territoriale che deve essere almeno pari a 1,5 mc/mq. (…)”.

Ebbene, mentre il concetto di superficie territoriale adoperato dal legislatore statale nel D.M. n. 1444/68 è essenzialmente volto alla individuazione delle zone territoriali omogenee (e, quindi, attiene al settore dell’urbanistica), invece la definizione formulata dal legislatore regionale è essenzialmente volta all’edificazione (e, quindi, attiene al settore dell’edilizia).

A causa della definizione di “superficie territoriale” operata nel regolamento regionale, si ha l’effetto (nel caso in cui il perimetro dei piani attuativi non coincida con l’intera zona territoriale omogenea) di escludere i proprietari delle aree ricomprese nell’intere zone A e B (di cui l’ambito dei piani attuativi o degli interventi unitari ne fanno parte) dal ricevere i benefici minimi ex lege (perequazione urbanistica) previsti dall’art. 7 del D.M. n. 1444/68 e derivanti dall’attribuzione della capacità edificatoria ai soggetti proprietari degli immobili ricompresi nel perimetro dei piani attuativi o degli interventi unitari.

Considerando che in base ai principi essenziali formulati nella L.R.T. n. 1/2005, che sono funzionali alla declinazione del c.d. sviluppo sostenibile, sarà ben difficile – se non impossibile, in ragione anche delle giuste e condivisibili limitazioni all’uso di suolo vergine che a livello nazionale il Governo ha già manifestato l’intenzione di tradurre in legge – che vi siano espansioni dei centri urbani in suoli precedentemente non occupati da edifici o da opere di urbanizzazione o trasformazione in genere, ecco che le disposizioni regionali qui censurate si traducono nell’introduzione – in manifesta violazione degli artt. 1, 2 e 7 del D.M. n. 1444/68 – di una surrettizia riserva di edificabilità ad esclusivo vantaggio patrimoniale di coloro i quali sono proprietari – o diventino, anche mediante prossimi acquisti di complessi industriali da soggetti in difficoltà economiche o in via di fallimento o già falliti per la grave situazione generale che stiamo attraversando – delle aree urbane da valorizzare o riconvertire che indubbiamente possiedono le caratteristiche di zone territoriali omogenee di tipo A e/o B (ad esempio: insediamenti industriali dismessi, aree dismesse delle Ferrovie dello Stato, aree demaniali o appartenenti ad enti pubblici, aree di proprietà di gruppi assicurativi e/o bancari ecc.).

Seppur sia vero che sarebbe sufficiente che il Comune facesse coincidere la perimetrazione del piano attuativo con l’intera zona territoriale, potrà mai l’amministratore locale, che lo volesse, resistere alle varie pressioni volte ad escludere dalla ripartizione dei benefici edificatori gli altri proprietari delle aree interne alle zone A e/o B?

Quand’anche la Regione Toscana tornasse ad approvare gli strumenti urbanistici generali comunali – come è obbligo specifico, ripetutamente richiamato dalla Corte Costituzionale, disatteso da quasi vent’anni e mai, colpevolmente, fino ad oggi rilevato né dai Magistrati, né dagli Organi del Governo – la scelta dell’ente locale di escludere talune parti territoriali delle zone A e/o B dalla perimetrazione dei piani attuativi non le sarebbe facilmente contestabile e, se lo facesse, la decisione sarebbe foriera di un contenzioso che, è facile antivedere, la vedrebbe soccombente.

Ecco spiegati i motivi per cui le disposizioni regolamentari qui gravate non solo sono illegittime perché contrastanti con quelle del D.M. n. 1444/68 che riconoscono implicitamente il diritto di tutti i proprietari delle aree comprese nelle zone A e/o B di godere (anche a titolo di risarcimento del danno) degli altrui vantaggi derivanti dall’attribuzione della capacità edificatoria, ma sono pure pericolose sotto il profilo dell’ordine pubblico giacché espongono gli amministratori locali – in costanza del rifiuto regionale all’approvazione degli strumenti urbanistici generali – alle pressioni di soggetti mossi da interessi tutt’altro che generali o pubblici e che possono, quest’ultimi, anche essere i veicolatori di proventi di attività illecite.

Il beneficio perequativo ex art. 7 del D.M. n. 1444/68 costituisce indubbiamente un livello essenziale minimale prestazionale che la Regione è tenuta ad assicurare in forza del principio fondamentale desumibile dall’art. 10 della legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii.

Invero, all’interno delle zone A e/o B (così come definite ed individuabili secondo i criteri stabiliti all’art. 2 del D.M. n. 1444/68) vi possono essere terreni che, nella logica del necessario mantenimento di spazi liberi per garantire la salubrità, la vivibilità, la naturalità e le caratteristiche paesaggistiche dei centri abitati, ben possono essere conformati dal P.R.G. a verde privato od altre destinazioni d’uso che vietino l’atterraggio di diritti edificatori comunque generati (anche dai medesimi terreni vincolati) in forza dell’art. 7 del D.M. suddetto.

Del resto che la perequazione urbanistica richieda l’espressione di un indice di densità territoriale da determinarsi secondo i vincoli derivanti dalle leggi in vigore lo stabilisce pure il TAR Toscana con la sentenza n. 123/2011. E tra i suddetti vincoli non possono non annoverarsi quelli scaturenti dalla corretta applicazione degli articoli 1, 2 e 7 del D.M. n. 1444/68 e, prima ancora, dell’art. 7 della legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii. (che indica il contenuto essenziale del P.R.G.).

Infine si evidenzia che la perequazione intra-comparto non può obliterare la perequazione intra-zonale.

In ragione di quanto sopra espresso in tutte le parti ove si utilizza il termine “RITIENE o RITENUTO”, si è dell’avviso che le disposizioni degli artt. 3, 6 e 7 del regolamento n. 64/R emanato con D.P.G.R. 11/11/2013 siano in contrasto con:

    1. gli articoli 1, 2, 3, 5, 41, 42, 44, 97, 117, secondo comma, lettere l-m), terzo comma e sesto comma della Costituzione;

    2. gli artt. 1, 4, 7, 10, 13, 28, 41-quinquies e 44 della legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii., quali norme interposte;

    3. l’art. 9 del D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8, quale norma interposta;

    4. gli artt. 1, 2 e 7 del D.M. n. 1444/68, quali norme interposte;

    5. gli artt. 1, 2 e 4 del D.P.R. n. 380/2001, quali norme interposte.

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  1. In ordine allo SCARDINAMENTO ASSOLUTO del principio di pianificazione urbanistica ex art. 4 della legge n. 1150/1942 e dei principi ad esso correlati. – In ordine all’incidenza delle disposizioni regolamentari regionali su quelle degli artt. 872 e 873 del Codice Civile. – In ordine alla creazione dei presupposti per una sanatoria edilizia straordinaria sine die. – In ordine ad un’ulteriore violazione del principio di perequazione urbanistica.

Il combinato disposto degli articoli 3, 4, 15 e 16 del regolamento regionale n. 64/R qui gravato SCARDINANO ASSOLUTAMENTE il principio di pianificazione urbanistica ex art. 4 della legge n. 1150/1942 per i seguenti motivi.

Si premette che l’art. 2 del D.M. n. 1444/68 adopera il “rapporto di copertura” quale termine necessario per la qualificazione delle zone territoriali omogenee, da cui, conseguentemente (e come riconosciuto dal Consiglio di Stato con la citata sentenza n. 7039/2010) derivano i limiti edilizi di densità, altezza e distanza.

L’articolo 16 “definisce “rapporto di copertura” (Rc) la proporzione, espressa in percentuale, tra la superficie coperta (Sc) massima ammissibile e la superficie fondiaria (Sf).”.

L’art. 15 defalca dalla “superficie coperta (Sc)” degli edifici tutta una serie di parti di costruzioni che, icto oculi, non sono sottraibili perché anch’essa concorrono a coprire il territorio.

L’art. 4 stabilisce che “La superficie fondiaria (Sf) è costituita dalla parte residua della superficie territoriale (St), una volta detratte le superfici per attrezzature e spazi pubblici (Sap) di cui all’articolo 5.”.

Considerato, come visto sopra al precedente punto 1) – relativo alla violazione del livello essenziale di perequazione urbanistica – che la “superficie territoriale” è solamente quella compresa entro il perimetro di piani attuativi o di interventi unitari subordinati alla stipula di convenzione, ne consegue che la parte di territorio che non viene ricompresa nella “superficie territoriale” non costituisce “superficie fondiaria” e, di conseguenza, non determinando alcun rapporto di copertura viene automaticamente esclusa dalle zone territoriali omogenee A, B e C ex D.M. n. 1444/68!

Per l’effetto, ed in violazione degli artt. 1 e 2 del D.M. n. 1444/68, dall’applicazione del regolamento regionale scaturirà che le zone territoriali omogenee A, B e C saranno ESCLUSIVAMENTE quelle comprese entro il perimetro di piani attuativi o di intervento unitario sottoposti a convenzionamento, non rilevando così, assolutamente, l’edificazione pregressa.

Le conseguenze dell’applicazione del regolamento regionale sarebbero aberranti anche perché incidono sulle disposizioni degli artt. 872 e 873 del Codice Civile, la cui competenza legislativa e regolamentare è esclusivamente dello Stato.

Invero, l’impossibilità di qualificare come zone territoriali omogenee ex D.M. n. 1444/68 le parti del territorio esterne al perimetro dei piani attuativi o delle aree di intervento unitario porta seco l’altrettanta impossibilità di applicazione dei limiti edilizi contenuti negli artt. 7, 8 e 9 del D.M. stesso.

Si rammenta che per costante giurisprudenza dei Supremi consessi amministrativo, civile e penale le disposizioni dell’art. 9 del D.M. n. 1444/68 sono integrative del Codice Civile e devono applicarsi direttamente – costituisce, all’uopo, anche un dovere a cui il Giudice non si può sotrarre – anche nel caso in cui le norme regolamentari locali sono con esse in contrasto. Parimenti sono integrative del codice civile le disposizioni dell’art. 8 del D.M. che limitano l’altezza degli edifici in funzione della distanza tra essi intercorrenti.

A precisazione di quanto sopra si fa presente che l’impossibilità di qualificare con una zonizzazione territoriale omogenea ex D.M. n. 1444/68 le parti di territorio esterne al perimetro dei piani attuativi porta seco la caducazione dell’obbligo del rispetto delle distanze tra fabbricati anche nei casi in cui gli stessi si trovino uno all’interno e l’altro all’esterno del piano attuativo (e ciò perché il limite astrattamente operante solo per quello che si trova all’interno viene automaticamente ad essere derogato dal fatto di essere incluso in un piano attuativo, mentre quello esterno non avrebbe tutela).

Arriveremmo così, stante anche l’abrogazione espressa dei primi cinque commi dell’art. 41-quinquies della legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii. ad opera del D.P.R. n. 380/2001, alla sola applicazione dell’art. 873 del Codice Civile, con buona pace della salubrità, dell’igiene e della sicurezza degli abitati (e, quindi, della salute degli abitanti).

Infine, non essendovi più alcuna violazione sostanziale delle norme edilizie regolamentari per effetto dell’inesistenza della zonizzazione ex D.M. n. 1444/68 viene eliminata alla radice la possibilità di richiesta del danno ex art. 872 c.c.

Si può affermare, in ragione di quanto sopra, che l’applicazione del regolamento regionale equivale, nella sostanza, a gettare i comuni in condizioni di assenza di strumenti urbanistici e, per l’effetto, i prefetti devono relazionare il Ministro competente affinché si determini nello scioglimento dei consigli comunali per assenza di ordine pubblico?

Inoltre si consideri che poiché la violazione della distanza inderogabile tra fabbricati ex art. 9 del D.M. n. 1444/68 – allo stato delle attuale legislazione – non era condonabile ex art. 33 della legge n. 47/1985, né sanabile ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, né usucapibile (perché non può, il privato, disporre della norma formulata nell’esclusivo interesse pubblico, tantomeno, quindi, può incidere sulla prescrizione dell’azione), ecco che la sparizione delle zone territoriali omogenee ex art. 2 del D.M. n. 1444/68 per effetto del combinato disposto degli articoli regolamentari qui gravati getta i presupposti per un condono edilizio straordinario, peraltro sine die, che si concretizza con la sola approvazione comunali dei propri prossimi strumenti urbanistici o con il loro automatico adeguamento (senza alcun atto amministrativo regionale) ai sensi dell’art. 32 del regolamento de quo.

Non per ultimo, l’impossibilità di qualificare la stragrande maggioranza del territorio edificato come zone territoriali omogenee ai sensi e per gli effetti del D.M. n. 1444/68 porta seco la recisione dell’intimo legame tra abitanti insediati e le dotazioni di servizi ex art. 3 del D.M. che sono formulate, ai sensi del successivo art. 4 del decreto, in correlazione con la zonizzazione. In definitiva, lo sfruttamento edificatorio della proprietà privata ricompresa nel perimetro dei piani attuativi o delle aree di intervento unitario viene resa completamente avulsa dalle necessarie ricadute sociali in termini di benefici per i soggetti esterni ad essi. E ciò in manifesta violazione della funzione sociale che viene attribuita alla proprietà privata ai sensi dell’art. 42 della Costituzione.

La caducazione dell’obbligo di dimostrare la dotazione di standards nelle zone territoriali omogenee ex D.M. n. 1444/68 in ragione degli abitanti ivi insediati o insediabili porta seco anche la caducazione dell’obbligo di effettuare l’anagrafe edilizia quale atto conoscitivo obbligatorio ai fini del dimensionamento dello strumento urbanistico generale (cfr. Consiglio di Stato, adunanza plenaria, n. 3/2009: “… La densità territoriale, in particolare, è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare sulla stessa, con la conseguenza che il relativo indice è rapportato sia all’intera superficie sottoposta alla medesima vocazione urbanistica sia alla concreta insistenza di costruzioni. Perché il computo rispecchi la realtà effettuale non rileva certo la sussistenza o meno del prescritto titolo autorizzatorio o abilitativo all’intervento edilizio, ma la reale situazione dei luoghi con il carico di edificazione in concreto accertato. Non può d’altronde dubitarsi che qualsiasi costruzione, anche se eretta senza il prescritto titolo, concorra al computo complessivo della densità territoriale (C.d.S., IV, 26 settembre 2008, n. 4647; IV, 29 luglio 2008, n. 3766; IV, 12 maggio 2008, n. 2177; IV, 11 dicembre 2007, n. 6346; V, 27 giugno 2006, n. 4117; V, 12 luglio 2005, n. 3777: V, 12 luglio 2004, n. 5039; IV, 6 settembre 1999, n. 1402).”).

Poiché la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 5/1980, ha statuito che:

  1. “… il diritto di edificare continua ad inerire alla proprietà e alle altre situazioni che comprendono la legittimazione a costruire anche se di esso sono stati tuttavia compressi e limitati portata e contenuto, nel senso che l'avente diritto può solo costruire entro limiti, anche temporali, stabiliti dagli strumenti urbanistici. (…)”;

  2. “… Ne consegue altresì che la concessione a edificare non è attributiva di diritti nuovi ma presuppone facoltà preesistenti, sicché sotto questo profilo non adempie a funzione sostanzialmente diversa da quella dell'antica licenza, avendo lo scopo di accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall'ordinamento per l'esercizio del diritto, nei limiti in cui il sistema normativo ne riconosce e tutela la sussistenza.”;

e poiché l’art. 7 del D.M. n. 1444/68 stabilisce che nelle zone A e B i Comuni devono fissare il limite di densità territoriale secondo la zonizzazione ex art. 2 del d.m. stesso,

ecco che la legge dello Stato attraverso la zonizzazione territoriale del D.M. – e nella specie nelle zone A e B – ha creato condizioni tali di edificazione, e di legittimazione a costruire, che regolano (in perfetta attuazione dell’art. 42 della Costituzione) le previsioni di realizzabilità su suoli privati di volumetrie edificatorie eccedenti quella ordinariamente generata dal fondo stesso.

In base alla legge statale, infatti, la quantità di volumetria eccedente l’indice di densità territoriale può essere realizzata dal proprietario dell’area fondiaria solamente se questi riconosca, all’intera collettività dei proprietari dei terreni nella zona territoriale omogenea A e/o B di riferimento, il valore dei loro rispettivi diritti edificatori decollati ed atterrati (in base all’indice di densità fondiaria) nel terreno prescelto. E ne disponga il versamento del corrispettivo in loro favore (se del caso attraverso l’attività di mediazione dell’ente locale).

Stante quanto sopra esposto, attraverso le norme regolamentari censurate la Regione Toscana, operando come un Robin Hood al rovescio, ha gettato le basi affinché i Comuni sottraggano i diritti edificatori – che intendono attribuire con le previsioni ad hoc – a taluni privati legittimi proprietari al fine di assegnarli a favore di soggetti baciati in fronte dalla fortuna generata dalla penna dell’urbanista.



In ragione di quanto sopra espresso in tutte le parti ove si utilizza il termine “RITIENE o RITENUTO”, si è dell’avviso che le disposizioni degli artt. 3, 4, 15 e 16 del regolamento n. 64/R emanato con D.P.G.R. 11/11/2013 siano in contrasto con:

    1. gli articoli 1, 2, 3, 5, 32, 41, 42, 44, 97, 117, secondo comma, lettere l-m), terzo comma e sesto comma della Costituzione;

    2. gli artt. 1, 4, 7, 10, 13, 28, 41-quinquies e 44 della legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii., quali norme interposte;

    3. l’art. 9 del D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8, quale norma interposta;

    4. gli artt. 1, 2, 3, 4, 6, 7, 8 e 9 del D.M. n. 1444/68, quali norme interposte;

    5. gli artt. 1, 2 e 4 del D.P.R. n. 380/2001, quali norme interposte.

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  1. In ordine alla violazione delle competenze statali esclusive in materia di paesaggio.

Le disposizioni contenute negli articoli 15 (superficie coperta), 18 (altezza massima) e 22 (volume lordo) del regolamento de quo – nonché tutte quelle contenute nelle definizioni dell’Allegato, strumentali a quelle dell’articolato – violano, in tutta evidenza, la riserva di legge e regolamentare statale in materia di paesaggio, in quanto creano definizioni, non preventivamente concordate con il MIBAC, che possono portare ad una applicazione differente tra regioni e regioni delle disposizioni in tema di paesaggio.

L’incidenza ed interferenza delle norme della materia del governo del territorio con quelle del paesaggio erano state già rilevate dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 309/2011:

“… La linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi, d’altronde, non può non essere dettata in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la cui «morfologia» identifica il paesaggio, considerato questo come «la rappresentazione materiale e visibile della Patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli» (Relazione illustrativa della legge 11 giugno 1922, n. 778 «Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico», Atti parlamentari, Legislatura XXV, Senato del Regno, Tornata del 25 settembre 1920).

Sul territorio, infatti, «vengono a trovarsi di fronte» – tra gli altri – «due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni» (sentenza n. 367 del 2007, punto 7.1 del Considerato in diritto). Fermo restando che la tutela del paesaggio e quella del territorio sono necessariamente distinte, rientra nella competenza legislativa statale stabilire la linea di distinzione tra le ipotesi di nuova costruzione e quelle degli altri interventi edilizi. Se il legislatore regionale potesse definire a propria discrezione tale linea, la conseguente difformità normativa che si avrebbe tra le varie Regioni produrrebbe rilevanti ricadute sul «paesaggio […] della Nazione» (art. 9 Cost.), inteso come «aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, che è di per sé un valore costituzionale» (sentenza n. 367 del 2007), e sulla sua tutela.”.

Non vi è chi non veda che almeno la definizione dei parametri edilizi di superficie coperta, di altezza e di volume dell’edificio debbano essere necessariamente di competenza esclusiva statale, in quanto è anche in relazione ad essi che vengono utilizzate le categorie di intervento edilizio ex art. 3 del D.P.R. n. 380/2001 ed applicate le relative sanzioni. E di ciò ne è consapevole la Regione Toscana, atteso che l’art. 1, comma 2, del regolamento stabilisce che “Le definizioni tecniche di riferimento per gli interventi urbanistico-edilizi e le definizioni di elementi costitutivi o di corredo delle costruzioni sono contenute nell’allegato A.”.

Senza contare che i commi 4 e 5 dell’art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004 e ss.mm.ii. si richiamano – ai fini dell’accertamento della compatibilità paesaggistica e della sanabilità – a concetti di superficie utile e di volume.

In ragione di quanto immediatamente sopra espresso si ritiene che tali disposizioni degli artt. 15, 18 e 22 del regolamento n. 64/R emanato con D.P.G.R. 11/11/2013, e le definizioni tecniche di cui al relativo allegato A, confezionate al fine di formare atti amministrativi comunali che devono essere anche adeguati ai piani paesaggistici, siano in contrasto con:

    1. gli articoli 9, 97, 117, secondo comma, lettera s), e sesto comma della Costituzione;

    2. gli artt. 143, 146 e 167 del D.Lgs. n. 42/2004 e ss.mm.ii., quali norme interposte;

    3. l’art. 9 del D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8, quale norma interposta;

    4. gli artt. 1, 2 e 3 del D.P.R. n. 380/2001, quali norme interposte.

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  1. In ordine alla violazione dei principi fondamentali ex artt. 10 e 36 della legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii. – Violazione del principio fondamentale ex art. 24 della legge n. 47/1985.

Come già ampiamente sopra dedotto, le Regioni debbono osservare i principi fondamentali della legge statale nella materia del governo del territorio.

In ragione di ciò è palesemente in contrasto con gli artt. 10 e 36 della legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii. la disposizione contenuta nell’art. 32, comma 2, del regolamento regionale de quo laddove prevede che siano i Comuni – in luogo della Regione stessa, compito trasferitole dallo Stato a mezzo dell’art. 1, comma 2, del D.P.R. n. 8/1972 – a verificare la necessità di adeguare i propri strumenti di pianificazione territoriale ed atti di governo del territorio ai parametri e alle definizioni contenute nel regolamento.

Così si è espressa la Corte Costituzionale nella sentenza n. 26/1996:

“… Preliminare - nell'esame di questa censura - è il riferimento ai principi fondamentali della legislazione urbanistica in materia, in particolare all'art. 10, secondo comma, della legge 17 agosto 1942, n. 1150, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 3 della legge 6 agosto 1967, n. 765, il quale prevede diverse categorie di modifiche d'ufficio (in sede di approvazione) al piano regolatore.

Esse, tuttavia, sono ammesse a condizione che rispettino un limite ben preciso: si tratti cioè di modifiche che non comportino sostanziali innovazioni, ovvero che non mutino le caratteristiche essenziali del piano ed i criteri di impostazione dello stesso. A ben vedere si tratta di un limite strutturale che è comune ad ogni tipo di modifiche d'ufficio nell'ambito di atto complesso, soprattutto in sede di pianificazione urbanistica caratterizzata dalla duplice competenza comunale (di iniziativa e adozione) e regionale (di esame, di valutazione e verifica della coerenza degli strumenti urbanistici e l'assetto degli interessi coinvolti). In caso di mancanza delle condizioni per le modifiche di ufficio la regione ha solo il potere di non approvare il piano e di restituirlo al comune ovvero di approvarlo in parte con stralcio e restituzione per le eventuali iniziative del comune.

Di conseguenza la legge regionale censurata deve essere interpretata e coordinata con i principi fondamentali della legge statale vigente in materia di formazione e approvazione di strumenti urbanistici (art. 10, comma secondo, della legge n. 1150 del 1942, nel testo vigente citato).”.

Ma si pone altresì in contrasto quella contenuta nel successivo comma 4, atteso che la sostituzione automatica ivi contemplata finisce per modificare lo strumento urbanistico senza il decreto di approvazione del Presidente della giunta regionale prescritto dal combinato disposto degli artt. 10 e 36 della legge n. 10/1942 e ss.mm.ii. e dell’art. 1, secondo comma, lettere d-h) del D.P.R. n. 380/2001. Senza contare che la sostituzione automatica delle definizioni comporta un quid novi ai piani attuativi conformi allo strumento urbanistico generale, senza che i piani stessi siano inviati alla Regioni così come prescritto dall’art. 24 della legge n. 47/1985.

In ragione di quanto immediatamente sopra espresso si ritiene che le disposizioni dell’art. 32, commi 2 e 4, del regolamento n. 64/R emanato con D.P.G.R. 11/11/2013, sia in contrasto con:

    1. gli articoli 97, 117, terzo comma della Costituzione;

    2. l’art. 9 del D.P.R. 15 gennaio 1972, n. 8, quale norma interposta;

    3. gli artt. 10, 36 e 44 della legge n. 1150/1942 e ss.mm.ii., quali norme interposte;

    4. l’art. 24 della legge n. 47/1985, quale norma interposta.

*** *** ***

In ultimo si evidenzia l’inconferenza assoluta delle disposizioni dell’art. 2-bis del D.P.R. n. 380/2001 per i seguenti motivi:

  1. si riferiscono testualmente alla distanza tra fabbricati;

  2. la deroga, per essere tale, non può costituire un annullamento del principio fondamentale, che verrebbe qui ottenuto dalla Regione attraverso la sparizione della suddivisione del territorio in zone territoriali omogenee ex art. 2 D.M. n. 1444/68 per effetto delle disposizioni sopra censurate;

  3. la deroga non può estendersi, tantomeno incidere, al reperimento intrazonale degli standards urbanistici, né ai limiti di densità e di altezza.

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