Cass. Sez. III n. 34899 del 17 settembre 2007 (Ud 6 giu. 2007)
Pres. Papa Est. Franco Ric. Ghisolfi ed altri
Acque. Scarichi di sostanze cancerogene

Nella vigente disciplina affinché una sostanza rientri tra quelle indicate nel n. 18 della tabella 5 dell' allegato 5 alla parte terza del d.ls. 3 aprile 2006, n. 152, occorre che la sostanza sia classificata contemporaneamente come cancerogena (nel senso che può provocare il cancro) e come altamente tossica per gli organismi acquatici ed idonea a provocare a lungo termine effetti negativi per l'ambiente acquatico. (La sentenza analizza anche la previgente disciplina evidenziando le differenze con quella attualmente in vigore)

Svolgimento del processo

1. Ghisolfi.. Vittorio, Ghisolfi Marco, Colombo Roberto, Bellingeri Gianfranco, Brombini Fulvio, Bolcheni Giovanni, oltre a Grilli Renato, Lagostina Paola, Dolcetta Giorgio, Ghisolfi Guido, vennero rinviati a giudizio dinanzi al tribunale di Verbania per rispondere, quali amministratori o direttori responsabili della spa Acetati, delle accuse che possono così sinteticamente riassumersi: capo a): reato di cui agli artt. 81, 110, cod. pen., art. 59, comma 1, d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, per avere effettuato o mantenuto uno scarico di acque reflue industriali, mediante l'utilizzo di un canale recapitante nel torrente San Bernardino, in difetto della autorizzazione amministrativa, avendo utilizzato pressoché continuatamente, a causa del cattivo funzionamento dovuto ad errori di progettazione dello scarico ordinario e della sua cattiva manutenzione, il canale in questione autorizzato solo per gli scarichi di emergenza;

capo b): reato di cui all'art. 59, comma 5, d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, per avere superato i valori limite normativamente fissati per la formaldeide, in entrambi gli scarichi, recapitanti nel torrente San Bernardino e nel Lago Maggiore;

capo d): reato di cui all'art. 59, comma 1, d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, per avere scaricato i reflui industriali della spa Acetati nel lago Maggiore in difetto di autorizzazione, dovendo quella rilasciata il 29 agosto 1996 essere ritenuta illegittima e quindi disapplicata, perché ottenuta sottacendo che detti reflui erano oggetto di diluizione e in violazione di legge;

capi c) ed f): reato di cui all'art. 674 cod. pen., per avere tenuto una condotta atta a molestare e a offendere le persone, mediante lo sversamento di reflui industriali contenenti COD, ammoniaca e formaldeide, in via continuativa nel lago Maggiore e nel torrente San Bernardino, per il tramite degli scarichi di cui sopra.

2. Con sentenza del 10 marzo 2004 il giudice del tribunale di Verbania dichiarò Ghisolfi Vittorio, Ghisolfi Marco, Colombo Roberto, Bellingeri Gianfranco, Brombini Fulvio, Bolcheni Giovanni colpevoli dei reati loro ascritti ad esclusione del reato di cui al capo C) in ordine al quale assolse tutti gli imputati perché il fatto non sussiste, e li condannò alla pena ritenuta di giustizia oltre al risarcimento dei danni in favore della parti civili ministero dell'ambiente, provincia del V.C.O., e circolo verbano di Legambiente, concedendo alle stesse una provvisionale. Assolse Grilli Renato, Lagostina Paola, Dolcetta Giorgio, Ghisolfi Guido dai reati rispettivamente ascritti per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste.

Respinse le domande di risarcimento del danno proposte da tutte le altre parti civili, e precisamente comune di Castelletto Sopra Ticino, comune di Griffa, comune di Laveno Mombello, comune di Stresa, provincia di Novara, comune di Arona, comune di Dormelletto, comune di Melina, comune di Verbania, comune di Baveno, commissario italiano per la Convenzione italosvizzera sulla pesca, Movimento Azzurro, Ente di gestione dei parchi e delle riserve naturali del lago Maggiore, Legambiente Piemonte, associazione Italia Nostra.

In estrema sintesi il giudice osservò:

- che con l'autorizzazione provinciale 389/96 del 29 agosto 1996 (ed ancor prima con quella comunale del 27 luglio 1992) la spa Acetati era stata autorizzata a scaricare le sue acque reflue industriali nel lago Maggiore, attraverso una condotta consortile di scarico di depurazione, nonché nel torrente San Bernardino in caso di emergenza, nel rispetto di alcune prescrizioni;

- che peraltro lo scarico nel torrente San Bernardino di fatto avveniva non solo in caso di emergenza ma con grande frequenza ed in modo continuativo quanto meno a partire dall'inverno 1996/97, e ciò a causa del cattivo funzionamento dello scarico ordinario attraverso la condotta consortile, dovuto ad errori di progettazione dello scarico stesso ed alla sua cattiva manutenzione;

- che doveva quindi ritenersi che la autorizzazione del 29 agosto 1996 era stata ottenuta mediante una falsa prospettazione della realtà, e cioè che lo scarico nel torrente San Bernardino fosse destinato ad entrare in funzione solo in casi di emergenza e di eventi eccezionali ed imprevedibili, mentre la Acetati era consapevole che esso sarebbe stato destinato ad essere utilizzato quasi in via ordinaria stante l'insufficienza della condotta consortile e dello scarico nel lago;

- che da ciò derivava la illegittimità della detta autorizzazione del 29 agosto 1996 nella parte in cui autorizzava la Acetati a scaricare nel torrente San Bemardino in emergenza, con la conseguenza che la autorizzazione stessa andava disapplicata e doveva quindi ritenersi sussistente per gli scarichi nel torrente il reato di cui al capo A);

- che sussisteva il reato di cui al capo B) in quanto erano stati superati i valori limite fissati per la formaldeide in entrambi gli scarichi dal gennaio 1998 in poi, mentre erano infondati gli assunti difensivi secondo cui: a) non esisteva un fenomeno di diluizione con acque prelevate esclusivamente allo scopo, unica condotta asseritamente sanzionata dal legislatore, ed in ogni caso si trattava di acque aventi natura tecnologica o di processo e non di acque di raffreddamento; b) la formaldeide non rientrava tra le sostanze di cui alla tab. 5 dell'all. 5 del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152;

- che invero il divieto di diluizione andava interpretato come di carattere generale ed assoluto, mentre la categoria delle acque di processo andava individuata restrittivamente, escludendo dalle stesse quelle finalizzate ad altri scopi, come raffreddamento e lavaggio;

- che perciò nella specie doveva escludersi che le acque c.d. tecnologiche, o di attemperamento, rientrassero tra quelle di processo, per il motivo che non venivano direttamente impiegate per la produzione della anidride acetica, ma vi partecipavano in modo complementare, essendo finalizzate a raffreddare o riscaldare le sostanze chimiche utilizzate per ottenere il prodotto finale;

- che la formaldeide doveva farsi rientrare tra le sostanze di cui al n. 18 della tab. 5 dell'all. 5, e cioè fra quelle di cui secondo le indicazioni dell'agenzia internazionale di ricerca sul cancro (IRCA) è provato il potere cancerogeno, essendo irrilevante che il potere cancerogeno fosse stato provato esclusivamente per gli animali e non anche per gli uomini;

- che la autorizzazione del 29 agosto 1996 doveva ritenersi illegittima anche nella parte relativa allo scarico nel lago Maggiore attraverso la condotta consortile, e ciò perché essa era stata ottenuta sottacendo che i reflui industriali erano oggetto di diluizione in violazione del divieto di cui all'art. 9 legge 319/76; ne conseguiva che anche in questa parte relativa allo scarico nel lago il provvedimento di autorizzazione doveva essere disapplicato ed era quindi ravvisabile il reato di cui al capo D);

- che sussisteva anche il reato (capo F) di cui all'art. 674 cod. pen. relativamente alle immissioni di formaldeide, COD e azoto ammoniacale nel torrente San Bernardino, che avevano provocato alterazione delle acque rendendole tossiche, mentre il reato (capo C) andava escluso per le immissioni nel lago Maggiore in mancanza di prova di effetti tossici o di fenomeni molesti o di altra natura in danno delle collettività.

3. La corte d’appello di Torino, con sentenza del 1° dicembre 2005, per quanto qui ora più interessa:

- respinse nuovamente le richieste di oblazione;

- assolse tutti gli imputati dal reato di cui al capo F) (art. 674 cod. pen. relativamente alle immissioni nel torrente San Bernardino) perché il fatto non sussiste; dichiarò non doversi procedere nei confronti di Ghisolfi Vittorio, Ghisolfi Marco e Bolcheni Giovanni in ordine ai restanti reati loro ascritti ai capi A), B), e D), perché estinti per prescrizione;

- confermò la condanna di Bellingeri Gianfranco, Brombini Fulvio e Colombo Roberto per i reati di cui ai capi A), B) e D), rideterminando le pene loro rispettivamente inflitte; per quanto concerne le statuizioni civili, riconobbe il diritto ad ottenere il risarcimento per il danno ambientale oltre al ministero dell'ambiente, anche agli enti territoriali, e cioè alla provincia di Novara, alla provincia di V.C.O., ai comuni di Baveno, Belgirate, Ghiffa, Laveno Mombello e Verbania, nonché al Commissariato italiano per la convenzione italosvizzera sulla pesca, ed inoltre riconobbe alle medesime parti civili, esclusa la provincia del V.C.O., anche il diritto al risarcimento del danno da lesione dei diritti di personalità;

- condannò quindi Ghisolfi Vittorio, Ghisolfi Marco, Colombo Roberto, Bellingeri Gianfranco, Brombini Fulvio, Bolcheni Giovanni, in via solidale tra loro, al risarcimento dei danni ambientali alla provincia del V.C.O. ed al risarcimento del danno ambientale e del danno da lesione ai diritti della personalità alle suddette parti civili, rimettendole davanti al giudice civile per la liquidazione definitiva dei danni;

- condannò inoltre i medesimi imputati al pagamento, in solido tra loro, di provvisionali immediatamente esecutive liquidate in € 500.000,00 in favore del ministero dell'ambiente, in € 100.000,00 per danno ambientale (oltre a quella di € 150.000,00 già riconosciuta in primo grado per danno ai diritti di personalità) in favore della provincia del V.C.O., di € 50.000,00 in favore della provincia di Novara, di € 40.000,00 ciascuno in favore dei comuni di Baveno, di Belgirate, di Ghiffa, di Laveno Mombello; di € 150.000,00 in favore dei comune di Verbania, di € 30.000,00 in favore della associazione ambientalista commissariato italiano per la convenzione italo­svizzera sulla pesca;

- confermò nel resto le statuizioni civili della sentenza di primo grado, ivi compresa la condanna al risarcimento del danno e ad una provvisionale di € 50.000,00 a favore del Circolo verbano di Legambiente;

- condannò infine i medesimi imputati in solido alla refusione delle spese processuali in favore delle suddette parti civili.

4.1. Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione Ghisolfi Vittorio, Bolcheni Giovanni e Ghisolfi Mario, relativamente alle statuizioni civili in essa contenute, facendo propri i motivi di merito degli altri ricorrenti e deducendo:

1) erronea applicazione della legge penale con riferimento al reato di cui all'art. art. 59, comma 5, d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152. Osservano che con riferimento a questa disposizione, ed alla sua integrazione contenuta nella allegata tabella 5 n. 18, avevano sostenuto: a) che la cancerogenicità di una sostanza deve essere provata e non può essere solo probabile; b) che il riferimento va fatto esclusivamente alla salute dell'uomo. Ora, sulla prima affermazione vi è stato consenso, mentre la corte d’appello ha ritenuto che potesse aversi riguardo anche al solo provato effetto cancerogeno sugli animali, perché la normativa in questione intende tutelare, oltre la salute umana, anche l'ambiente e la salute di ogni essere vivente. Va però tenuto conto che la giurisprudenza di questa Corte, ha affermato che, trattandosi di norma di chiusura aperta ad apporti esterni, deve attribuirsi ad essa un contenuto sufficientemente delimitato al fine di evitare dubbi di incostituzionalità, sicché rilevano solo le indicazioni della Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC). Orbene, la corte d’appello, nel fare riferimento alla ratio della normativa, definita volta alla tutela dell'ambiente, ha in realtà fatto inammissibilmente ricorso all'analogia, in quanto ha esteso una norma da un caso previsto ad uno non previsto, sulla sola base della somiglianza tra i due, per il motivo che il principio informatore della norma abbraccia anche il secondo. Per quanto concerne l'affermazione secondo cui l’IARC avrebbe formulato un giudizio di certezza circa l'effetto cancerogeno della formaldeide sugli animali, va ricordato che l’IARC, nella sperimentazioni sugli animali (condotte evidentemente allo scopo di verificare la cancerogenicità sull'uomo, dato che è questo il suo dichiarato scopo istituzionale), aveva accertato effetti cancerogeni positivi e certi per i ratti, ma negativi ed incerti per cavie e topi. Se quindi la norma dovesse essere interpretata come sostiene la corte d'appello, ci si troverebbe di nuovo di fronte alla indeterminatezza ed alla illegittimità (quali animali?, solo i mammiferi? o anche i pesci e gli uccelli, ricordando che la formaldeide si trasforma rapidamente nell'acqua senza alcuna tendenza all'accumulo?). Per dare un contenuto di determinatezza alla norma occorre conoscerne con precisione i limiti; la previsione dei fatti punibili deve essere concettualmente chiara, intelleggibile e sufficientemente precisa; il destinatario deve poterne conoscere con sufficiente chiarezza il contenuto. La interpretazione proposta dalla sentenza impugnata è quindi inaccettabile perché analogica e perché collide con i principi costituzionali.

2) motivazione manifestamente illogica in relazione alla disapplicazione delle autorizzazioni amministrative: capo A) della sentenza. Lamentano che la sentenza impugnata ha ritenuto sussistente il reato di cui all'art. 59, comma 1, d. lgs. 11 maggio 1999, n. 152, in relazione allo scarico delle acque reflue industriali nel torrente San Bernardino (anziché nella condotta consortile che recapitava al lago), per il motivo la delibera provinciale n. 398/96, che autorizzava lo scarico in emergenza nel torrente, sarebbe stata rilasciata sulla base di una erronea rappresentazione di fatto, dovendosi ritenere prevedibile che tale scarico, autorizzato per l'emergenza, sarebbe stato invece non eccezionale: di qui l'illegittimità della autorizzazione, la sua disapplicazione e quindi la sussistenza del reato. La sentenza impugnata, però, non rileva alcun vizio di legittimità nell'atto autorizzante lo scarico di emergenza, sicché la soc. Acetati potrebbe solo avere scaricato reflui violando le prescrizioni date con l'autorizzazione, ma una tale infrazione non potrebbe certamente rendere illegittimo l'atto amministrativo, e dovrebbe essere semmai essere autonomamente giudicata. Il ragionamento della sentenza impugnata è quindi manifestamente illogico perché fa discendere da una condotta, in ipotesi, difforme dalle prescrizioni di un atto amministrativo l'illegittimità dell'atto stesso. La autorizzazione è invece certamente legittima e non poteva essere disapplicata. Si dovrà perciò verificare se Acetati abbia rispettato le prescrizioni della autorizzazione ovvero se le abbia violate con l'utilizzo dello stramazzo nel torrente in ipotesi che non erano di emergenza, tenendo conto che l'autorizzazione consentiva ripetuti scarichi e non era definito il loro limite. Se lo scarico non fosse stato causato dalla emergenza, Acetati sarà soggetta alle sanzioni amministrative previste dall'art. 54 d. lgs. 11 maggio 1999, n. 152.

3) motivazione manifestamente illogica in relazione alla disapplicazione delle autorizzazioni amministrative: capo D) della sentenza. Osservano che la corte d’appello ha ritenuto sussistente il reato di cui al capo D) perché la delibera provinciale n. 398/96 che autorizzava lo scarico sarebbe stata rilasciata sulla base di una falsa o non dettagliata rappresentazione del fatto che negli scarichi delle c.d. acque di processo sarebbero state convogliate anche quelle da ritenersi, secondo la sentenza impugnata, di raffreddamento, con conseguente violazione del divieto di diluizione. Da qui l'illegittimità della autorizzazione, la sua disapplicazione e la sussistenza del reato. In realtà, la stessa motivazione della sentenza impugnata dà atto che c'era sempre stata da parte dell'azienda una interpretazione diversa circa la nozione e l'ambito delle acque di processo e cita le relazioni dell'ARPA, che confermano una dialettica sulla natura delle acque, con un atteggiamento della pubblica amministrazione più perplesso, che non certo, della propria tesi. Ora, proprio l'esistenza di una dialettica sulla natura di parte delle acque conferite è elemento logicamente incompatibile con l'aver volontariamente sottaciuto tale informazione alla pubblica amministrazione, come invece è stato contestato agli imputati. Si tratta quindi di una insanabile contraddittorietà risultante dalla motivazione stessa.

4) inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 5 legge 20 marzo 1865, n. 2248, All. E, in relazione alla disapplicazione delle autorizzazioni amministrative, di cui ai capi A) e D) della sentenza. Lamentano che è stato fatto un erroneo ricorso all'istituto della disapplicazione, oltre i limiti fissati dalla giurisprudenza per il sindacato incidentale del giudice ordinario. I giudici del merito, invero, non indicano quale vizio renderebbe illegittimo l'atto, sicché il loro giudizio appare più attinente al merito, ai profili discrezionali e valutative della opportunità, che non ad aspetti di legittimità del provvedimento. Infatti è certo che l’atto non costituisce in questo caso esso stesso elemento essenziale della fattispecie criminosa, non è carente dei requisiti essenziali di forma, contenuto e volontà dell’ente, né proviene da organo assolutamente privo del potere di adottarlo, e nemmeno è affetto da illegittimità macroscopica o eclatante. Né potrebbe essere sindacata la correttezza del procedimento seguito. La disapplicazione è pertanto illegittima.

5) violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 ss. cod. civ., nonché dell'art. 18 legge 8 luglio 1986, n. 349. Lamentano che illegittimamente ed immotivatamente la sentenza impugnata ha condannato gli imputati in via solidale al risarcimento del danno in favore delle parti civili. Innanzitutto è palesemente illogica l'affermazione secondo cui nella specie si applicherebbe comunque l'art. 2043 cod. civ. pur in presenza della norma speciale di cui all'art. 18 cit. In secondo luogo, la giurisprudenza di questa Corte afferma che il danno ambientale trascende il danno ai singoli beni che ne fanno parte (danno quest'ultimo ancorato alla concezione civilistica delle conseguenze patrimoniali) e che la compromissione dell'ambiente va vista, sotto l'aspetto probatorio, in stretto collegamento con l'art. 18 cit., tenuto conto delle particolarità in esso contenute, e specialmente dei commi 6 e 7, che lo diversificano dal genus aquiliano cui pure appartiene. Questa Corte, quindi, non ha affermato il principio della solidarietà in caso di concorso nel danno ambientale, ma ha invece espressamente richiamato, in deroga alla disciplina del genus aquiliano, proprio il comma 7 dell'art. 18, il quale dispone che nel caso di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde della propria responsabilità individuale. Del resto questa disposizione espressamente derogatoria trova fondamento nel fatto che il danno ambientale, oltre a quella risarcitoria, ha anche una funzione sanzionatoria; ed il concetto di solidarietà è assolutamente antitetico rispetto alla sanzione che, in base ai principi costituzionali, non può che colpire l'autore dell'illecito. Il settimo comma dell'art. 18 si armonizza così con i principi dell'ordinamento, che sarebbero violati ove si addebitasse una sanzione a chi non ha commesso il fatto oggetto di pena, di modo che una norma che prevedesse la solidarietà del concorrente nel danno ambientale sarebbe addirittura incostituzionale. Erroneamente poi la sentenza impugnata pretende assurdamente di fondere le due discipline in esame, per prendere dall'art. 2043 c.c. l'elemento della solidarietà e dall'art. 18 cit. l'esonero da una prova rigorosa del danno. Né può ritenersi in contrario che la norma contenuta nel comma 7 dell'art. 18 disciplini esclusivamente i rapporti interni di regresso tra i condebitori; e ciò non solo perché non è lecito distinguere dove la legge non distingue, ma soprattutto perché in tal caso la disposizione sarebbe superflua, dal momento che già l'art. 2055 cod. civ. contiene quella norma, che costituisce la disciplina tipica del diritto comune. Il capoverso dell'art. 2055, invero, suona esattamente nel senso che si vorrebbe attribuire, in deroga, al settimo comma dell'art. 18. Infine, la solidarietà è concetto antitetico alla sanzione, istituto che informa la disciplina del danno ambientale. Inoltre, se ciascuno degli imputati risponde del danno ambientale nel limiti della responsabilità derivante dalla sua condotta, viene meno anche la condanna alla provvisionale, di cui sarebbe arbitrario stabilire una qualsiasi ripartizione tra gli imputati, in totale mancanza di prova dei singoli contributi a ciascuno addebitati. Lamentano poi che non è stata fornita prova alcuna che i fatti lesivi si siano estesi ai comuni di Baveno, Belgirate, Ghiffa e Laveno Mombello, distanti chilometri dall'insediamento produttivo. Quanto agli enti non territoriali, pur ammessi al risarcimento del danno in quanto aventi scopi di tutela dell'ambiente (Circolo verbano Legambiente e Commissariato italiano per la convenzione italosvizzera sulla pesca) eccepiscono, in primo luogo, che ad essi non spetta in quanto tali il ristoro del danno ambientale. In ogni caso, la legittimazione a costituirsi parte civile compete solo a quelle associazioni ambientalistiche che assumono la tutela ambientale come scopo immediato e diretto della loro attività. Il che non si può dire per il Commissariato italo svizzero. Quanto al Circolo verbano di Legambiente, esso costituisce una ramificazione periferica della nota associazione nazionale, ma contestano che abbia fornito la prova della sua autonoma rappresentatività.

4.2. Roberto Colombo ha proposto a sua volta ricorso per cassazione fondato su sette motivi. I primi cinque motivi sono identici a quelli del ricorso di Ghisolfi Vittorio, Bolcheni Giovanni e Ghisolfi Mario. Deduce inoltre:

6) manifesta illogicità della motivazione in relazione alla individuazione di profili di responsabilità soggettiva dell'imputato Colombo. Ricorda che la corte d'appello ha adottato in generale il principio che la responsabilità non può che nascere da fatti di gestione ed in base a ruoli di gestione, da rapportare ai diversi periodi di gestione da parte dei diversi imputati, sicché la responsabilità va esclusa ove manchi la prova che, pur in presenza di una carica ricoperta, vi sia stato un contributo ad atti di gestione. Per questo motivo il giudice del merito ha escluso la responsabilità di alcuni membri del CdA e dello stesso presidente nel periodo in cui era sfornito di deleghe. La sentenza impugnata poi accerta che l'ing. Colombo è stato componente del CdA dall'8 maggio 2002 ed in possesso di una procura specifica per la tutela dell'inquinamento a decorrere dal 7 febbraio 2002, e gli rimprovera di essere rimasto inerte di fronte al perdurare delle deficienze dell'impianto. Nella stessa pagina, però, la sentenza, esaminando la posizione dell'amministratore delegato Bellingeri, afferma che i poteri di intervenire radicalmente, come s'imponeva, sull'impianto erano intrasferibili, e conclude, conseguentemente, che il Bellingeri era responsabile della mancata adozione di tutte le necessarie misure ed iniziative aziendali. Ma se il Colombo non aveva, come la corte d’appello ritiene, il potere di porre riparo alle deficienze dell'impianto, se la sua procura non gli conferiva i poteri sufficienti, ovvero se si trattava di dover effettuare scelte strategiche e complessive non delegabili, allora non si vede cosa possa essergli addebitato. È quindi manifestamente illogico ritenere che non gli era stato delegato il potere di intervenire, poiché non delegabile, dopo averne stigmatizzato l'inerzia comportamentale.

7) manifesta illogicità della motivazione in relazione alla reiezione della istanza di oblazione relativa ai capi A) e D). Osserva che la premessa generale della corte d’appello secondo cui la responsabilità non può che essere personale e nascere da fatti di gestione a ciascuno riconducibili, si pone in insanabile contrasto con il rigetto della domanda di oblazione fondato sulla gravità del fatto desunto dalle plurime violazioni contestate alla Acetati e da una politica ambientale gravemente carente ed elusiva. Il Colombo ha infatti assunto le deleghe in materia ambientale solo l'8 febbraio 2002 ed è stato nominato membro del CdA l'8 maggio 2002, mentre gli impianti sono stati sequestrati nell'ottobre 2002. Non può quindi ritenersi che i fatti riconducibili al Colombo siano cosi gravi da giustificare il rifiuto della oblazione, perché nessuna scelta tale da incidere sulla situazione verificatasi poteva essere messa in atto in pochi mesi dall'imputato, mentre nessuno dei comportamenti ritenuti gravi dalla corte può essere ricondotto al Colombo.

4.3. Bellingeri Gianfranco ha proposto ricorso per cassazione fondato su sette motivi.

I primi cinque motivi sono identici ai motivi del ricorso di Ghisolfi Vittorio, Bolcheni Giovanni e Ghisolfi Mario. Deduce inoltre:

6) manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo della sentenza impugnata. Ricorda che la corte d’appello ha adottato il principio che la responsabilità e personale e nasce da fatti di gestione ed in base a ruoli di gestione, sicché va esclusa ove manchi la prova che, pur in presenza di una carica ricoperta, vi sia stato un contributo ad atti di gestione. La corte d’appello ha poi affermato che solo grazie alla prescrizione vanno esenti da sanzione penale i tre personaggi che ricoprirono, antecedentemente all'8 settembre 2000, i ruoli di maggiore incidenza e durata. Contraddittoriamente, quindi, è stata affermata la responsabilità del Bellingeri perché egli, prima dell'8 settembre 2000, non aveva svolto alcuna attività nella società e perché il CdA nello stesso giorno che lo vedeva per la prima volta presente provvide ad attribuire le deleghe ai vari amministratori, fra i quali il Brombini che ricevette lo specifico incarico di direttore operativo e la qualifica di datore di lavoro. Non vi fu e non vi poteva dunque essere alcuna concreta attività del Bellingeri nella gestione dello stabilimento. Quindi o si ritiene che tutti i membri del Cd.A sono sempre responsabili anche in presenza di deleghe conferite oppure si deve prendere atto delle specifiche e precise deleghe che il consiglio aveva conferito ai suoi amministratori.

7) manifesta illogicità della motivazione in relazione alla reiezione della istanza di oblazione relativa ai capi A) e D). Osserva che la motivazione sul rigetto dell'istanza si pone in insanabile contrasto con la parte della sentenza impugnata che censura la decisione del tribunale laddove non ha operato alcuna differenza tra le posizioni dei diversi imputati. La corte d’appello ha affermato che la responsabilità non può che nascere da fatti di gestione propri, e per tale ragione ha ridotto la pena inflitta al Bellingeri. Vi è quindi evidente contrasto tra la parte della sentenza impugnata in cui si respinge la richiesta di oblazione per la gravità del fatto, che poggia su una responsabilità per così dire collettiva degli imputati, e la parte in cui rifugge questa impostazione riducendo la pena al Bellingeri.

4.4. Brombini Fulvio propone ricorso per cassazione fondato su sette motivi.

I primi cinque motivi sono identici ai motivi del ricorso di Ghisolfi Vittorio, Bolcheni Giovanni e Ghisolfi Mario.

Deduce inoltre:

6) manifesta illogicità della motivazione in relazione alla individuazione di profili di responsabilità soggettiva dell'imputato Brombini. Ricorda che la corte d'appello ha adottato il principio che la responsabilità è personale e nasce da fatti di gestione ed in base a ruoli di gestione, sicché va esclusa ove manchi la prova che, pur in presenza di una carica ricoperta, vi sia stato un contributo ad atti di gestione. Per questo motivo ha escluso la responsabilità di alcuni membri del CdA e dello stesso presidente nel periodo in cui era sfornito di deleghe. La sentenza impugnata poi analizza i ruoli ricoperti dal Brombini come componente del CdA dall'8 settembre 2000, con procure per la tutela dell'inquinamento sino al 24 febbraio 2002, data delle sue dimissioni, e gli rimprovera di essere rimasto inerte, nonostante le procure, di fronte al perdurare delle deficienze dell'impianto. Nella stessa pagina, però, la sentenza, esaminando la posizione dell'amministratore delegato Bellingeri, afferma che i poteri di intervenire radicalmente, come s’imponeva, sull'impianto fossero intrasferibili, e conclude, conseguentemente, che il Bellingeri era responsabile della mancata adozione di tutte le necessarie misure ed iniziative aziendali. Ma se il Brombini non aveva, come la corte d’appello ritiene, il potere di porre riparo alle deficienze dell'impianto, se la sua procura non gli conferiva i poteri sufficienti, ovvero se si trattava di dover effettuare scelte strategiche e complessive non delegabili, allora non si vede cosa possa essergli addebitato. È quindi manifestamente illogico ritenere che non gli era stato delegato il potere di intervenire, poiché non delegabile, dopo averne stigmatizzato l'inerzia comportamentale.

7) manifesta illogicità della motivazione in relazione alla reiezione della istanza di oblazione relativa ai capi A) e D). Osserva che l'istanza di oblazione è stata rigettata per la gravità del fatto, desumibile dal lungo periodo di riferimento e dalla sistematicità delle violazioni. Ma se cosi è, sono contraddittorie ed illogiche le valutazioni relative al Brombini che è stato ritenuto responsabile per la procura rilasciatagli dall'8 settembre 2000 al 7 febbraio 2002. Quindi il periodo a lui addebitabile è molto ridotto, in tale periodo il numero degli sversamenti è stato limitato e comunque non è riferibile a lui il comportamento consistito nell'aver sottaciuto la reale portata degli scarichi in sede di ottenimento delle autorizzazioni e del loro rinnovo. Del resto il suo ruolo limitato, è stato poi riconosciuto nella parte della sentenza dove sono state rideterminate le pene.

 

Motivi della decisione

5. Preliminarmente deve rilevarsi che dalla stessa sentenza impugnata (v. pagg. 13, 14, 22, 64, 68, 69) risulta che la permanenza di tutti i reati contestati nei confronti di tutti gli imputati è comunque cessata alla data del 29 ottobre 2002, nella quale fu disposto il sequestro degli impianti e degli scarichi (cui fece seguito, subito dopo, il commissariamento dell'azienda). Ne deriva che i reati di cui ai capi A), B) e D) si sono prescritti il 28 aprile 2007 anche nei confronti di Bellingeri Gianfranco, Brombini Fulvio e Colombo Roberto.

Per quanto concerne le contravvenzioni di cui ai capi A) e D), anche se come dopo si vedrà devono essere annullate le relative statuizioni civili, tuttavia dagli atti non emergono in modo evidente cause di proscioglimento nel merito.

Di conseguenza, la sentenza impugnata deve essere annullata in ordine ai suddetti reati di cui ai capi A) e D) nei confronti di Bellingeri Gianfranco, Brombini Fulvio e Colombo Roberto perché i reati stessi sono estinti per prescrizione.

6. Per quanto concerne il reato di cui al capo B), invece, dagli atti emerge in modo evidente che il fatto all'epoca in cui fu commesso e fino al 29 ottobre 2002 non era previsto dalla legge come reato. In accoglimento dei relativi motivi di ricorso, dunque, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti di tutti i ricorrenti in relazione al detto reato di cui al capo B) perché il fatto non era previsto dalla legge come reato.

7. Con il capo B) della imputazione è stato invero contestato agli imputati il reato di cui all'art. 59, comma 5, del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, per avere in più occasioni superato negli scarichi nel lago e nel torrente San Bernardino i valori limite fissati in relazione alla formaldeide, sostanza pericolosa perché cancerogena e quindi compresa tra le sostanze di cui al n. 18 della tabella 5 dell'allegato 5 del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152. Vanno a questo proposito fatte due osservazioni preliminari.

7.1. In primo luogo deve ricordarsi che il citato art. 59, comma 5, prevede la sanzione dell'arresto e dell'ammenda per chiunque, nell'effettuazione di uno scarico di acque reflue industriali, supera i valori limite fissati nella tabella 3 (o, nel caso di scarico sul suolo, nella tabella 4) dell'allegato 5 (ovvero i limiti più restrittivi fissati dalle regioni o delle province autonome o dall'autorità competente) in relazione alle sostanze indicate nella tabella 5 dell'allegato 5. Il precedente art. 54, comma 1, del medesimo d.lgs. 152/99, invece, dispone che, salvo che il fatto costituisca reato, è punito con una sanzione amministrativa chiunque nell'effettuazione di uno scarico supera i valori limite di emissione rissati nelle tabelle di cui all'allegato 5 (ovvero quelli stabiliti dalle regioni o fissati dalla autorità competente). Ora, tutte le aldeidi sono sostanze previste al n. 39 della tabella 3 dell'allegato 5. Pertanto, la circostanza che nella specie negli scarichi in acqua fossero stati superati i limiti indicati dalla tabella 3 in relazione alla formaldeide, costituirebbe in ogni caso una attività illecita, punita con una sanzione amministrativa. Si tratta quindi di stabilire se la formaldeide rientrasse anche tra le sostanze di cui al n. 18 della tabella 5 dell'all. 5 (sostanze di cui è provato il potere cancerogeno), perché in tal caso il superamento dei limiti tabellari costituirebbe anche un reato. Ciò però comporta che, per risolvere questo problema interpretativo, non può darsi decisivo rilievo al principio di precauzione ed alla finalità di tutela dell'ambiente, perché tale principio e tale finalità risultano comunque tutelate, con un alto livello di protezione, dal legislatore attraverso la previsione del superamento dei limiti come fatto sicuramente illecito, anche se punito con una sanzione amministrativa. Devono invece essere tenuti nel dovuto conto i principi, di valore costituzionale, di tassatività e di determinatezza delle fattispecie penali, nonché il principio generale del divieto di analogia in materia penale.

7.2. In secondo luogo deve rilevarsi che nel frattempo il quadro normativo si è profondamente modificato. Le considerazioni che verranno svolte valgono in relazione alla normativa vigente al momento del fatto ed applicabile nel caso in esame, ma non sono più valide con riferimento alla normativa attualmente in vigore. Da un lato, infatti, l’IARC (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) nel giugno del 2004 ha inserito la formaldeide (che prima era classificata nel gruppo 2A (probabile cancerogeno per l'uomo) nel gruppo 1 (cancerogeno accertato per l'uomo). Quindi, a partire dal giugno 2004, la formaldeide certamente rientra tra le sostanze di cui al n. 18 della tabella 5 dell'allegato 5 al d.lgs. 152/1999 (il quale si riferiva alle «sostanze di cui, secondo le indicazioni dell'agenzia internazionale di ricerca sul cancro (IARC), è provato il potere cancerogeno»). Da un altro lato, però, è stata modificata anche la disposizione di cui al citato Punto 18, il quale è stato sostituito dal punto 18 della tabella 5 dell'allegato 5 alla parte terza del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152. Questa disposizione, non si riferisce più alle «sostanze di cui, secondo le indicazioni dell'agenzia internazionale di ricerca sul cancro (IARC), è provato il potere cancerogeno», bensì comprende ora le «sostanze classificate contemporaneamente "cancerogene" (R45) e “pericolose per l'ambiente acquatico” (R50 e 51/53) ai sensi del d.lgs. 3 febbraio 1997, n. 52 e successive modifiche». Ora, il d.lgs. 3 febbraio 1997, n. 52 (recante Attuazione della direttiva 92/32/CEE concernente classificazione, imballaggio ed etichettatura delle sostanze pericolose), stabilisce all'art. 20 che l'etichettatura delle sostanze pericolose deve recare, tra le altre indicazioni, le c.d. «frasi di rischio» o «frasi R», ossia le frasi relative ai rischi specifici derivanti dai pericoli dell'uso della sostanza. Ai sensi dell'allegato III poi, del decreto ministeriale 16 febbraio 1993 e della normativa europea, la dicitura R45 indica una sostanza che «può provocare il cancro»; quella R50 una sostanza «altamente tossica per gli organismi acquatici», e quella R51/53 una sostanza «tossica: per gli organismi acquatici, può provocare a lungo termine effetti negativi per l'ambiente acquatico». Pertanto, attualmente, perché rientri tra quelle indicate nel n. 18 della tabella 5 dell'allegato 5 alla parte terza del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, occorre che la sostanza sia classificata contemporaneamente come cancerogena (nel senso che può provocare il cancro) e come altamente tossica per gli organismi acquatici ed idonea a provocare a lungo termine effetti negativi per l'ambiente acquatico.

8. Ciò premesso, e venendo alla normativa in vigore all'epoca dei fatti ed applicabile nella specie, è opportuno ricordare, per una corretta interpretazione della disposizione in esame, che il testo originario del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, il n. 18 della tabella 5 dell'all. 5 faceva riferimento alle «sostanze di cui è provato il potere cancerogeno».

8.1. Da diverse parti si era prospettata la necessità di una interpretazione rigorosa ed adeguatrice, che escludesse il dubbio di incostituzionalità della disposizione per indeterminatezza della fattispecie penale. Di tale necessità si fece carico, in particolare, questa Corte con la sentenza della Sez. III, 13 ottobre 1999, n. 13694, Tanghetti, m. 214990, la quale in una ipotesi riguardante i solfati mise appunto in evidenza l'esigenza di offrire una esegesi adeguatrice dell'espressione adoperata dal legislatore nel citato n. 18 della tabella 5, in certa misura ampia e indeterminata, in quanto norma di chiusura aperta a differenti apporti esterni ed a diverse conoscenze scientifiche, sì da attribuire alla medesima un contenuto sufficientemente delimitato, al fine di fugare ogni dubbio di costituzionalità della fattispecie penale prevista da tale disposizione in correlazione con l'art. 59 del decreto legislativo. Osservò quindi la richiamata decisione che, per evitare possibili contrasti con il principio di determinatezza di cui all'art. 25 Cost., a fronte di una espressione indeterminata che avrebbe potuto far includere diverse sostanze per le quali una qualche ricerca avesse provato l'effetto cancerogeno, occorreva invece considerare esclusivamente quelle sostanze che in virtù di comunicati o pubblicazioni scientifiche attendibili, provenienti dal Ministero della sanità o da altre fonti internazionali autorevoli, fossero ritenute con potere cancerogeno. E ciò perché la disposizione in esame non richiede soltanto la possibilità oppure la probabilità che una determinata sostanza possa avere un potere cancerogeno, ma esige che questo sia provato, e detta prova non può essere fondata su cognizioni personali del giudice o su una perizia dallo tesso disposta, ma su dati certi, conoscibili usando la diligenza dell'uomo medio.

8.2. La medesima esigenza fu poco dopo fatta propria anche dal legislatore, il quale, proprio al fine di dare maggiore determinatezza alla fattispecie penale ed escludere in proposito ogni discrezionalità del giudice e dell'interprete, con il d.lgs. n. 258/2000, riformulò il testo del citato punto n. 18 della tabella 5 dell'allegato 5, speci­ficando che esso si riferisce esclusivamente alle «sostanze di cui, secondo le indicazioni dell'agenzia internazionale di ricerca sul cancro (IARC), è provato il potere cancerogeno». Del nuovo testo della disposizione fece puntuale applicazione nella fase cautelare del presente procedimento penale proprio in riferimento alla formaldeide contenuta nei reflui sversati dalla società Acetati la sentenza della Sez. III, 4 febbraio 2003, n. 12361, Grilli, m. 224352, la quale condividendo e confermando le considerazioni già svolte dalla sent. 13 ottobre 1999, n. 13694, Tanghetti, cit. affermò che «il superamento dei limiti previsti dalla tabella 3 allegata al d.lgs. 11 maggio 1999 n. 152 per le sostanze non incluse nella tabella 5 allegata allo stesso decreto integra il reato di cui all'art. 59, comma quinto, stesso decreto, solo ove sia "provato" il potere cancerogeno delle stesse secondo le indicazioni dell'agenzia internazionale di ricerca sul cancro (IARC), atteso che la previsione di chiusura dei punto 18 della tabella 5 non richiede soltanto la possibilità o la probabilità che una determinata sostanza (nella specie: formaldeide) possa avere un potere cancerogeno, ma esige che questo sia provato; diversamente si configura esclusivamente l'illecito amministrativo di cui all'art. 54». La medesima sentenza, sulla base del principio affermato criticò anche l'assunto del tribunale del riesame di Verbania secondo cui la formaldeide sarebbe rientrata nella previsione di cui al punto 18 cit. anche per il motivo che questo comprendeva le sostanze che presentavano in assoluto un potere cancerogeno sia per l'uomo sia per gli animali, in considerazione della ratio normativa finalizzata a tutelare non solo la salute dell'uomo ma primariamente l'ambiente in cui vive osservando che si trattava di «affermazioni genericamente afferenti al potere cancerogeno della sostanza di cui ci si occupa», mentre il giudice, ai fini della configurabilità della fattispecie criminosa di cui all'art. 59, comma 5, d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, era obbligato a tenere conto «esclusivamente delle indicazioni dell'Agenzia Internazionale di ricerca sul cancro, nonché degli aggiornamenti scientifici ad esse apportate... con riferimento alle sostanze di cui risulti provato il potere cancerogeno secondo la classificazione operata da tale organismo di ricerca».

9. Questo Collegio non può che concordare con le richiamate precedenti decisioni di questa Sezione, che hanno dato una interpretazione corretta ed adeguatrice della disposizione in esame, perfettamente aderente, del resto, alla sua lettera ed alla sua ratio. Pertanto, con riferimento alla previsione del n. 18 della tabella 5 dell'allegato 5 del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, come modificato dal d.lgs. 18 agosto 2000, n. 258, deve ribadirsi che esso comprende(va) esclusivamente le sostanze per le quali, sulla base delle indicazioni dell'IARC, sia «provato» il potere cancerogeno, non essendo invece sufficiente la sola possibilità o anche la probabilità che una determinata sostanza possa avere un potere cancerogeno per l'uomo.

Ora, l'Agenzia internazionale di ricerca sul cancro (IARC), effettua una valutazione che si articola in due fasi. La prima fase è quella della valutazione del grado di evidenza di cancerogenicità risultante da dati sull'uomo e da dati sugli animali da esperimento. Questi due gruppi vengono dapprima classificati separatamente e poi si effettua una valutazione globale sui dati combinati con l'inserimento della sostanza in uno specifico gruppo (cfr. www.iarc.fr). In particolare, la classificazione finale dello IARC, alla quale la disposizione in esame fa specifico ed espresso riferimento, definisce cinque gruppi di cancerogenicità, e precisamente: - gruppo 1: cancerogeno accertato per l'uomo: vi è sufficiente evidenza di cancerogenicità nell'uomo in studi epidemiologici adeguati; - gruppo 2A: probabile cancerogeno per l'uomo, sulla base di evidenza limitata nell'uomo ed evidenza sufficiente negli animali da esperimento; - gruppo 2B: possibile cancerogeno per l'uomo, sulla base di evidenza limitata nell'uomo e evidenza non del tutto sufficiente negli animali da esperimento oppure di evidenza sufficiente negli animali ed evidenza inadeguata nell'uomo; - gruppo 3: non classificabile per cancerogenicità sull'uomo; i dati epidemiologici non sono sufficienti per classificare la sostanza cancerogena per l'essere umano; - gruppo 4: probabilmente non cancerogeno per l'uomo, i dati epidemiologici portano a pensare che la sostanza non sia cancerogena per l'essere umano. Orbene, è evidente che alla stregua del principio dianzi ricordato e della chiara intenzione del legislatore, che ha fatto rientrare nel n. 18 esclusivamente le sostanze per le quali, secondo le indicazioni dello IARC, risulti «provato» il potere cancerogeno, e non anche quelle per le quali tale potere sia solo probabile o possibile sulla base del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, e successive modificazioni, potevano ritenersi comprese nell'ambito della disposizione di chiusura di cui al n. 18 cit. soltanto le sostanze classificate dallo IARC nel gruppo 1, e non anche le sostanze classificate nei gruppi 2A e 2 B.

All'epoca dei fatti la formaldeide era classificata nel gruppo 2A dell'Agenzia internazionale di ricerca sul cancro (l'inclusione nel gruppo 1 è avvenuta solo nel giugno 2004), e quindi non rientrava tra le sostanze indicate nel punto 18 della tabella 5 dell'allegato 5. Pertanto, l'eventuale superamento dei limiti tabellari con riferimento alla formaldeide poteva configurare l'illecito amministrativo previsto dall'art. 54 d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, e non il reato previsto dal successivo art. 59, comma 5.

10. La sentenza impugnata, peraltro, ha ugualmente ritenuto sussistente il reato sostenendo la tesi che il n. 18 della tabella 5 dell'allegato 5 si riferirebbe alle sostanze di cui sia provato il potere cancerogeno non solo per l'uomo ma anche per gli animali e che per la formaldeide sarebbe stato appunto provato il potere cancerogeno per gli animali. La ragione di questa interpretazione risiederebbe nel fatto che il testo legislativo si riferisce alle sostanze di cui è provato l'effetto cancerogeno senza circoscrivere questo effetto all'uomo, nonché nel fatto che la normativa intende tutelare non solo la salute umana, ma l'ambiente, di cui l'acqua e un elemento essenziale, e quindi la salute «di ogni essere vivente».

Per la verità, questa interpretazione era stata seguita anche dalla sentenza della Sez. III, 23 gennaio 2004, n. 8147, Grilli, m. 227567 emessa sempre nella fase cau­telare dei presente procedimento penale e sempre in riferimento alla formaldeide sversata dalla società Acetati la quale ponendosi peraltro in insanabile contrasto logico con la precedente sentenza Sez. III, 4 febbraio 2003, n. 12361, Grilli , m. 224352 (ed anche con la sentenza Sez. III, 13 ottobre 1999, n. 13694, Tanghetti, m. 214990) ha affermato, che affinché una sostanza rientri nella previsione del n. 18 della tabella 5 dell'allegato 5 del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, è sufficiente che il potere cancerogeno «sia accertato nei confronti degli animali non essendo necessaria la prova di analogo effetto nei confronti dell'uomo, sia perché manca nel testo legislativo una specificazione in tal senso, sia in quanto la normativa di settore è posta a salvaguardia dell'ambiente ed a tutela della salute di ogni essere vivente».

11. Ritiene il Collegio che, re melius perpensa, questa interpretazione non possa essere condivisa per una pluralità di ragioni, fra cui la sua contrarietà alla ratio ed alla lettera della legge, alla chiara intenzione del legislatore, ed alla già rilevata necessità di operare una esegesi adeguatrice, e che debbano invece essere confermati i principi e l'interpretazione seguiti dalle precedenti decisioni n. 12361/2003 e n. 13694/1999.

11.1. Innanzitutto deve osservarsi che fondatamente i ricorrenti lamentano che l'interpretazione finalistica effettuata dalla sentenza impugnata ed il suo richiamo alla ratio della normativa, definita volta alla tutela dell'ambiente e della salute «di ogni essere vivente», maschera in realtà il ricorso all'analogia. È infatti evidente che, proprio in considerazione della pretesa finalità della disciplina, si è ritenuta l'esistenza di una lacuna, e precisamente di una c.d. «lacuna ideologica» (intendendosi per tale non già la mancanza di una norma, bensì la mancanza di una norma che dia al caso una soluzione soddisfacente, ossia di una norma giusta, o, in altre parole, di una norma che si vorrebbe che ci fosse, e invece non c'è) e non già di una «lacuna reale» (peraltro inconcepibile in materia penale stante la presenza della norma generale esclusiva che vieta l'uso dell'argumentum a simili). Ritenuta dunque l'esistenza della lacuna, in considerazione della ipotizzata finalità di tutelare la salute «di ogni essere vivente», si è inconsapevolmente fatto ricorso per colmarla ad una inammissibile applicazione analogica in malam partem della norma penale, estendendo la norma da un caso previsto ad un caso non previsto, in virtù della somiglianza tra i due e della pretesa identità di ratio legis, e ciò perché il principio informatore della norma abbraccia anche il secondo.

11.2. In secondo luogo, deve ricordarsi che la ritenuta finalità di tutelare l'ambiente e la salute di ogni essere vivente, così come il principio di precauzione, non possono assumere valore rilevante ai fini della corretta esegesi della disposizione in esame, perché tale finalità e tale principio sono comunque già stati tutelati e garantiti - secondo l'apprezzamento discrezionale del legislatore e con un alto livello di protezione con la previsione che il superamento dei limiti tabellari in relazione alla formaldeide costituisce sicuramente un illecito, sia pure punito con una sanzione amministrativa e non con una sanzione penale. D'altra parte, non può certamente ritenersi manifestamente irragionevole che il legislatore pur prevedendo che in ogni caso il comportamento costituisca un illecito moduli poi diversamente la sanzione a seconda che la sostanza rappresenti un provato pericolo per la salute dell'uomo o un pericolo per la sola salute degli animali.

11.3. In terzo luogo, devono richiamarsi tutte le considerazioni svolte dalle citate sentenze n. 12361/2003 e n. 13694/1999 sulla necessità di dare alla disposizione in esame una interpretazione rigorosa ed adeguatrice, che escluda il dubbio di incostituzionalità per indeterminatezza della fattispecie penale in contrasto con il principio di cui all'art. 25 Cost. Con tali decisioni è stata invero ritenuta contraria al principio costituzionale una interpretazione che lasciasse indeterminata l'espressione originariamente utilizzata dalla disposizione e quindi consentisse una certa discrezionalità al giudice e all'interprete. Da qui la necessità di una esegesi che rendesse necessario non solo che il potere cancerogeno della sostanza fosse provato, ma anche che tale prova risultasse da dati certi ed inconfutabili, ricavabili da fonti predeterminate, e quindi conoscibili da chiunque utilizzando la diligenza dell'uomo medio. E si è anche visto che proprio per soddisfare questa esigenza di determinatezza della fattispecie penale il legislatore è intervenuto con il d.lgs. n. 258/2000, specificando che il potere cancerogeno della sostanza doveva essere provato esclusivamente sulla base delle indicazioni dell'agenzia internazionale di ricerca sul cancro (IARC).

È chiaro che l'interpretazione seguita dalla sentenza impugnata comporterebbe invece una norma penale di contenuto assolutamente indeterminato, non essendo possibile con l'ordinaria diligenza conoscerne previamente i limiti, e che quindi colliderebbe con i principi costituzionali. Come si è visto, l’IARC effettua una classificazione delle sostanze in gruppi che si riferiscono esclusivamente alla cancerogenicità per l'uomo, essendo solo questo dei resto il suo scopo istituzionale. È chiaro che l’IARC, per valutare la cancerogenicità per l'uomo, valuta previamente anche la cancerogenicità sugli «animali da esperimento», ma tale valutazione è fatta esclusivamente per poi combinare i dati sugli animali da esperimento con quelli sull'uomo all'unico fine di stabilire ed accertare la cancerogenicità sull'uomo e non anche quella nei confronti degli animali in genere, e tanto meno nei confronti di animali diversi da quelli da esperimento, o nei confronti di specifici tipi di animali, o di tutti gli animali, e ancor meno nei confronti «di ogni essere vivente».

Se quindi si ritenesse sufficiente la prova della cancerogenicità sugli animali si ricadrebbe di nuovo nella indeterminatezza della fattispecie penale. Se invero lo IARC (come i ricorrenti sostengono che avvenisse prima del 2004 per la formaldeide) accerti effetti positivi e certi per alcuni animali, come i ratti, ma negativi e incerti per altri animali, come cavie e topi, si cadrebbe di nuovo nella indeterminatezza, non essendo normativamente stabilito a quali animali ci si dovrebbe riferire: ai soli mammiferi, o anche agli uccelli o ai pesci, o agli insetti, e cosi via?

D'altra parte, la pretesa finalità di tutelare «anche l'ambiente, di cui l'acqua è un elemento essenziale, e quindi la salute di ogni essere vivente» non sarebbe perseguita neppure ritenendo sufficiente anche il potere cancerogeno sugli animali secondo le indicazioni dello IARC. L'agenzia, infatti, non compie alcun accertamento ed alcuna valutazione sul potere cancerogeno nei confronti degli animali in genere o delle specie di animali più rilevanti ai fini ambientali (siano essi mammiferi, o uccelli, o pesci, o insetti) ma soltanto nei confronti degli «animali da esperimento» e, ovviamente, nei confronti dell'uomo. Il che conferma che il riferimento ad un generico ed indeterminato potere cancerogeno nei confronti degli animali in genere, senza alcuna specificazione, diretta o indiretta, da parte della norma di quali animali si tratti, renderebbe la fattispecie penale dei tutto priva della necessaria chiarezza, precisione e determinatezza. E, come sostiene la sentenza impugnata, sarebbe poi contrario al principio di tipicità introdurre un elemento di integrazione della fattispecie non normativamente previsto.

11.4. D'altra parte, l'interpretazione seguita dalla sentenza impugnata porterebbe ad individuare una norma non solo indeterminata, ma anche dal contenuto manifestamente illogico. Come si è visto, infatti, è pacifico che la disposizione richiede che il potere cancerogeno sia provato (secondo le indicazioni dello IARC), non essendo sufficiente che lo stesso sia possibile o probabile. Rientrano quindi nella previsione del n. 18 soltanto le sostanze classificate dallo IARC nel gruppo 1, mentre non vi rientrano anche le sostanze classificate nel gruppi 2A e 2B. Senonché, per la classificazione nei gruppi 2A e 2B, occorre comunque che per la sostanza sia provato il potere cancerogeno sugli animali da esperimento («evidenza sufficiente negli animali da esperimento») mentre è di evidenza limitata o inadeguata il potere cancerogeno per l'uomo. Quindi, per tutte le sostanze classificate nei gruppi 2A e 2B, è provato il potere cancerogeno per gli animali da esperimento o almeno su alcuni di essi. Si avrebbe così una norma che escluderebbe le sostanze classificate dallo IARC nei gruppi 2A e 2B, perché per esse è solo possibile o probabile e non provata la cancerogenicità sull'uomo, ed al tempo stesso includerebbe le medesime sostanze classificate nei gruppi 2A e 2B, perché per esse è provata la cancerogenicità su (alcuni) animali da esperimento.

Ciò fa anche sospettare che l'interpretazione seguita dai giudici del merito rappresenti in realtà un escamotage per superare il principio affermato, nella fase cautelare del presente procedimento, dalla sentenza della Sez. III, 4 febbraio 2003, n. 12361, Grilli, m. 224352, la quale aveva in sostanza ritenuto che, per configurare il reato, era necessario che la sostanza fosse classificata dallo IARC nel gruppo 1, mentre non era sufficiente la classificazione nei gruppi 2A e 2B.

11.5. È poi chiaramente infondato l'assunto, su cui anche si basa l'interpretazione in questione, secondo cui il testo legislativo si riferisce alle sostanze di cui è provato il potere cancerogeno senza circoscrivere tale effetto all'uomo, sicché non sarebbe consentito all'interprete, vietandolo il principio di tipicità, introdurre un elemento di integrazione della fattispecie non normativamente previsto. In realtà, infatti, sol che si consideri la lettera e la ratio del testo legislativo, risulta evidente che lo stesso non può che riferirsi esclusivamente alle sostanze di cui è provato il potere cancerogeno per l'uomo. Pertanto, limitare a tali sostanze l'ambito di applicazione della norma non significa affatto introdurre un elemento di integrazione della fattispecie non normativamente previsto, atteso che la fattispecie è appunto limitata a queste sostanze, mentre estendere l'applicazione della norma anche alle sostanze di cui è provato il potere cancerogeno per i soli animali significa estendere la norma penale ad una ipotesi diversa da quella da essa espressamente prevista, e quindi compiere una inammissibile applicazione analogica della stessa.

Basta infatti ricordare l'occasione ed i motivi che hanno indotto il legislatore a modificare l'originario testo del n. 18 in esame (che si riferiva genericamente alle sostanze di cui è provato il potere cancerogeno) per introdurre l'espressa specificazione che il potere cancerogeno doveva essere provato esclusivamente secondo le indicazioni dell'agenzia internazionale di ricerca sul cancro. Orbene, poiché il compito istituzionale dello IARC è unicamente quello di accertare e valutare il potere cancerogeno delle sostanze sull'uomo (essendo esclusivamente strumentale e finalizzato a questa valutazione l'accertamento dell'effetto cancerogeno sui soli animali da esperimento) e non anche sugli animali o sugli esseri viventi in genere, e poiché la classificazione delle sostanze in cinque gruppi ufficialmente effettuata dall'agenzia si riferisce esclusivamente all'uomo, e non anche ad alcuni o a tutti gli animali (e sicuramente non ad animali diversi da quelli da esperimento), risulta evidente che il legislatore, con lo specificare che il potere cancerogeno deve essere provato secondo le indicazioni dello IARC, abbia chiaramente ribadito (qualora pure ce ne fosse stato bisogno) che l'unico potere cancerogeno preso in considerazione della norma in esame è quello nei confronti dell'uomo.

12. In conclusione, secondo il testo legislativo vigente al momento dei fatto, la formaldeide non rientrava fra le sostanze indicate nel punto 18 della tabella 5 dell'allegato 5 del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, ma solo tra le sostanze indicate nella tabella 3 del medesimo allegato 5. Pertanto, l'eventuale superamento dei limiti tabellari con riferimento alla formaldeide, integrava l'illecito amministrativo di cui all'art. 54, comma 1, d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, e non il reato previsto dal successivo art. 59, comma 5. Ne consegue che, in relazione alla imputazione di cui al capo B), la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti di tutti i ricorrenti perché il fatto non era previsto dalla legge come reato.

Per la stessa ragione devono anche essere annullate senza rinvio le statuizioni civili relativamente al suddetto reato di cui al capo B) (art. 59, comma 5, d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152), giacché, trattandosi eventualmente di illecito amministrativo, non spetta comunque al giudice penale pronunciare sui danni eventualmente derivati da tale illecito.

13. Poiché con le sentenze di merito è stata pronunciata condanna al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili, i motivi di ricorso relativi alle residue contravvenzioni di cui ai capi A) e D) devono ugualmente essere esaminati, sebbene questi reati siano prescritti, ai soli effetti delle statuizioni civili. 14. I motivi di ricorso relativi al reato di cui al capo A) sono fondati e vanno dunque accolti, atteso che effettivamente la motivazione della sentenza impugnata sul punto è carente e manifestamente illogica.

La corte d'appello, invero, ha ritenuto la sussistenza del reato di cui all'art. 59, comma 1, d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, in relazione allo scarico delle acque reflue industriali nel torrente San Bernardino (anziché nella condotta consortile che recapitava lo stesso scarico nel lago), per il motivo che tale scarico avveniva in mancanza della Prescritta autorizzazione. E ciò perché la delibera provinciale n. 398/1996, che aveva autorizzato lo scarico nel torrente in emergenza, sarebbe stata rilasciata sulla base di una erronea ed incompleta rappresentazione di fatto, in quanto doveva ritenersi prevedibile fin dall'epoca della domanda che lo scarico nel torrente San Bernardino non sarebbe stato eccezionale, come autorizzato, bensì assai frequente se non continuativo. Ciò, secondo la corte d’appello, avrebbe comportato la illegittimità del provvedimento autorizzativo in emergenza. Da qui la disapplicazione del provvedimento ai sensi dell'art. 5 della legge 20marzo 1865, n. 2248, all. E, con la conseguenza della configurabilità del reato contestato non essendo più lo scarico fondato su alcuna autorizzazione. Innanzitutto la sentenza impugnata ricorda che la richiesta di rinnovo della autorizzazione fu presentata in data 15 novembre 1995. A quella data, si sarebbe dovuta perciò già verificare quella falsa e dolosa rappresentazione della realtà che avrebbe indotto in inganno l'amministrazione portandola ad emanare in provvedimento autorizzativo in emergenza che altrimenti non avrebbe emanato. Senonché la sentenza impugnata non specifica, a questo proposito, quando gli scarichi nel torrente San Bernardino cessarono di essere eccezionali e si trasformarono in continui ed ordinari e tanto meno specifica i motivi per i quali si è ritenuto che già prima del novembre 1995 la società avrebbe dovuto avere sicura contezza di questa trasformazione (anzi dalla sentenza impugnata, pag. 43, sembrerebbe che l'insufficienza della condotta consortile e la necessità di scaricare nel torrente si siano manifestate solo nell'estate del 1999, mentre nella sentenza di primo grado si afferma che lo scarico nel torrente avvenne in modo continuativo a partire dall'inverno 1996/97). Non appare sufficiente a questo proposito il richiamo ad un cattivo funzionamento, a causa di difetti di progettazione e della cattiva manutenzione, dello scarico consortile, la cui gestione era affidata a S.P.V. (Servizi Pubblici Verbanesi). E difatti, quand'anche la condotta sommersa consortile non fosse più regolarmente funzionante fin dal 1995, si sarebbe comunque dovuto spiegare perché la Acetati avrebbe dovuto essere fin d'allora certa che il malfunzionamento sarebbe sicuramente proseguito e si sarebbe aggravato e non potesse invece ragionevolmente ritenere che la Servizi Pubblici Verbanesi, responsabile della gestione della condotta consortile, avrebbe adempiuto al suo compito di tenere la condotta in efficienza con le dovute manutenzioni, o comunque non potesse ritenere che alle deficienze della condotta consortile si potesse far fronte in modo diverso dal trasformare da eccezionale in ordinario lo scarico nel torrente San Bernardino. In ogni modo, anche ammesso che nella domanda di rinnovo della autorizzazione del 15 novembre 1995 la Acetati abbia dolosamente rappresentato una situazione di fatto diversa dalla realtà (e cioè che lo scarico nel torrente sarebbe stato eccezionale mentre era destinato a divenire continuativo) non è spiegato per quali motivi ed in quale modo la pubblica amministrazione sarebbe stata indotta in inganno, dal momento che essa rilasciò non già una generica autorizzazione ad effettuare qualsiasi tipo di scarico nel torrente, bensì una autorizzazione che era specificamente limitata agli scarichi in emergenza.

La sentenza impugnata afferma (pag. 52) che l'autorizzazione andava disapplicata perché risultava la sua «contrarietà a legge». Ma non spiega sotto che profilo e per violazione di quale specifica norma sarebbe contraria a legge una autorizzazione che si limitava ad autorizzare lo scarico in emergenza, quale che fosse poi la effettiva situazione di fatto. In mancanza di una adeguata e congrua motivazione in questo senso, infatti, sembrerebbe doversi ritenere che l'autorizzazione non fosse idonea a rendere legittimo uno scarico continuo ed ordinario, ma non che essa fosse contraria a legge nella parte in cui consentiva lo scarico in emergenza. Fondatamente, pertanto, i ricorrenti eccepiscono che la sentenza impugnata non ha indicato alcuno specifico vizio di legittimità dell'atto amministrativo, autorizzante lo scarico in emergenza e che, in realtà, con un ragionamento privo di logica, ha fatto discendere da una condotta difforme, in ipotesi, dalle prescrizioni di un atto autorizzativo l'illegittimità dell'atto stesso. E difatti la sentenza impugnata dà atto, da un lato, che il provvedimento della provincia autorizzava lo scarico nel torrente soltanto in emergenza e, dall'altro lato, che la Acetati aveva invece scaricato anche in continuazione e al di fuori dell'emergenza, ed aveva quindi violato le prescrizioni della autorizzazione o era comunque andata oltre i limiti della autorizzazione. Non è però spiegato come mai una condotta di superamento dei limiti o di violazione delle prescrizioni della autorizzazione condotta che dovrà essere autonomamente valutata e giudicata possa di per sé comportare addirittura l'illegittimità dello stesso atto autorizzativo. La motivazione della sentenza impugnata è dunque manifestamente illogica nella parte in cui, con riferimento allo scarico nel torrente, ha ritenuto illegittimo l'atto di autorizzazione e lo ha disapplicato.

È appena il caso di osservare che non rilevano in questa sede le valutazioni dipendenti necessariamente da un giudizio di merito che potranno farsi in ordine agli scarichi effettuati nel torrente San Bernardino al di là dei limiti dell'emergenza, qualora si escludano l'illegittimità in sé e la disapplicazione dell'autorizzazione. Potrebbe invero ritenersi che tale comportamento costituisca violazione delle prescrizioni della autorizzazione, e quindi un illecito amministrativo ai sensi dell'art. 54 del d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, ovvero che costituisca una attività di scarico continuativa effettuata oltre i limiti della autorizzazione e svolta perciò in assenza di autorizzazione. In ogni caso l'illecito potrebbe riguardare solo gli scarichi che fossero motivatamente ritenuti eccedenti quelli autorizzati in emergenza e non già tutti gli scarichi, compresi quelli effettuati in via di emergenza. Inoltre, si dovrebbe verificare in concreto quali siano i contenuti ed i limiti fissati dal provvedimento autorizzativo e se la Acetati li abbia violati con l'utilizzo dello scarico nel torrente anche in ipotesi che non si potessero definire di emergenza. La soluzione dipenderebbe perciò da accertamenti di merito in ordine sia al contenuto del provvedimento amministrativo sia alla concreta condotta della società, accertamenti che invece la corte d'appello ha in realtà omesso di effettuare avendo seguito la strada di ritenere illegittimo, e disapplicare, lo stesso atto autorizzativo e di ritenere pertanto illegittimi tutti indistintamente gli scarichi effettuati dal 1996 in poi nel torrente San Bernardino.

15. Sono fondati anche i motivi di ricorso relativi al capo D) della imputazione. La corte d’appello ha ritenuto sussistente il reato di cui all'art. 59, comma 1, d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152, anche in ordine allo scarico delle acque reflue industriali nella condotta consortile, perché anche tale scarico sarebbe stato effettuato in assenza di autorizzazione. E ciò per il motivo la delibera provinciale n. 398/1996, che autorizzava lo scarico nella condotta consortile, sarebbe stata ottenuta inducendo in errore la pubblica amministrazione attraverso una falsa e dolosa rappresentazione di fatto, consistente nella falsa o comunque non dettagliata rappresentazione della circostanza che nelle c.d. acque di processo sarebbero state convogliate anche quelle acque da ritenersi invece, secondo la sentenza impugnata, acque di raffreddamento, con conseguente violazione del divieto di diluizione. Anche in questo caso da ciò deriverebbe, secondo la corte d’appello, l'illegittimità della autorizzazione, la sua disapplicazione ai sensi dell'art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, e quindi la sussistenza del reato contestato. Anche in relazione a questa ipotesi di reato però la motivazione e carente o manifestamente illogica. Ed infatti, innanzitutto, non sono indicate le ragioni per le quali dovrebbe ritenersi, da un lato, che la A. abbia indotto in errore la pubblica amministrazione attraverso una falsa o incompleta rappresentazione della realtà e, da un altro lato, che la provincia non fosse comunque in grado, prima di rinnovare la autorizzazione, di avere conoscenza delle effettive modalità di sversamento utilizzate dalla società. Anzi, sotto questa profilo la motivazione, oltre che carente è anche manifestamente illogica. Ed invero, la stessa sentenza impugnata riporta (pag. 44) le dichiarazioni del teste Zacchera, assessore provinciale per l'ambiente, il quale ha riferito che i problemi per lo scarico nel lago si manifestarono alla fine dell'estate del 1999 (quindi dopo 4 anni dalla richiesta di rinnovo della autorizzazione), che «c'era sempre stata da parte dell'azienda una interpretazione diversa circa la nozione e l'ambito delle acque di "processo" rispetto a quelle per altri scopi», e che la provincia inviò al riguardo alla società una nota scritta solo in data 10 dicembre 2001. Il teste Peroni, responsabile del procedimento amministrativo per il rinnovo della autorizzazione, ha poi riferito (pag. 44 della sentenza impugnata) che prima del rinnovo occorreva previamente chiarire una serie di situazioni critiche, ivi compresa quella della diluizione. La sentenza impugnata cita poi le relazioni dell'ARPA, che confermano l'esistenza di una dialettica in ordine alla natura delle acque.

Emerge quindi dalla stessa sentenza impugnata che da sempre vi erano state discussioni e diversità di vedute tra la provincia e la Acetati in relazione alla qualificazione da attribuire a parte delle acque conferite (di processo ovvero di mero raffreddamento) e ciò costituisce una circostanza che immotivatamente non è stata presa in considerazione pur essendo logicamente incompatibile con l'avere volontariamente sottaciuto alla pubblica amministrazione tale informazione (nel che è stata ravvisata la ragione di illegittimità del provvedimento di autorizzazione). La sentenza impugnata sembra peraltro sostenere (pag. 61) che l'autorizzazione sarebbe illegittima per due ragioni: perché avrebbe autorizzato una diluizione ed uno scarico diluito in violazione del divieto di legge di diluizione, e perché la provincia, all'atto di rilasciare l'autorizzazione, «versò nel convincimento che diluizione/miscelazione, contra legem, nei termini successivamente accertati, non vi fosse». Si tratta però di affermazioni entrambe apodittiche e manifestamente illogiche.

Quanto alla prima, invero, non è indicato in quale modo e in quale punto il provvedimento amministrativo avrebbe autorizzato anche una attività di diluizione delle acque in contrasto con specifiche norme di legge, essendo invece evidente che l'autorizzazione prevedeva lo scarico attraverso la condotta consortile, fermi restando, ovviamente, i divieti di legge (compreso quello di diluizione) che non erano, né potevano essere, derogati. Anzi, la stessa sentenza impugnata (pag. 14) afferma che la autorizzazione del 29 agosto 1996 conteneva la espressa prescrizione del divieto di diluizione (ex art. 9 legge n. 319/76) nonché la previsione della presentazione, entro un anno, di un progetto di separazione delle acque provenienti dal ciclo produttivo da quelle meteoriche. In ogni caso, quand'anche vi fossero stati dubbi sul contenuto dell'atto (se autorizzasse o meno anche diluizioni vietate per legge), non è spiegato perché si sarebbe dovuta preferire una sua interpretazione che ne determinasse la illegittimità e non invece una interpretazione adeguatrice che ne salvasse la conformità a legge. Inoltre, se, come la stessa sentenza impugnata sembra ammettere, il provvedimento non autorizzava anche la diluizione delle acque, ed anzi prescriveva il divieto di diluizione, appare poi manifestamente illogico ritenere che il provvedimento sarebbe illegittimo perché avrebbe autorizzato anche una attività di diluizione delle acque in contrasto con specifiche norme di legge. In ogni caso, se l'atto non autorizzava la diluizione contra legem, non è spiegato il motivo per cui l'atto sarebbe illegittimo a causa di un comportamento che violava le prescrizioni in esso contenute.

Quanto alla seconda ragione, è sufficiente ricordare quanto già rilevato circa la incompatibilità fra la discussioni e le diversità di vedute da sempre esistenti fra società e provincia in relazione alla qualificazione di parte delle acque col ritenuto convincimento della provincia che le acque di raffreddamento non fossero mischiate con quelle di processo. Del resto, subito dopo la frase riportata, la stessa sentenza impugnata, con evidente contraddizione, afferma che «Acetati spa aveva sempre sostenuto che le acque di raffreddamento fossero anch'esse "produttive", in quanto, nell'ottica dell'azienda, regolando la temperatura dei reattori (nel senso che li raffreddavano) partecipavano al ciclo produttivo». Quindi, è la stessa sentenza impugnata ad affermare, immediatamente dopo aver sostenuto che la provincia versava nel convincimento che non vi fosse miscelazione di acque, che invece era notorio che la Acetati riteneva corretto qualificare anche le acque di raffreddamento come acque di processo e quindi che fosse consentito mischiarle. Inoltre, anche per la motivazione relativa a questo reato valgono le considerazioni già svolte in relazione al reato di cui al capo A). Infatti, alla Acetati è stata in sostanza addebitata una condotta di miscelazione di acque di processo con acque di raffreddamento in violazione di una specifica norma di legge e delle prescrizioni della autorizzazione, condotta che dovrà essere autonomamente valutata e giudicata. Non è congruamente spiegato però in che modo e per quale ragione tale condotta possa determinare anche la illegittimità dell'atto di autorizzazione allo scarico, che di per sé non autorizzava anche condotte in violazione di specifici divieti di legge ed in particolare una miscelazione di acque contra legem.

16. Ritiene il Collegio che sia fondato anche il quarto motivo di ricorso, perché effettivamente i giudici del merito hanno disapplicato le due autorizzazioni allo scarico (nel torrente e nel lago) con una motivazione che oltre che carente e manifestamente illogica, come rilevato sembra anche oltrepassare i limiti in cui la prevalente giurisprudenza di questa corte ha circoscritto il potere del giudice penale di sindacare gli atti amministrativi illegittimi. I casi nei quali la disapplicazione è consentita sono stati da ultimo ben riepilogati dalla sentenza della Sez. III, 21 ottobre 2004, n. 23212005, Esaom-Cesa spa, alla quale quindi si fa rinvio, ricordando qui sinteticamente che la giurisprudenza prevalente ha ritenuto che gli atti amministrativi che rimuovono un ostacolo al libero esercizio dei diritti (nulla osta, autorizzazioni) o che costituiscono diritti in capo a soggetti privati (concessioni), se illegittimi, non possono essere disapplicati dal giudice penale a meno che la disapplicazione non trovi fondamento in una esplicita previsione legislativa ovvero nel generale potere del giudice di interpretare la norma penale nei casi un cui l'illegittimità dell'atto amministrativo si configuri essa stessa come elemento essenziale della fattispecie penale (Sez. Un., 31 gennaio 1987, n. 3, Giordano, m. 176304 e 175115), ovvero quando l'atto amministrativo, per essere frutto di collusione tra amministratori e soggetti interessati, non possa essere oggettivamente riferito alla sfera del lecito giuridico (Sez. III, 18 novembre 1987, n. 673/88, Forlani, m. 177439), o quando sia privo di uno dei suoi requisiti essenziali (forma, volontà, contenuto), oppure provenga da organo assolutamente privo del potere di adottarlo, o sia frutto di attività criminosa del titolare del potere, mentre per tali atti la disapplicazione non è consentita quando sia viziato il procedimento amministrativo che ha preceduto il provvedimento, e cioè il modo in cui il potere è stato esercitato, giacché in tal caso il difetto non attiene all'esistenza dell'atto finale, ma alla legittimità dei complessivo comportamento tenuto dall'autorità (Sez. VI, 31 agosto 1995, n. 2378, Barillaro, m. 202581). Alcune decisioni, poi, hanno sostenuto in genere che l'illegittimità dell'atto amministrativo può essere sindacata in via incidentale dal giudice penale solo se sia «macroscopica» (ex plurimis Sez. III, 24 gennaio 1996, n. 4421, Oberto, m. 204885) o «eclatante» (Sez. III, 23 dicembre 1997, n. 11988, Controzzi, m. 209194). In ogni caso, anche quelle pronunce che sostengono la sindacabilità della illegittimità (oltre che della illiceità) degli atti amministrativo escludono, in modo espresso o tacito, che il giudice penale possa sindacare il merito amministrativo del provvedimento.

Orbene, come già rilevato, la corte d'appello non ha indicato se non in modo del tutto generico e perplesso, e quindi meramente apparente quale vizio renderebbe l'atto illegittimo. Inoltre è certo che l'atto non costituiva, in questo caso, esso stesso elemento essenziale della fattispecie criminosa, non era carente dei requisiti essenziali di forma, contenuto e volontà dell'ente, né proveniva da organo assolutamente privo del potere di adottarlo, né infine era affetto da illegittimità «macroscopica» o «eclatante». Pertanto, stante la mancata indicazione dello specifico vizio che renderebbe l'atto illegittimo, effettivamente sorge il sospetto che in realtà i giudici del merito abbiano sindacato la correttezza e completezza del procedimento seguito o abbiano ritenuto un vizio più attinente al merito, ossia ai profili discrezionali e valutativi della opportunità, della completezza istruttoria e della ponderazione degli interessi coinvolti, che non ad aspetti di mera legittimità del provvedimento. Anche sotto questo profilo, quindi, si manifesta un vizio di motivazione che impone un nuovo giudizio di merito.

17. In conclusione, le statuizioni civili relativamente ai capi A) e D) devono essere annullate con rinvio alla competente corte d'appello di Torino in sede civile, alla quale va rimessa anche la decisione su una eventuale liquidazione delle spese di parte civile della presente fase.

18. Gli altri motivi di ricorso relativi alle statuizioni civili, ivi compresi quello relativo alla condanna al risarcimento del danno in via solidale ed alla erronea interpretazione ed applicazione dell'art. 18, commi 6 e 7, della legge 8 luglio 1986, n. 349, nonché quello relativo alla mancata sussistenza di danni nei confronti di alcune parti civili ed alla mancata legittimazione di altre, restano assorbiti.

Del resto, l'annullamento senza rinvio in ordine al reato di cui al capo B) perché il fatto non era previsto dalla legge come reato, e con rinvio in ordine ai reati di cui ai capi A) e D), comporta anche la caducazione di tutte le statuizioni civili, comprese le condanne a provvisionali, e la necessità che il giudice civile in sede di rinvio, nella eventualità di una condanna al risarcimento del danno in relazione alle imputazioni di cui ai capi A) e D), valuti comunque ex novo la sussistenza di un effettivo danno derivante da questi due reati nei confronti delle singole parti civili costituitesi, nonché le diverse e specifiche responsabilità dei singoli imputati. Gli ulteriori motivi di ricorso sono rigettati.