Pluralità di inquinatori e responsabilità da danno ambientale dopo le modifiche al T.U. Ambientale e la pronuncia della Corte di Giustizia Europea 378/2010/CE

di Luca PRATI

 

 

Il nuovo art. 311 del TU Ambiente: dalla responsabilità individuale a quella solidale, andata e ritorno.

 

I recenti interventi normativi operati sulle norme relative alla disciplina del danno ambientale contenute nel  D. Lgs. 152/2006 hanno riportato i criteri di ripartizione delle responsabilità tra più coautori di un medesimo danno ambientale al regime anteriore al Testo Unico ambientale.

 

Come noto, il comma 7 dell’art. 18 della legge 349/1986  disponeva che “nei casi di concorso nello stesso evento di danno ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità individuale. Si trattava di un orientamento innovativo rispetto ai principi tradizionali  in tema di concorso fra più soggetti responsabili di un danno, principi cristallizzati nell’art. 2055 c.c. in base al quale se un fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno, e colui che lo ha risarcito ha regresso contro ciascuno degli altri, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall'entità delle conseguenze che ne sono derivate.

 

L’art. 18 prevedeva una responsabilità personale rivolta a colpire il singolo trasgressore, implicante una funzione punitiva del danno all’ambiente. Il sistema della responsabilità individuale comportava seri problemi di determinazione delle responsabilità nel caso di azioni dannose cumulatesi nel tempo. Il Codice dell’ambiente aveva così  superato tale impostazione, tanto che nell’art. 311 del D.lgs. 152/2006 non era più presente alcuna limitazione delle responsabilità su base individuale, e tornava quindi  applicabile il principio generale della responsabilità solidale:  nel caso di danno ambientale realizzato da più  soggetti, ognuno di essi avrebbe dovuto risponderne interamente, salvo poi rivalersi nei confronti dei coautori del danno.

 

Il decreto-legge n. 135 del 25 settembre 2009 convertito con la legge 20 novembre 2009, n. 166, ha modificato il comma 3 dell’art. 311 in modo da prevedere, tra le altre cose, che “nel caso di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità personale”.

 

Si noti che il legislatore non si è limitato ad esternare il principio di differenziazione delle responsabilità basato sull’effettivo nesso causale tra le diverse azioni od omissioni che hanno cagionato  l’inquinamento, ed il danno accertato (come ha invece fatto la Corte di Giustizia con la sentenza 380/2010, di cui si dirà qui di seguito) ma ha espressamente circoscritto la responsabilità a quella personale di ciascun autore del danno. Ne deriva che, come nell’abrogato art. 18, l’accertamento della responsabilità, e quindi l’ammontare del danno da risarcire, sembra dover essere  determinata anche sulla base della effettiva esistenza di un elemento di dolo o colpa in capo ai diversi compartecipi di un unico evento lesivo, e non soltanto in base ad una mera identificazione (e conseguente ripartizione) dell’apporto causale al danno di ciascun compartecipe.   Ciò in quanto  il richiamo alla responsabilità personale pare incompatibile con l’adozione di un sistema di responsabilità oggettiva.

La responsabilità oggettiva è infatti un meccanismo giuridico di attribuzione soggettiva del fatto illecito che prescinde dall’atteggiamento psicologico del soggetto a cui è attribuito il fatto. Tale responsabilità, in quanto oggettiva, si distingue dalla responsabilità per fatto proprio (o comunque per fatto proprio colpevole), poiché prescinde dalle caratteristiche dell'atteggiamento illecito soggettivo. L’atteggiamento antidoveroso del soggetto può infatti non essere presente nel caso di responsabilità oggettiva, con ciò che ne consegue in termini di “personalità” della responsabilità.

 

L’accertamento del nesso di causalità ai fini della ripartizione delle responsabilità.

 

Anche prima della modifica introdotta dalla legge del 2009, il principio della solidarietà sembrava peraltro applicabile solo fino a che l"'inquinamento" possa essere ritenuto, nel caso di specie, un unico fatto dannoso, come nell'ipotesi in cui un medesimo inquinante sia stato immesso nel sito, seppure in tempi diversi o da diversi soggetti (ad esempio, da più gestori di un medesimo impianto).

 

Considerazioni differenti valevano (e valgono) nel caso siano individuabili, distinti eventi dannosi per l’ambiente, scindibili in quanto riconducibili a differenti decorsi causali, come nell’ipotesi di contaminazione provocata da diverse sostanze, ognuna delle quali proveniente da un differente soggetto inquinatore, magari in tempi diversi.

 

Ed infatti solo ove vi sia una pluralità di responsabili in relazione al medesimo evento lesivo, può sussistere un regime di solidarietà, mentre esso viene senz'altro meno nell'ipotesi in cui si sia in presenza di azioni distinte di più soggetti dalle quali scaturiscano differenti effetti dannosi, così che non si possa più parlare di contributo causale di più soggetti ad un unico evento.

 

In tema di bonifica, tale principio è presente anche all’art. 242 del Codice dell’ambiente, nella parte in cui è stabilito che “nel caso in cui l’inquinamento non sia riconducibile ad un singolo evento, i parametri da valutare devono essere individuati, caso per caso, sulla base della storia del sito e delle attività ivi svolte nel tempo”.

 

Già tale norma confermava, e conferma, che in caso di pluralità di eventi di inquinamento attribuibili a diversi soggetti, non possa sussistere una responsabilità solidale, bensì una imputazione di responsabilità basata sulla determinazione dell’effettivo contributo causale all’inquinamento apportato da ciascuno dei soggetti succedutesi sull’area.

La recente decisione della 378/2010 della Corte di Giustizia ha poi ribadito come, in relazione alla presenza di una pluralità di potenziali inquinatori, l’imputazione di responsabilità  debba comunque avvenire conformemente al principio «chi inquina paga», e pertanto l’obbligo di riparazione incombe agli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento. Per poter presumere l’esistenza di un siffatto nesso di causalità, l’autorità competente deve disporre di indizi plausibili in grado di dar fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate ed i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività.

 

La Corte di Giustizia nella medesima decisione ha quindi ribadito come l’autorità sia tenuta ad accertare, in osservanza delle norme nazionali in materia di prova, quale operatore abbia provocato il danno ambientale, e non possa imporre misure di riparazione senza previamente dimostrare l’esistenza di un nesso di causalità tra i danni rilevati e l’attività dell’operatore che ritiene responsabile dei medesimi.

 

Al riguardo la giurisprudenza amministrativa (TAR Piemonte, Sez. I - 24 marzo 2010, n. 1575) ha ribadito come  in campo amministrativo-ambientale valga la regola, codificata nel processo civile (Cassazione civile, sez. un., 11 gennaio 2008, n. 581) del “più probabile che non”; facilmente riscontrabile in via presuntiva, quando dalle analisi chimiche effettuate si riscontrino  inquinanti tipicamente riconducibili ad attività ivi svolte.

 

Le modifiche introdotte dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, all’art. 311 del D. Lgs. 152/2006, in sinergia con i principi ribaditi dalla citata sentenza della Corte di Giustizia, confermano pertanto l’illegittimità di tutte quelle imputazioni di responsabilità effettuate in mancanza di adeguata istruttoria, che sia in grado di dare fondamento, sotto il profilo del nesso  causale, alle presunzioni che consentono di ricollegare determinanti inquinamenti a specifiche attività e, di conseguenza, ai relativi operatori.

 

Va infatti ricordato che ai sensi dell’art. 314 del D.lgs. n. 152/2006 l'ordinanza diretta ad imporre il ripristino ambientale deve contenere:

1) l'indicazione specifica del fatto, commissivo o omissivo contestato;

2) l’indicazione degli elementi di fatto ritenuti rilevanti per l'individuazione e la quantificazione del danno e delle fonti di prova per l'identificazione dei trasgressori.

L’assenza o l’indeterminatezza di tali elementi si tradurranno in altrettanti profili di illegittimità dell’ordinanza stessa, integrando, oltre che un vizio di eccesso di potere sotto il profilo del difetto di istruttoria e della carenza di motivazione, autonomi profili di violazione di legge.

 

Avv. Luca Prati