Cass. Sez. III n. 6294 del 8 febbraio 2013 (Ud 15 gen. 2013)
Pres. Squassoni Est. Ramacci Ric. Berlingieri
Rifiuti. Violazioni art. 256 d.lgs. 152\06 e natura di reato comune

Le violazioni contenute nell'art. 256 d.lgs. 152\06 configurano un'ipotesi di reato comune, che può essere commesso anche da chi esercita attività di gestione dei rifiuti in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa, dovendosi pertanto escludere la natura di reato proprio la cui commissione sia possibile solo da soggetti esercenti professionalmente una attività di gestione di rifiuti

 

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Catanzaro, con sentenza del 10.1.2012, ha confermato la decisione con la quale, in data 23.2.2011, il Tribunale di Lamezia Terme aveva affermato la penale responsabilità di B.M. in ordine al reato di cui alla L. n. 210 del 2008, art. 6, comma 1, lett. d) per avere effettuato, in assenza di titolo abilitativo, attività di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi (materiale ferroso vario, motori di lavatrici, termosifoni, fili elettrici e pneumatici).

Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione.

2. Con un unico motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, rilevando che la condotta accertata non sarebbe idonea a configurare il reato ascrittogli, difettando dei necessari requisiti di stabilità ed organizzazione che la distinguono dalle attività meramente estemporanee ed occasionali e che su tale circostanza i giudici del merito avrebbero omesso ogni considerazione.

Aggiunge che la mancanza dei requisiti di professionalità ed organizzazione che sarebbero richiesti perchè possa configurarsi il reato previsto dalla disciplina emergenziale avrebbe potuto, al più, configurare la meno grave violazione di natura contravvenzionale prevista dalla disciplina generale in tema di rifiuti nel D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256.

Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.


CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è inammissibile.

Occorre in primo luogo osservare che, da quanto emerge dall'esame della decisione impugnata e dell'atto di appello, le doglianze prospettate al giudice del gravame concernevano la mancata effettuazione di un accertamento peritale volto a qualificare esattamente i materiali trasportati quali rifiuti, la sussistenza dell'elemento psicologico e la richiesta di riduzione della pena inflitta dal primo giudice.

Le questioni dedotte in ricorso non sono state invece prospettate alla Corte del merito e vengono per la prima volta proposte in questa sede. La Corte territoriale ha pertanto omesso del tutto legittimamente ogni considerazione sul punto, mancando una formale e specifica doglianza.

4. In ogni caso, le censure formulate risultano manifestamente infondate. La L. n. 210 del 2008, art. 6, comma 1, lett. d) stabilisce che, nei territori in cui vige lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti dichiarato ai sensi della L. 24 febbraio 1992, n. 225, chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza dell'autorizzazione, iscrizione comunicazione prescritte dalla normativa vigente è sanzionato con pene diverse in ragione della natura del rifiuto, prevedendo una maggiore severità nel caso in cui l'attività di gestione riguardi rifiuti pericolosi.

La condotta descritta dalla disposizione richiamata è perfettamente coincidente con quella contemplata dalla disciplina generale nel D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256.

5. Quanto a quest'ultima, la giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni rilevato che le violazioni in essa contenute configurano un'ipotesi di reato comune, che può essere commesso anche da chi esercita attività di gestione dei rifiuti in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa, dovendosi pertanto escludere la natura di reato proprio la cui commissione sia possibile solo da soggetti esercenti professionalmente una attività di gestione di rifiuti (Sez. 3 n. 7462, 19 febbraio 2008; Sez. 3 n. 24731, 22 giugno 2007; Sez. 3 n. 16698, 8 aprile 2004; Sez. 3 n. 21925, 14 maggio 2002).

6. A conclusioni analoghe si è pervenuti per quanto attiene la disciplina emergenziale (Sez. 3 n. 1406, 17 gennaio 2012; Sez. 3 n. 24428, 17 giugno 2011; Sez. 3 n. 79, 7 gennaio 2010) e, più recentemente, si è avuto modo di precisare che l'utilizzazione del termine attività da parte del legislatore deve intendersi riferita ad ogni condotta che non sia connotata da assoluta occasionalità, mentre la disposizione non richiede ulteriori requisiti di carattere soggettivo o oggettivo per l'integrazione della violazione, stante la sua natura di reato comune che può essere commesso da chiunque e non richiede i requisiti della professionalità della condotta, ovvero di un'organizzazione imprenditoriale della stessa (Sez. 3 n. 5031, 9 febbraio 2012, citata anche in ricorso).

7. Tali principi sono condivisi dal Collegio e vanno ribaditi, osservando come, nella fattispecie, la Corte territoriale abbia evidenziato comunque che l'imputato non era stato in grado di giustificare in alcun modo la destinazione e la provenienza dei rifiuti e lo svolgimento dell'attività in assenza di titolo abilitativo. Non risulta inoltre, come si è già detto, che la questione della occasionalità della condotta sia stata prospettata ai giudici del gravame.

8. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità - non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) - consegue l'onere delle spese del procedimento, nonchè quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di Euro 1.000,00.


P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2013