Consiglio di Stato, V, 19 febbraio 2004, n. 674
Smaltimento di rifiuti In tema di nozione di rifiuto e di materia prima secondaria.
REPUBBLICA
ITALIANA |
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO |
IL
CONSIGLIO DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE |
Sezione
Quinta |
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
sul
ricorso
n. 11703 del 2001
, proposto
dalla s.a.s. Marconi di Garzitto e C.
, rappresentata
e
difesa
dall’
avv. Francesco Longo e dall’avv.
Alberto Cassini
, elettivamente domiciliata
presso
l’avv. Pasquale Gianpietro
in
Roma, via della Donnicciola
contro
la
Provincia di Udine,
rappresentata
e
difesa
dagli
avv.ti
Sabina Ciccotti e Francesco Pecile di Udine
ed elettivamente domiciliata
presso
la prima
in
Roma
, via Lucrezio Caro n. 62
e il
Comune di Villa Santina (Ud),
rappresentato
e
difeso
dall’
avv. Cosimo D’Alessandro,
elettivamente domiciliato
presso
lo
studio dell’avv. Pasquale Gianpietro in Roma, Via della Donnicciola,
per
l'annullamento
della
sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia
, 30 agosto 2001 n. 543, resa tra le
parti.
Visto il
ricorso con i relativi allegati;
Visti gli
atti
di costituzione in giudizio della Provincia di Udine e del Comune di Villa
Santina
;
Viste le
memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli
atti tutti della causa;
Relatore
alla pubblica udienza del
2
dicembre
2003
il
consigliere Marzio Branca, e uditi
gli avvocati Ciccotti
e D’Alessandro;
Ritenuto
in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO
Con la
sentenza in epigrafe è stato respinto il ricorso con il quale l’Impresa
Marconi di Granzitto e C., s.a.s., titolare di un stabilimento per la
costruzione di sedie in materiale plastico in Comune di Villa Santina, ha
chiesto l’annullamento delle ordinanze emesse dal Sindaco del predetto Comune,
che disponevano, ai sensi
dell’art. 14 del d.lgs.5 febbraio 1997 n. 22, l’allontanamento dei materiali, classificabili come
rifiuti, presenti all’interno ed all’esterno dello stabilimento.
Il TAR ha
ritenuto che il detto materiale, sebbene destinato ad essere impiegato nel
processo di produzione, doveva essere qualificato come rifiuto e quindi non
poteva essere detenuto in stato di abbandono nell’area gestita dall’Impresa
Marconi.
Avverso
la sentenza ha proposto appello l’Impresa Marconi, sostenendone l’erroneità
e chiedendone l’annullamento.
Il Comune
di Villa Santina e la Provincia di Udine si sono costituite in giudizio per
resistere al gravame.
Alla
pubblica udienza del 2 dicembre
2003
la
causa veniva trattenuta in decisione.
DIRITTO
Va presa
in esame in primo luogo l’eccezione di improcedibilità dell’appello
sollevata dal Comune resistente, il quale ha denunciato che l’appellante non
aveva provveduto al deposito del gravame nel rispetto del termine dimidiato,
come, secondo l’assunto, sarebbe prescritto dall’art. 4, comma 8, della
legge n. 205 del 2000.
Sostiene
infatti il Comune che tale ultima disposizione sia destinata a prescrivere
l’abbreviazione dei termini processuali, a prescindere dall’oggetto della
controversia, e quindi anche oltre i casi di cui al comma 1, purché sia stata
presentata istanza di sospensione della sentenza.
Militerebbe
in tal senso la circostanza che la applicabilità della disciplina speciale al
grado di appello verrebbe già prescritta da altri commi dello stesso art.
23-bis, come il 5° e il 7°, e che pertanto, se non fosse interpretata nel
senso prospettato, la disposizione non avrebbe ragion d’essere.
L’eccezione
va disattesa.
Va
rilevato in primo luogo come non sia esatto che la tesi dell’appellato Comune
offrirebbe l’unica spiegazione possibile della norma ora in esame. E’ da
considerare, infatti, che, in disparte la tematica della abbreviazione dei
termini, il nucleo essenziale della normativa speciale è dettato dai commi 3 e
4 dell’art. 23-bis, che regolano in modo diverso il rito concernente la
domanda di sospensione del provvedimento impugnato in primo grado.
Si
tratta, come è noto, di una disciplina che, profilandosi probabile
l’accoglimento dell’istanza (comma 3), impone l’abbandono della fase
cautelare in favore di una fissazione della trattazione del merito in tempi
estremamente ravvicinati, con apposita ordinanza che sostituisce l’ordinanza
cautelare. Il comma successivo regola i poteri delle parti e i relativi termini,
in vista della trattazione del merito. A questo insieme normativo allude il
comma 8 quando ne richiama l’applicazione, sempre che, come appare logico,
venga domandata la sospensione della sentenza impugnata.
Vi è poi
da considerare, a tacer d’altro, che,
secondo la tesi sostenuta dal Comune, mentre nel giudizio di primo grado vigono
i termini ordinari (non trattandosi delle materie di cui all’art. 23-bis,
comma 1), in appello i termini sarebbero abbreviati solo perché è stata
presentata l’istanza di sospensione della sentenza. Un regime siffatto, in sé
incoerente, non potrebbe neppure essere sostenuto con esigenze di accelerazione,
smentite dal regime ordinario seguito nel primo grado, nel quale la domanda di
sospensione del provvedimento non determina la abbreviazione dei termini.
Egualmente infondata risulta la diversa eccezione di improcedibilità
dedotta sotto il profilo della mancata contestazione della sentenza di primo
grado.
Va
osservato, infatti, che l’appellante ha riferito i passi contestati della
decisione appellata ed ha svolto le sue argomentazioni per contrastare il
ragionamento dei primi giudici. La circostanza che non siano state mosse
specifiche censure a tutti i passi della decisione, ed in particolare al rilievo
dato alle esigenze della salute e dell’ambiente, non è idonea a provocare
l’improcedibilità del gravame, poiché questo introduce validamente una
domanda di riesame del nucleo essenziale della decisione impugnata.
Alla
pronuncia si addebita una erronea qualificazione della fattispecie avendo
considerato l’attività produttiva svolta dall’appellante come operazione di
smaltimento o recupero di rifiuti, in assenza della autorizzazione prescritta
dal d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22, con ciò legittimando l’adozione delle
impugnate ordinanze comunali di rimozione, adottate a norma dell’art. 14 del
predetto decreto legislativo.
La
sentenza, infatti, afferma che la sostanza utilizzata dall’impresa appellante,
ossia il DKR, pur essendo un rifiuto recuperabile ai fini della produzione,
sarebbe pur sempre un “rifiuto”, secondo l’amplissima definizione fornita
dall’art. 6, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 22 del 1997, e come tale soggetto
alla disciplina del detto decreto che impone il conseguimento di determinate
autorizzazioni anche in vista della semplice “messa in riserva” del
materiale considerato. E ciò perché, con l’emanazione della normativa
citata, l’ordinamento avrebbe espunto il concetto di “materia prima
secondaria” adottato dalla legislazione previgente, e che fu riconosciuto come
distinto da quello di rifiuto dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza
n. 512 del 1990.
Il
ragionamento seguito dai primi giudici va disatteso.
In linea
preliminare si rivela non esatto che la legislazione vigente non adotti il
concetto di materia prima secondaria come risultato di una attività di
trasformazione di rifiuti, idonea a modificare la natura stessa dell’oggetto
trattato.
Di
“materia prima” ottenuta dal recupero di rifiuti parla espressamente
l’art. 4, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 22/1977, e le
“materie prime secondarie” sono indicate dall’art. 3 comma 1 del
d.m. 5 febbraio 1998, adottato in attuazione di quanto disposto dall’art. 31
del più volta citato d.lgs. n. 22/1997.
Il
decreto ministeriale, nei suoi cospicui allegati, detta le prescrizioni di
ordine tecnico che devono governare l’attività di recupero dei rifiuti non
pericolosi, in modo da pervenire alla produzione di sostanze utilizzabili come
materie prime, che al termine del processo di trasformazione non sono più
ascrivibili al concetto di rifiuti.
L’art.
3, comma 3, del d.m. in questione, infatti, dispone: “Restano sottoposti al
regime dei rifiuti i prodotti, le materie prime e le materie prime secondarie
ottenuti dalle attività di recupero che
non vengono destinati in modo oggettivo ed effettivo all’utilizzo nei cicli di
consumo o di produzione.”
Sembra
quindi certo che il prodotto della attività di recupero, consistente nella
trasformazione del rifiuto in materia prima secondaria, non può considerarsi
“rifiuto” sempre e comunque, ma solo in quanto non sia effettivamente
utilizzato.
Tale
impostazione del problema, che emerge pianamente dalla normativa vigente
all’epoca dei fatti, ha trovato formale conferma ad opera
del d.l. 8 luglio 2002 n. 138, convertito con modificazioni nella legge 8
agosto 2002 n. 178. L’art. 14 della novella, intitolato “Interpretazione
autentica della definizione di <
Si rivela
dunque priva di ogni consistenza, ed anzi testualmente smentita,
l’argomentazione dei primi giudici, contestata dall’appellante, secondo cui
non sarebbe sostenibile che il possibile reimpiego produttivo sia idoneo a
sottrarre il rifiuto alla disciplina vigente per tali materiali.
Così
ricostruito il quadro normativo di riferimento, non resta che verificare se il
materiale di cui è stata imposto l’allontanamento con le ordinanze impugnate
poteva legittimamente considerarsi un rifiuto, per di più “abbandonato”,
ossia, per quanto si è detto sopra, se si trattava di materiale destinato ad
una operazione di recupero, nel qual caso sarebbe ricaduto sotto la disciplina
del d.lgs. n. 22, ovvero veniva impiegato così come l’impresa lo acquisiva
dalla ditta tedesca che lo
produceva, e detenuto in vista del graduale utilizzo nella produzione di sedie o
componenti di sedie in plastica.
Può
considerarsi assodato, in primo luogo, che l’impresa appellante all’epoca
dell’adozione delle ordinanze impugnate (luglio 2000) non utilizzava materie
diverse dal DKR. Ne dà atto la Regione Friuli Venezia Giulia - Direzione
regionale dell’Ambiente - nella nota 10 febbraio 2000 in atti, in relazione ad
una riunione tenutasi il precedente 13 gennaio 2000.
Ne
consegue che i riferimenti, menzionati nella premesse delle ordinanze impugnate,
alla presenza nello stabilimento di
materiali descrivibili come rifiuti da recuperare (bottiglie plastica, scarti di
cartiera, big bags) riguardavano una situazione non più in atto. La nota
dell’Azienda per i servizi sanitari n. 3 Alto Friuli, del 1 marzo 2000,
menzionata nello stesso contesto, e in atti, riferisce infatti una situazione
accertata con sopralluogo del 20 ottobre del 1999.
Escluso
quindi che l’impresa appellante detenesse i suddetti rifiuti suscettibili di
attività di recupero, resta da stabilire se il DKR, unico materiale impiegato
per la produzione dei manufatti potesse qualificarsi come materia prima
secondaria, utilizzabile senza ulteriori modificazioni o processi di recupero.
La
soluzione non può che essere affermativa.
L’impresa
appellante ha documentato, anche tramite
perizia chimica (doc. 33), che il DKR costituisce il prodotto di un procedimento
di trasformazione di materie plastiche, eseguito in Germania presso una Società
specializzata nel riciclaggio della plastica, e caratterizzato da proprietà che
lo rendono idoneo al reimpiego immediato senza ulteriori trasformazioni
preliminari.
Non ha
formato oggetto di contestazione, d’altra parte,
la descrizione del processo produttivo contenuta nell’atto di appello,
dalla quale risulta la utilizzazione del DKR così come pervenuto dalla ditta
fornitrice.
Siamo
quindi in presenza di una attività del tutto estranea allo smaltimento, ma
anche al recupero di rifiuti, perché il materiale utilizzato non può
considerarsi tale ai sensi dell’art. 14 del d.l. 8 luglio 2002 n. 138, citato
più sopra.
In
conclusione i provvedimenti impugnati risultano adottati in assenza dei
presupposti richiesti dall’art. 14 del d.lgs. n. 22/1977 e sono pertanto
illegittimi.
Va
tuttavia tenuto presente che l’accoglimento dell’appello non incide sui
profili di rischio per la salute e per l’ambiente, che fossero da mettere in
relazione all’attività industriale svolta dall’appellante, e il cui esame
esula dall’oggetto del presente giudizio. Le considerazioni svolte in
proposito nella sentenza di prime cure devono considerarsi irrilevanti in quanto
i provvedimenti impugnati non
recano nella motivazione alcun preciso riferimento alle problematiche testè
menzionate.
La spese
possono essere compensate.
P.Q.M.
Il
Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta,
accoglie
l’appello in epigrafe, e, per
l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo
grado;
dispone
la compensazione delle spese;
ordina
che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.
Così
deciso in Roma,
nella
camera di consiglio del 2 dicembre
2003 con l'intervento dei magistrati:
Agostino
Elefante
Presidente
Corrado
Allegretta
Consigliere
Aldo
Fera
Consigliere
Francesco
D’Ottavi
Consigliere
Marzio
Branca
Consigliere est.