Consiglio di Stato Sez. IV n. 8098 del 31 agosto 2023
Ambiente in genere.Ambito di applicazione del principio di precauzione
La valutazione scientifica del rischio deve essere preceduta – logicamente e cronologicamente – dall’«identificazione di effetti potenzialmente negativi derivanti da un fenomeno» e comprende, essenzialmente, quattro componenti: l’identificazione del pericolo, la caratterizzazione del pericolo, la valutazione dell’esposizione e la caratterizzazione del rischio. Essa consiste, dunque, in un processo scientifico che deve necessariamente spettare a esperti scientifici, cioè agli scienziati. La valutazione scientifica deve fondarsi su «dati scientifici affidabili» e su un ragionamento logico «che porti ad una conclusione, la quale esprima la possibilità del verificarsi e l’eventuale gravità del pericolo sull’ambiente o sulla salute di una popolazione data, compresa la portata dei possibili danni, la persistenza, la reversibilità e gli effetti ritardati». Il principio di precauzione consente, quindi, di adottare, sulla base di conoscenze scientifiche ancora lacunose, misure di protezione che possono andare a ledere posizioni giuridiche soggettive, sia pure nel rispetto del principio di proporzionalità inteso nella sua triplice dimensione di idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto. Se, dunque, la fase della valutazione del rischio è caratterizzata prevalentemente (anche se non esclusivamente) dalla “scientificità”, la fase di gestione del rischio si connota altrettanto prevalentemente (anche se non esclusivamente) per la sua “politicità”. Ne deriva che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Regione appellante, il principio di precauzione non può legittimare un’interpretazione delle disposizioni normative, tecniche ed amministrative vigenti in un dato settore che ne dilati il senso fino a ricomprendervi vicende non significativamente pregiudizievoli. La sua corretta applicazione non conduce automaticamente a vietare ogni attività che, in via di mera ipotesi, si assuma foriera di eventuali rischi per la salute delle persone e per l'ambiente, in assenza di un riscontro oggettivo e verificabile, richiedendo, di contro, una seria e prudenziale valutazione, alla stregua dell'attuale stato delle conoscenze scientifiche disponibili, dell’attività che potrebbe ipoteticamente presentare dei rischi, valutazione consistente nella formulazione di un giudizio scientificamente attendibile.
Pubblicato il 31/08/2023
N. 08098/2023REG.PROV.COLL.
N. 08841/2019 REG.RIC.
N. 08963/2019 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8841 del 2019, proposto da Regione Puglia, in persona del Presidente di Regione pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Francesco Amato, con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Stelio Mangiameli in Roma, via Alessandro Poerio 56;
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, in presona del Presidente del Consiglio pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Ministero dello Sviluppo Economico, , in persona dei Ministri pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti
Global Med, Llc, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Emanuele Turco, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
sul ricorso numero di registro generale 8963 del 2019, proposto da Regione Puglia, in persona del Presidente di Regione pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Francesco Amato, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Stelio Mangiameli in Roma, via Alessandro Poerio 56;
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e Ministero dello Sviluppo Economico, in persona dei Ministri pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti
Global Med Llc, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Emanuele Turco, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma.
quanto al ricorso n. 8841 del 2019:
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 09569/2019;
quanto al ricorso n. 8963 del 2019:
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sede di Roma, Sezione Seconda, n. 11004/2019.
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e di Ministero per i Beni e le Attività Culturali, del Ministero dello Sviluppo Economico e di Global Med Llc;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 giugno 2023 il Cons. Luigi Furno e uditi per le parti gli avvocati come da verbale.
FATTO
Con il ricorso in primo grado la Regione Puglia ha impugnato il Decreto del Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare n. 250 del 26 settembre 2017, recante la compatibilità ambientale di un progetto consistente nell’effettuazione di una indagine sismica 2D in relazione alla ricerca di idrocarburi denominato ‘d 90 F.R-GM’ presentato dalla Società Global MED.
A sostegno del gravame la ricorrente ha lamentato in primo luogo l’elusione del divieto di superamento dell’estensione massima dell’area di ricerca (750 Kmq) previsto dall’art. 6, comma 2, della legge n. 9 del 1991”.
In particolare, ad avviso della ricorrente, il frazionamento delle domande sarebbe stato artatamente posto in essere al dichiarato fine di eludere il predetto divieto legislativo.
Ciò in considerazione del fatto che le zone interessate darebbero luogo “a un’area unitaria, la cui superficie supera ampiamente quella massima consentita, senza che l’escamotage di avviare quattro distinti procedimenti possa, per ciò solo, legittimare un siffatto comportamento elusivo”.
Muovendo da siffatta premessa la ricorrente ha tratto la conclusione per cui: “non può che rilevarsi come i lavori della Commissione VIA e, di conseguenza, l’atto ministeriale impugnato siano inficiati in radice dal vizio di eccesso di potere nella forma dello sviamento di potere, per esser tesi a superare, con escamotage procedimentali, un limite legale”.
Con un secondo motivo di ricorso, la ricorrente ha dedotto: “elusione del divieto di superamento dell’estensione massima dell’area di ricerca, quand’anche l’attività fosse inquadrata nell’ambito della prospezione di idrocarburi”.
A giudizio della ricorrente, l’art. 6, comma 2, della legge n. 9 del 1991, si riferirebbe esclusivamente all’attività di ricerca, mentre il permesso di prospezione sarebbe regolato dal precedente art. 3.
Di qui la conclusione per cui: “Il divieto sembra quindi riferirsi alla sola ricerca di idrocarburi e non anche alla prospezione. A nulla varrebbe pertanto obiettare che l’attività assentita col Decreto impugnato consista in operazioni riconducibili anche alla prospezione di idrocarburi. Pertanto, il limite spaziale di 750 Kmq coinvolge in ogni caso le attività assentite dal Decreto impugnato”.
Con il terzo motivo di ricorso ha censurato “l’irragionevole utilizzo della tecnica dell’air-gun”, la quale, a suo dire, contrasterebbe con la Direttiva 2008/56/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 giugno del 2008 (recepita con Decreto legislativo n. 190 del 2010) relativa alla istituzione di un quadro normativo per l’azione comunitaria nel campo della politica per l’ambiente marino.
Il giudice di prime cure ha rigettato il ricorso, in particolare rilevando che la disciplina di cui alla Legge n. 9/1991 sarebbe ispirata, non tanto dall’esigenza di salvaguardare l’ambiente, quanto, piuttosto, dalla necessità di favorire la concorrenza e il razionale sfruttamento degli idrocarburi.
A sostegno dell’assunto ha richiamato il contenuto dell’art. 3 comma 3 d. lgs. n. 625/96 a tenore del quale: “Il territorio nazionale e le zone del mare territoriale e della piattaforma continentale gia' aperte alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi in base alle disposizioni della legge 21 luglio 1967, n.613, di seguito denominata legge n.613 del 1967, sono disponibili in maniera permanente alle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, fermi restando i limiti previsti dalle discipline generali e speciali vigenti in materia di tutela dell'ambiente terrestre, marino e costiero; le aree per le quali sono gia' stati conferiti permessi di ricerca e concessioni di coltivazione divengono disponibili dopo la scadenza del titolo minerario o dopo l'emanazione del provvedimento che le rende libere.
2. Con decreto del Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato possono essere determinate ulteriori aree nell'ambito della piattaforma continentale italiana da aprire alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi.
3. L'accesso alle attivita' di cui al comma 1 ed il loro esercizio sono disciplinate dal presente decreto garantendo che non vi siano discriminazioni tra enti richiedenti o titolari; resta ferma per l'Amministrazione la facolta' di negare, per motivi di sicurezza nazionale, l'autorizzazione all'accesso o all'esercizio delle attivita' di cui all'articolo 2 a qualsiasi ente effettivamente controllato da Stati o cittadini non appartenenti alla Unione europea”.
Sulla scorta di tale premessa interpretativa, il giudice di prime cure ha evidenziato che il limite territoriale dei 750 kmq, previsto per i permessi di ricerca (e non, in verità, anche per quelli di mera prospezione) dagli artt. 6 comma 2 l. m. 9/91 e 9 comma 1 d. lgs. n. 625/96, si riferisce esclusivamente ai singoli procedimenti finalizzati al rilascio di ciascun titolo, proprio perché funzionale alla tutela della concorrenza e al razionale sfruttamento delle risorse, e non già complessivamente all’operatore economico destinatario del permesso.
Ha, quindi, concluso nel senso che la suindicata normativa non prevede un limite di 750 mq per i permessi di ricerca conseguibili dal medesimo operatore, in quanto consentirebbe che uno stesso operatore possa risultare destinatario di più titoli abilitativi, anche per aree contigue, purché ogni istanza venga presentata per un’estensione inferiore a 750 kmq, e ogni autorizzazione sia rilasciata all’esito di un distinto procedimento, posto in essere secondo le disposizioni dettate dalla legge.
Contro questa decisione è stato proposto appello con il quale sono stati criticamente riproposti i motivi del ricorso di primo grado.
Si sono costituiti per resistere il Ministero dell’ambiente e della Tutela del Territorio del Mare e la Società Global ME chiedendo il rigetto dell’appello.
In vista dell’udienza del’8 giugno 2023 le parti hanno ulteriormente specificato e argomentato le rispettive posizioni giuridiche.
Alla pubblica udienza dell’8 giugno 2023 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
In via preliminare, il Collegio osserva che, essendo stati gli appelli indicati in epigrafe proposti nei confronti della medesima sentenza, gli stessi devono essere riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.
La questione all’esame del Collegio attiene, in estrema sintesi, alla esatta individuazione della ragione giustificativa del divieto di superamento dell’estensione massima dell’area di ricerca (750 Kmq) previsto dall’art. 6, comma 2, della legge n. 9 del 1991.
3. L’appello non è fondato.
4. Con l’atto di appello la Regione Puglia deduce:
I) erroneità della sentenza impugnata per la ritenuta infondatezza del primo motivo del ricorso di primo grado, col quale era stata denunciata l’elusione del divieto di superamento dell’estensione massima dell’area di ricerca (750 Kmq) previsto dall’art. 6, comma 2, della legge n. 9 del 1991;
II) erroneità della ritenuta infondatezza del primo motivo del ricorso di primo grado, col quale era stata denunciata l’irragionevole utilizzo della tecnica dell’air-gun;
III) erroneità della sentenza impugnata sotto il profilo della non corretta applicazione del principio di precauzione, con particolare riferimento alla sottovalutazione delle evidenze scientifiche relative ai danni causati dall’uso dell’air-gun;
IV) erroneità della sentenza impugnata sotto il profilo della non corretta applicazione dei principi che dovrebbero orientare il sindacato giudiziale sull’esercizio della discrezionalità tecnica;
V) Omessa pronuncia in ordine alla violazione della Direttiva 2008/56/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 giugno del 2008 (recepita con Decreto legislativo n. 190 del 2010).
5. Questa Sezione, con ordinanza n. 1154/2020, ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, la seguente questione interpretativa: “se la direttiva 94/22/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 maggio 1994 vada interpretata nel senso di ostare ad una legislazione nazionale quale quella descritta, che da un lato individua come ottimale ai fini del rilascio di un permesso di ricerca di idrocarburi un’area di una data estensione, concessa per un periodo di tempo determinato - nella specie un’area di 750 chilometri quadrati per sei anni- e dall’altro lato consente di superare tali limiti con il rilascio di più permessi di ricerca contigui allo stesso soggetto, purché rilasciati all’esito di distinti procedimenti amministrativi”.
6. Con la sentenza del 13 gennaio 2022, resa nella causa c-110/20, la Corte di Giustizia ha stabilito il principio di diritto secondo cui “la direttiva 94/22 e l'articolo 4, paragrafi 2 e 3, della direttiva VIA devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale che prevede un limite massimo all'estensione dell'area oggetto di un permesso di ricerca di idrocarburi, ma non vieta espressamente di rilasciare a uno stesso operatore più permessi per aree contigue che insieme coprano una superficie superiore a detto limite, purché una tale concessione possa garantire l'esercizio ottimale dell'attività di ricerca di cui trattasi sotto il profilo tanto tecnico quanto economico nonché la realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla direttiva 94/22”.
7. In base alle coordinate interpretative poste dalla Corte di Giustizia, con la suddetta sentenza, vanno pertanto respinti i motivi di appello primo e quinto. In tale direzione si è orientato di recente anche il precedente, in termini, di questa Sezione n. 4586/22.
8. Con il secondo mezzo di gravame l’appellante si duole della erroneità della sentenza impugnata per la ritenuta infondatezza del primo motivo del ricorso di primo grado, col quale era stata denunciata l’irragionevole utilizzo della tecnica dell’air-gun –ovvero “una tecnica piuttosto controversa, in riferimento alla quale, non a caso, è stato recentemente disposto (art. 25, comma 3, d.lgs. n. 145/2015) che Il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, anche avvalendosi dell’ISPRA, trasmette annualmente alle Commissioni parlamentari competenti un rapporto sugli effetti per l’ecosistema marino della tecnica dell’air-gun”.
8.1. Il motivo non è fondato.
Il Collegio osserva che quando, come nella specie, viene in rilievo l’esercizio della c.d. discrezionalità tecnica, il sindacato giudiziale, al fine di assicurare il rispetto del principio costituzionale della separazione dei poteri, è consentito soltanto quando risulti violato il principio di ragionevolezza.
L’appellante, tuttavia, non ha prospettato censure di irragionevolezza tecnica.
Le censure articolate a tal riguardo attengono, infatti, al merito delle scelte amministrative e, in quanto tali, non sono suscettibili di sindacato giudiziale.
Peraltro, le censure relative alla affermata pericolosità della tecnica dell’air-gun per l’ambiente marino si rivelano, sulla base delle valutazioni effettuate dall’Autorità preposta alla cura degli interessi pubblici coinvolti, anche infondate.
Dal decreto di compatibilità impugnato in primo grado (e dagli atti a esso presupposti) emerge, infatti, l’effettuazione di una rigorosa valutazione ex ante, da parte della Commissione Tecnica, dei potenziali rischi connessi all’utilizzo della tecnica dell’air-gun, oltre che una complessiva analisi di tutta l’attività di indagine posta in essere dai soggetti richiedenti i permessi di ricerca nell’intera area.
Quanto osservato trova puntuale riscontro nelle numerose prescrizioni contenute nei provvedimenti impugnati, finalizzate proprio a scongiurare potenziali rischi connessi all’utilizzo della tecnica dell’air-gun, coerentemente con i principi ispiratori della direttiva 2008/56/CE, e con il principio di precauzione.
Da tanto discende l’infondatezza del motivo esaminato.
9.Con il terzo motivo di appello si assume la non corretta applicazione del principio di precauzione.
9.1. Il motivo non è fondato.
9.2. Il principio di precauzione consiste, come noto, in un criterio di gestione del rischio in condizioni di incertezza scientifica.
Esso risponde, dunque, alla necessità di fronteggiare e/o gestire i c.d. “rischi incerti”.
Muovendo da tale preliminare considerazione, è possibile coglierne il principale tratto distintivo rispetto all’idea di “prevenzione”.
Mentre, infatti, la prevenzione può entrare in gioco solo a fronte di “rischi certi”, ossia in presenza «di rischi scientificamente accertati e dimostrabili, ovverosia in presenza di rischi noti, misurabili e controllabili», la precauzione, al contrario, trova il proprio campo di applicazione allorché un determinato rischio risulti ancora caratterizzato da margini più o meno ampi di incertezza scientifica circa le sue cause o i suoi effetti.
Il fondamento concettuale della logica precauzionale, come rilevato da autorevole dottrina, può essere ricondotto al principio del cosiddetto maximin, in base al quale, quando si tratta di assumere una decisione in condizioni di incertezza, le scelte devono essere valutate tenendo conto del peggior scenario possibile in termini di possibili conseguenze.
Ne discende che, in nome dell’idea di precauzione, l’intervento preventivo non può attendere l’inconfutabile prova scientifica degli effetti dannosi, ma deve essere predisposto sulla base di attendibili valutazioni di semplice possibilità/probabilità del rischio, sulla base delle conoscenze scientifiche e tecniche “attualmente” e “progressivamente” disponibili.
9.3. Grazie all’elaborazione della giurisprudenza euro-unitaria, il principio di precauzione ha trovato una esplicita qualificazione giuridica quale “principio generale del diritto comunitario”.
Nella prima pronuncia significativa in tema (c.d. sentenza Artegodan Tribunale CE, Seconda Sezione ampliata, 26 novembre 2002, in cause riunite T-74/00 e altre,Artegodan GmbH e aa. c. Commissione delle Comunità europee,) il giudice europeo ha affermato che il principio di precauzione costituisce «il principio generale del diritto comunitario che fa obbligo alle autorità competenti di adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente, facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici».
Nella successiva elaborazione giurisprudenziale, i giudici europei hanno avuto modo di individuare, con maggiore dettaglio, gli elementi qualificanti del principio di precauzione, chiarendo, innanzitutto, che «la valutazione del rischio non può basarsi su considerazioni puramente ipotetiche» e che deve sussistere comunque la «probabilità di un danno reale» (Così Tribunale CE, Seconda Sezione ampliata, 26 novembre 2002, in cause riunite T-74/00 e altre, Artegodan GmbH e aa. c. Commissione delle Comunità europee). Proprio in relazione ai “connotati” di fatto che deve assumere il rischio da fronteggiare, risultano estremamente significativi i passaggi argomentativi della c.d. “sentenza Pfizer”( Cfr. Tribunale CE, Sez. III, 11 settembre 2002, in causa T-13/99, Pfizer Animal Health SA c. Consiglio dell’Unione europea)nella quale si legge : «Nel contesto dell’applicazione del principio di precauzione – che è per definizione un contesto d’incertezza scientifica – non si può esigere che una valutazione dei rischi fornisca obbligatoriamente alle istituzioni comunitarie prove scientifiche decisive sulla realtà del rischio e sulla gravità dei potenziali effetti nocivi in caso di avveramento di tale rischio. (..) Tuttavia, (..) una misura preventiva non può essere validamente motivata con un approccio puramente ipotetico del rischio, fondato su semplici supposizioni non ancora accertate scientificamente. (..) Dal principio di precauzione, come interpretato dal giudice comunitario, deriva, al contrario, che una misura preventiva può essere adottata esclusivamente qualora il rischio, senza che la sua esistenza e la sua portata siano state dimostrate pienamente” da dati scientifici concludenti, appaia nondimeno sufficientemente documentato sulla base dei dati scientifici disponibili al momento dell’adozione di tale misura. (..) Il principio di precauzione può, dunque, essere applicato solamente a situazioni in cui il rischio, in particolare per la salute umana, pur non essendo fondato su semplici ipotesi non provate scientificamente, non ha ancora potuto essere pienamente dimostrato. In un tale contesto, la nozione di “rischio” corrisponde dunque ad una funzione della probabilità di effetti nocivi per il bene protetto dall’ordinamento giuridico cagionati dall’impiego di un prodotto o di un processo. La nozione di pericolo è, in tale ambito, usata comunemente in un’accezione più ampia e definisce ogni prodotto o processo che possa avere un effetto negativo per la salute umana (..). Di conseguenza, in un contesto come quello del caso di specie, la valutazione dei rischi ha ad oggetto la stima del grado di probabilità che un determinato prodotto o processo provochi effetti nocivi sulla salute umana e della gravità di tali potenziali effetti».
A conclusioni sostanzialmente analoghe è giunta la giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. Consiglio di Stato, Sezione Terza, n. 6655/2019).
9.4. Nel campo specifico dell’azione amministrativa a tutela dell’ambiente, l’attuazione del principio di precauzione è garantita dall’art. 301 del d.lgs. n. 152 del 2006 espressamente rubricata «Attuazione del principio di precauzione», nella quale si fa riferimento all’«alto livello di protezione» che «deve essere assicurato» nei casi «di pericoli, anche solo potenziali, per la salute umana e per l’ambiente», precisandosi che l’applicazione di tale principio «concerne il rischio che comunque possa essere individuato a seguito di una preliminare valutazione scientifica obiettiva».
Sempre nel d.lgs. n. 152 del 2006, all’art. 3-ter, si stabilisce, in via generale, che «la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché al principio “chi inquina paga” che, ai sensi dell’articolo 174, comma 2, del Trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale».
La valutazione scientifica del rischio deve essere preceduta – logicamente e cronologicamente – dall’«identificazione di effetti potenzialmente negativi derivanti da un fenomeno» e comprende, essenzialmente, quattro componenti: l’identificazione del pericolo, la caratterizzazione del pericolo, la valutazione dell’esposizione e la caratterizzazione del rischio. Essa consiste, dunque, in un processo scientifico che deve necessariamente spettare a esperti scientifici, cioè agli scienziati.
La valutazione scientifica deve fondarsi su «dati scientifici affidabili» e su un ragionamento logico «che porti ad una conclusione, la quale esprima la possibilità del verificarsi e l’eventuale gravità del pericolo sull’ambiente o sulla salute di una popolazione data, compresa la portata dei possibili danni, la persistenza, la reversibilità e gli effetti ritardati».
Il principio di precauzione consente, quindi, di adottare, sulla base di conoscenze scientifiche ancora lacunose, misure di protezione che possono andare a ledere posizioni giuridiche soggettive, sia pure nel rispetto del principio di proporzionalità inteso nella sua triplice dimensione di idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 27 dicembre 2013, n. 6250).
Se, dunque, la fase della valutazione del rischio è caratterizzata prevalentemente (anche se non esclusivamente) dalla “scientificità”, la fase di gestione del rischio si connota altrettanto prevalentemente (anche se non esclusivamente) per la sua “politicità”.
Ne deriva che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Regione appellante, il principio di precauzione non può legittimare un’interpretazione delle disposizioni normative, tecniche ed amministrative vigenti in un dato settore che ne dilati il senso fino a ricomprendervi vicende non significativamente pregiudizievoli (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 27.12.2013, n. 6250; Cons. Giust. Amm. Sicilia Sez. giurisd., 3.09.2015, n. 581).
La sua corretta applicazione non conduce automaticamente a vietare ogni attività che, in via di mera ipotesi, si assuma foriera di eventuali rischi per la salute delle persone e per l'ambiente, in assenza di un riscontro oggettivo e verificabile, richiedendo, di contro, una seria e prudenziale valutazione, alla stregua dell'attuale stato delle conoscenze scientifiche disponibili, dell’attività che potrebbe ipoteticamente presentare dei rischi, valutazione consistente nella formulazione di un giudizio scientificamente attendibile.
Peraltro, come già rilevato in relazione all’esame del secondo mezzo di gravame, molte delle censure formulate dalla Regione appellante in relazione all’applicazione del principio di precauzione risultano volte a sindacare l’opportunità delle scelte, tecniche e amministrative, rimesse all’Autorità preposta alla cura degli interessi pubblici coinvolti, mirando, in ultima analisi, a sostituire alle contestate valutazioni, che non superano mai la soglia dell’abnormità o della manifesta illogicità, le proprie soluzioni.
10. Con il quarto motivo di appello si assume l’erroneità della sentenza impugnata sotto il profilo della non corretta applicazione dei principi che dovrebbero orientare il sindacato giudiziale sull’esercizio della discrezionalità tecnica. Si assume a tal riguardo che, benché la sentenza di primo grado abbia fatto applicazione del prevalente orientamento giurisprudenziale, cionondimeno, l’orientamento invocato sarebbe da rimeditare in base al principio di effettività della tutela giudiziale di cui all’art. 24 della Costituzione.
10.1 Il motivo non è fondato.
La giurisprudenza di questa Sezione, con orientamento univoco, da cui il Collegio non intende discostarsi, ha chiarito (ex multis cfr., Cons. St., Sez. IV del 28 febbraio 2018):
a) la sostituzione, da parte del giudice amministrativo, della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione costituisce ipotesi di sconfinamento vietato della giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla p.a., quand’anche l’eccesso in questione sia compiuto da una pronuncia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell’area dell’annullamento dell’atto;
b) in base al principio di separazione dei poteri sotteso al nostro ordinamento costituzionale, solo l’amministrazione è in grado di apprezzare, in via immediata e diretta, l’interesse pubblico affidato dalla legge alle sue cure;
c) conseguentemente, il sindacato sulla motivazione delle valutazioni discrezionali:
I) deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto acquisiti;
II) non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa;
L’applicazione di tali principi al caso di specie conduce al rigetto di quest’ultimo motivo di gravame.
11.Per le ragioni esposte l’appello deve essere rigettato.
12. In ragione della parziale novità delle questioni sottese al gravame in esame, il Collegio ravvisa eccezionali ragioni, ex artt. 26 comma 1, c.p.a, e 92, c.p.c, per compensare integralmente le spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sugli appelli riuniti, come in epigrafe proposti:
rigetta gli appelli;
dichiara integralmente compensate tra tutte le parti costituite le spese del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 giugno 2023 con l'intervento dei magistrati:
Vincenzo Lopilato, Presidente FF
Luca Lamberti, Consigliere
Francesco Gambato Spisani, Consigliere
Silvia Martino, Consigliere
Luigi Furno, Consigliere, Estensore