1979.
È indetta la prima Conferenza mondiale sul clima e si riconosce come urgente il
problema dei mutamenti climatici. Il mondo scientifico denuncia come le
alterazioni in atto possono avere effetti di lungo periodo sull’uomo e
l’ambiente. La Conferenza termina
con una dichiarazione rivolta a tutti i capi di Stato mondiali “affinché
tengano conto degli sconvolgimenti in corso e mettano in atto le politiche
necessarie al benessere dell’umanità”. Si stabilisce anche di dare vita al
World Climate Programme (WCP) sotto la diretta responsabilità della World
Meteorological Organization (WMO), l’United Nations Environment Programme (UNEP)
e l’International Council of Scientifics Unions (ICSU).
Fine
anni 80 primi anni 90: sono
indette varie Conferenze intergovernative sui cambiamenti climatici. Villach
Conference (Ottobre 1985), Toronto Conference (giugno 1988), Ottawa Conference
(febbraio 1989), Tata Conference (Febbraio 1989), Hague Conference (Marzo 1989),
la Noordwijk Conference (novembre 1989), Cairo Conference (dicembre 1989),
Bergen Conference (maggio1990) e la Seconda conferenza mondiale sul clima
(novembre 1990).
1990:
l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) pubblica il suo primo
rapporto sul clima. Il Panel è stato istituito dall’Unep e dal Wmo nel 1988.
1990,
dicembre. L’Assemblea
generale delle Nazioni Unite approva l’avvio di un negoziato per la stesura di
un trattato internazionale. La Commissione incaricata indice 5 conferenze fra
febbraio 1991 e maggio 1992. La deadline era chiara a tutti: la Conferenza
mondiale sull’Ambiente di Rio de Janeiro, giugno 1992. Per quell’occasione e
in meno di 15 mesi, 150 Paesi si misero d’accordo sul testo della Convenzione,
adottato a New York il 9 maggio 1992.
1992:
la Convenzione sui cambiamenti climatici viene firmata da 154 Stati (più la
Comunità Europea) a Rio de Janeiro.
1994,
21 marzo: la Convenzione entra in vigore. Con essa, dal 21 settembre, tutti i
Paesi in via di sviluppo cominciano ad inviare i dati in loro possesso sui
mutamenti climatici nazionali.
1995,
febbraio: la Cop (conferenza delle parti) diventa l’Autorità per la
Convenzione.
1995.
dal 28 marzo al 7 aprile viene indetta la prima Cop, con 117 delegati e 53 paesi
a status di osservatore.
1995.
L’Ipcc pubblica il suo secondo rapporto sul clima. Allo studio hanno lavorato
oltre 2mila scienziati di tutto il mondo. Per la prima volta si parla di
processo irreversibile in atto.
1997.
dicembre. Conferenza di Kyoto. 10mila, fra delegati, osservatori e giornalisti,
partecipano a questa conferenza dal primo all’11 dicembre. In questa sede si
stila il Protocollo (detto di Kyoto) d’attuazione della Convenzione sul clima.
Per definire meglio i dettagli operativi
del Protocollo vengono indette le successive 5 Cop (la numero 6 è doppia, una
parte a l’Aia, la seconda a Bonn nel luglio del 2001), ultima delle quali a
Marrkech, novembre 2001.
2001.
Esce il terzo rapporto sul clima dell’Ipcc che non lascia spazio ai dubbi: il
riscaldamento del pianeta e i mutamenti climatici sono una realtà più evidente
che mai.
2.
Protocollo di Kyoto: istruzioni per l’uso
Che
cos'è e che cosa prevede il protocollo di Kyoto?
Firmato nel dicembre del 1997, il
protocollo di Kyoto indica gli obiettivi internazionali per la riduzione di sei
gas cosiddetti ad effetto serra, ritenuti responsabili del riscaldamento globale
del pianeta che potrebbe portare a gravissime modifiche del clima. L'obiettivo
fissato è una riduzione media del 5,2 per cento dei livelli di emissione del
1990, nel periodo 2008- 2012. Per alcuni Paesi è prevista una riduzione
maggiore (8 per cento l'Unione europea, 7 per cento gli Stati Uniti, 6 per cento
il Giappone). Per altri Paesi, considerati in via di sviluppo, sono stati
fissati obiettivi minori. Per la Russia e l'Ucraina, ad esempio, l'obiettivo da
raggiungere è la stabilizzazione sui livelli del 1990.
Tutti
i Paesi dovranno ridurre le emissioni?
No, solo per 39 Paesi - quelli
relativamente più sviluppati - sono stati fissati obiettivi da raggiungere nel
quinquennio 2008-2012. Per altri Paesi è prevista una riduzione maggiore (8 per
cento l'Unione europea, 7 per cento gli Stati Uniti, 6 per cento il Giappone).
Per altri Paesi, sono stati fissati obiettivi minori. Per la Russia e l'Ucraina,
ad esempio, l'obiettivo da raggiungere è la stabilizzazione sui livelli del
1990. L'Australia è riuscita a negoziare un incremento dell'8 per cento.
Che
cos'è l'effetto serra e da quali gas è provocato?
L'effetto serra è un fenomeno
naturale che assicura il riscaldamento della terra grazie a gas naturalmente
presenti nell'atmosfera come l'anidride carbonica, l'ozono, il perossido di
azoto, vapore acqueo e metano. Senza l'effetto serra, la temperatura terrestre
potrebbe avere una media inferiore anche di 30 gradi centigradi rispetto a
quella attuale. Con la rivoluzione industriale, e con l'uso massiccio di
combustibili fossili, la presenza di questi gas capaci di trattenere il calore
è però molto aumentata nell'atmosfera causando un anomalo riscaldamento.
Il protocollo di Kyoto disciplina le
emissioni di anidride carbonica, metano, protossido di azoto, perfluorocarburo,
idrofluorocarburo e esafloruro di zolfo.
L'obiettivo
fissato dal protocollo di Kyoto è ambizioso?
Secondo un recente studio dell'Ipcc,
il gruppo di studio intergovernativo sui cambiamenti climatici che riunisce i
maggiori esperti mondiale, perdurando la situazione attuale un raddoppio delle
concentrazioni di anidride carbonica porterà a un aumento della temperature
globale quantificabile tra 1,4 e 5,8 gradi centigradi entro il prossimo secolo.
Secondo il comitato ci sono prove
"chiare" dell'influenza umana sul clima ed è probabile che i gas 'a
effetto serra' immessi dall'uomo nell'atmosfera "abbiano già
sostanzialmente contribuito al riscaldamento osservato negli ultimi 50
anni".
Per invertire la rotta, sarebbe
necessario un drastico taglio di almeno il 60 per cento delle emissioni di gas '
a effetto serra'. L'obiettivo fissato da Kyoto è oltre dieci volte inferiore.
Esiste
un collegamento certo tra i gas 'serra' e l'aumento della temperatura terrestre?
Si. La conferma arriva dalla maggior
parte degli istituti di ricerca mondiali. Ipcc compreso. Dati e cifre mostrano
la correlazione tra l'aumento delle emissioni di questi gas e l'aumento della
temperatura media della Terra. Dal 1860 - all'inizio della rivoluzione
industriale - a oggi, la temperatura della Terra si è alzata tra 0,3 e 0,6
gradi centigradi. Da quando sono iniziate le misurazioni, gli anni Novanta sono
stati nel complesso il decennio più caldo, e il 1998 è stato l'anno più caldo
mai registrato in assoluto. Nonostante questo, le lobby interessate al settore
dei Paesi industrializzati sostengono invece che questo legame non è dimostrato
e sottolineano il fatto che il processo di riscaldamento non è stato uguale
ovunque e che ci sono zone in cui quest'aumento non c'è stato o non è stato
significativo.
Quali
potrebbero essere le conseguenze dell'effetto serra sulla Terra?
Molti modelli climatici indicano che
già ora il riscaldamento del pianeta provoca in diverse aree un aumento nella
frequenza e nella durata di eventi estremi come piogge, alluvioni e siccità.
Nell'ultimo secolo il livello del mare è cresciuto globalmente di 10-25
centimetri, probabilmente proprio a causa dell'aumento della temperatura
terrestre che ha provocato lo scioglimento dei ghiacci polari.
Un aggravamento del fenomeno
porterebbe un ulteriore scioglimento dei ghiacci (con conseguente aumento del
livello dei mari), un aumento delle precipitazioni nell'emisfero Nord e una
crescita della siccità in quello Sud, e in generale a un'estremizzazione degli
eventi meteorologici.
Per
l'Italia il rischio maggiore è quello dell'innalzamento del livello del mare,
che potrebbe far scomparire molte delle zone costiere più belle del Paese.
Cosa
è necessario fare perché il protocollo di Kyoto diventi un impegno vincolante?
Perché il protocollo di Kyoto entri
in vigore è necessario che sia ratificato almeno dal 55 per cento dei Paesi che
l'hanno sottoscritto (sono 84, in tutto). Questi Paesi però devono avere un
'peso' inquinante pari ad almeno il 55 per cento delle emissioni del 1990.
L'impegno a ridurre le emissioni deve cioè essere preso da "grandi
inquinatori" per divenire vincolante per tutti. Se lo sottoscrivono tanti
Paesi piccoli e poco inquinatori, questo non è sufficiente.
All'inizio di aprile 2001 la
convenzione di Kyoto era stata ratificata soltanto da 33 Paesi, tutti in via di
sviluppo: Antigua e Barbuda, Azerbaijan, Bahamas, Barbados, Bolivia, Cipro,
Ecuador, El Salvador, Guinea equatoriale, Fiji, Georgia, Giamaica, Guatemala,
Guinea, Honduras, Kiribati, Lesotho, Maldive, Messico, Micronesia, Mongolia,
Nicaragua, Niue, Palau, Panama, Paraguay, Romania, Samoa, Trinidad e Tobago,
Turkmenistan, Tuvalu, Uruguay e Uzbekistan. Alcuni di questi hanno ratificato il
protocollo anche se nel 1990 non lo avevano firmato.
Tra i Paesi che hanno ratificato
l'accordo, vi sono diverse isole che con l'innalzamento del livello degli oceani
provocato dal riscaldamento globale rischiano di scomparire, mentre non ha
ratificato la convenzione nessuno dei grandi Paesi industrializzati che
potrebbero portare al raggiungimento del quorum del 55 per cento necessario per
l'entrata in vigore del trattato.
Se, come annunciato dal presidente
George W. Bush, gli Stati Uniti - che da soli rappresentano il 36,1 per cento
delle emissioni di anidride carbonica - non ratificheranno l'accordo, sarà
quindi indispensabile che tutte le altri grandi potenze si impegnino a
ratificarlo per raggiungere il quorum previsto per l'entrata in vigore del
trattato. Tra gli altri "grandi inquinatori" ci sono l'Unione europea
il 24,2 per cento delle emissioni e la Russia il 17,4 per cento e il Giappone
con l'8,5 per cento. Il trattato sarà vincolante solo per i Paesi che lo
ratificheranno.
3.
Il compromesso di Marrakech
Il vertice sul riscaldamento del
clima globale (e i dettagli di attuazione del Protocollo di Kyoto) si è chiuso
a Marrakech i primi di novembre con un modesto compromesso. Assolutamente
ridimensionato l'obiettivo di riduzione dei gas serra (in particolare anidride
carbonica, CO2) responsabili dell'aumento della temperatura terrestre, e in
generale allentati (e in alcuni casi addirittura scomparsi) gli strumenti per
raggiungere tale obiettivo. Incentivato, invece, il ruolo della riforestazione
(i cosiddetti sink) nell'assorbimento della CO2, e consentita la possibilità
che un Paese venda ad altri le sue riduzioni in eccesso di gas serra, ciò che
un tempo veniva considerata un'esecranda concessione al mercato da evitare
almeno per i prossimi due lustri.
Ma facciamo un passo indietro:
quattro anni fa il protocollo di Kyoto prevedeva la riduzione del 5,2% rispetto
al '90 delle emissioni di CO2 entro il 2012. A forza di rimaneggiamenti
quell'accordo - dopo la lunga notte di Marrakech - ora non garantisce che un
abbattimento delle emissioni responsabili dell'effetto serra dell’1.5%. Le
cifre, insomma, parlano da sole anche ai non addetti ai lavori.
Resta il fatto che per la prima
volta si è trovato un accordo internazionale sull’ambiente, e questo
soprattutto grazie al ruolo centrale giocato dall’Unione europea. Ma il prezzo
pagato per questo successo politico, in termini ambientali è stato elevato.
Vediamo perché.
I sink
A giocare la parte del leone, in
questa partita marocchina, sono stati i cosiddetti sink, i pozzi di assorbimento
di Co2 che di fatto sono i polmoni verdi del nostro pianeta: le foreste. Il
principio è molto semplice: un Paese può inquinare 5 e possedere o piantare
alberi in qualsiasi parte del mondo (tanto il problema dell’inquinamento è
globale) in grado di assorbire 5. E il debito, voilà, è risanato, senza aver
minimamente ritoccato il proprio parco industriale.
Secondo l’Unione europea, il
ricorso ai sink doveva essere escluso fino al 2012 e doveva in ogni caso
rispettare il principio di supplementarietà, vale a dire il principio secondo
il quale ogni Paese doveva primariamente impegnarsi a rinnovare il proprio
settore industriale ed energetico orientandolo verso le energie rinnovabili.
Già a Bonn, lo scorso luglio, era
saltata l’esclusione dei sink nel primo periodo di attuazione del Protocollo,
ma almeno si era deciso che questo strumento potesse coprire fino al 10% degli
obiettivi di riduzione di ogni Paese. Bene, dopo Marrakech il vincolo del 10% è
sparito. In teoria, dunque, un Paese è libero di ridurre le proprie emissioni
anche solo attraverso i sink, senza intervenire con delle adeguate politiche
energetiche nazionali.
Emission
Trading (Mercato delle emissioni)
Strettamente collegato ai Sink è il
mercato delle emissioni. Russia e Giappone, a Marrakech, hanno premuto affinché
questo mezzo (di fatto sempre alternativo a politiche di riconversione
industriale) venisse “pompato” al massimo. E dopo notti convulse, hanno
avuto partita vinta. La Russia di Putin ha ottenuto un aumento del proprio parco
sink inimmaginabile fino a poche ore prima della conclusione della Conferenza. E
da una tabella iniziale che fissava a 17 i milioni di tonnellate di carbonio
assorbibili dalle proprie foreste ogni anno, è passata a 33. Un surplus che il
Giappone è già pronto ad acquistare e che di fatto gli garantisce
l’abbattimento della sua quota di inquinamento.
Ma il mercato delle emissioni, che
funziona come un qualunque altro mercato, è uno strumento fondamentale anche
per le singole industrie. Chi produce più anidride carbonica di quanto
consentito può infatti decidere sia di investire per ridurre le sue emissioni,
sia acquistare il diritto a inquinare da chi è sotto il limite massimo. Il
meccanismo, in linea teorica, dovrebbe accendere un processo virtuoso, visto che
rappresenta un costo (con effetti sulla competitività) per chi non investe in
ecologia, e induce le imprese a comportarsi bene, poiché un investimento nelle
tecnologie più efficienti può rappresentare anche un credito da rivendere sul
mercato. Peccato che ci sia un
ma…
Le sanzioni
Affinché un Paese e un’industria
siano incentivati ad un comportamento politically correct, sono necessarie delle
sanzioni per chi razzola bene e pratica male: ovvero per chi ratifica il
Protocollo ma non lo rispetta. L’Unione europea su questo punto sembrava non
voler cedere di un millimetro. Ma quando il suo irrigidimento sembrava potesse
far fallire ogni ipotesi di accordo, è tornata sui suoi passi. Questa volta con
un compromesso: i vincoli legali saranno stabiliti solo nel 2003 e in ogni caso,
fino al 2012, nessun Paese incorrerà in punizioni di alcun tipo se non ridurrà
il proprio livello di inquinamento.
I paradossi, dunque, ci sono tutti,
ma questo non significa una totale sconfitta. Seppur indebolito, il Protocollo
è pur sempre un’indispensabile piattaforma di lancio di nuove politiche
ambientali. Da oggi in poi tutti dovranno tenerne conto, Italia compresa.
Affinché questo avvenga è però indispensabile compiere il primo passo: la
ratifica entro il prossimo giugno. L’iter è chiaro: per diventare vincolante
il Protocollo di Kyoto deve essere approvato da 55 nazioni che rappresentino
almeno il 55% delle emissioni di Co2, sempre riferite al '90, l'anno della
Convenzione di Rio. Gli Stati Uniti, si sa, per ora sono fuori. Ma tutti gli
altri dicono di starci dentro. Una bella sfida.
Le emissioni nel mondo
Stato |
Emissione
percentuale di CO2 |
USA |
19% |
Cina |
11,9% |
Giappone |
9,4% |
Germania |
3,9% |
India |
3,4% |
Africa |
3,2% |
Sud
America |
2,7% |
Regno
Unito |
2,5% |
Canada |
1,8% |
Italia |
1,8% |
Oceania |
1,3% |
4.
Mari, Oceani e zone costiere
Il
livello globale dei mari è salito tra i 10 e i 20 centimetri negli ultimi 100
anni. Il tasso di crescita
è stato di 1/2 mm l’anno, circa 10 volte più veloce del tasso osservato
negli ultimi 3mila anni. La principale causa è collegata ad un aumento della
temperatura che oscilla fra i 0.2° - 0.6° gradi centigradi dal 1860 ad oggi.
Effetti collaterali di questo mutamento includono: riscaldamento della
temperatura marina, scioglimento dei ghiacci e degli iceberg, maggiore
evaporazione e cambiamenti nel mondo alimentare marino.
Le
proiezioni dicono che il livello del mare crescerà tra i 9 e gli 88 cm. entro
il 2100. Il modello di
analisi ha tenuto conto della espansione delle acque dovuta al riscaldamento
degli oceani e l’iniezione di acque “nuove” dovute dallo scioglimento di
ghiacci e iceberg. Il livello, la grandezza e la direzione delle acque
varieranno moltissimo a livello locale e regionale, adeguandosi alla
conformazione costiera, alla modifica e alterazione delle correnti, alle maree e
ai movimenti verticali della crosta terrestre. I livelli dei mari continueranno
a crescere per centinaia di anni anche dopo una nuova stabilizzazione delle
temperature terrestri.
Zone
costiere e piccole isole: a grandissimo rischio.
Modificate dalla mano dell’uomo e intensamente sfruttate negli ultimi decenni
sono, soprattutto per questo motivo, estremamente vulnerabili rispetto
all’innalzamento delle acque. I Paesi in via di sviluppo con le loro
debolissime economie e istituzioni corrono i rischi più gravi, ed anche le
coste meno antropizzate sono in pericolo. Rispetto a 100 anni fa, il 70% delle
spiagge mondiali si sono ridotte.
Allagamenti
ed erosioni delle coste: sempre peggio.
L’intrusione di acqua salata ridurrà la qualità e la quantità delle riserve
di acqua potabile. L’innalzamento delle acque sarà anche la causa di eventi
estremi come alte maree, onde anomale, tsunami (una serie di onde oceaniche
generate solitamente - ma non solo - da terremoti il cui epicentro si trova sul
fondale marino o nelle immediate vicinanze e che, dopo aver percorso anche
migliaia di chilometri attraversando interi oceani, si abbattono come
giganteschi muri d'acqua sulle coste, distruggendo tutto ciò che incontrano sul
loro cammino).
E ancora: l’innalzamento provocherà
la contaminazione delle riserve di acqua potabile di Israele, della Thailandia,
di moltissimi atolli dell’Oceano Pacifico e indiano, dei Caraibi, inondando
anche alcuni dei più importanti e produttivi delta del mondo, come quello dello
Yangtse (Cina) e del Mekong (Vietnam).
Immediati
danni economici. ..Si
prevede un crollo delle riserve alimentari prodotte nelle zone costiere:
allevamenti ittici, acquacolture e agricoltura saranno particolarmente
vulnerabili. Ma a rischio sono anche altri settori, come il turismo. Il
risultato sarà una lenta ma inesorabile emigrazione delle popolazioni costiere
verso zone più riparate.
…e
sanitari. Lo spostamento di
intere comunità, soprattutto quelle con scarse risorse, incrementerà il
rischio di infezioni sanitarie e l’insorgere di patologie psicologiche.
Insetti, virus, batteri ma anche animali possibili portatori di malattie,
provocheranno malattie quando non epidemie.
Ecosistemi
costieri. Le zone costiere
conservano alcuni degli ecosistemi più ricchi e vari del pianeta, come le
foreste di mangrovie, le barriere coralline e i prati marini. I piccoli delta e
gli atolli corallini sono particolarmente sensibili ai cambiamenti climatici e
all’intensificarsi (o viceversa) di piogge e tempeste. Le barriere coralline
crescono abbastanza in fretta da non subire alterazioni per l’innalzamento dei
livelli dei mari, ma risentono enormemente dell’aumento di temperatura.
Ecosistemi
oceanici. I mutamenti
climatici non provocano soltanto un innalzamento delle acque ma riducono anche
le calotte marine: una riduzione superiore al 14% è stata rilevata nel circolo
polare artico fra il 1980 ed oggi, mentre una riduzione del 25% è stata
misurata in Antartide fra il 1950 ed i primi anni ’70.
I cambiamenti climatici alterano
anche i flussi di circolazione delle acque e incidono sulla riproduzione animale
e vegetale delle specie oceaniche, provocando danni gravissimi anche
all’ecosistema marino.
5. Clima e salute
I
cambiamenti climatici avranno effetti radicali sulla salute umana.
La salute dipende da diversi fattori: cibo, acqua, pulizia, assistenza
sanitaria, controllo delle malattie infettive. Tutti fattori strettamente
correlati al clima.
Le
ondate di calore incidono sul nostro sistema cardiovascolare e respiratorio.
Malattie e decessi per questi motivi sono destinati a crescere, soprattutto fra
anziani e popolazioni povere. E mentre i rischi più gravi sono attesi nelle
città a media ed alta latitudine, gli inverni più miti ridurranno con ogni
probabilità i decessi per freddo in alcuni Paesi.
Periodi di caldo improvviso sempre
più frequenti e ravvicinati, se non addirittura vere inversioni climatiche (un
fenomeno meteo che impedisce la dispersione degli inquinanti) e incendi
peggioreranno radicalmente la qualità dell’aria in molte città.
Riducendo
le riserve d’acqua potabile, i cambiamenti climatici metteranno in pericolo le
risorse acquifere e la salubrità delle acque.
L’emergenza è già scattata: in molti Paesi le riserve d’acqua
potabile e pulita (utile a bere e lavarsi) stanno seriamente diminuendo,
mettendo in crisi i già scarsi sistemi di controllo sanitario delle aree più
disagiate. Concentrazioni di
batteri e altri microrganismi sono alla base di molte delle nuove epidemie in
Africa, India, Sud-est asiatico. Non solo: la scarsità delle acque obbliga la
gente ad utilizzarne altra di bassa qualità e spesso a rischio, come quelle dei
fiumi, sovente contaminate. Il risultato: dissenteria, malattie infettive, cecità
e altre gravi patologie.
Ogni ulteriore variazione – sia di frequenza sia d’intensità – del clima peggiorerà la situazione.
Ondate di calore, inondazioni, cicloni e siccità causano morte e malattie, migrazioni d’intere popolazioni, epidemie e gravissimi problemi psicologici. E mentre il mondo scientifico rimane incerto su come i cambiamenti climatici incideranno sulla frequenza di tornado e cicloni, non ha invece alcun dubbio nel prevedere che alcune regioni saranno vittima d’alluvioni e siccità. In aumento anche le inondazioni costiere (dovute all’aumento delle acque) con gravissimi danni alle già povere economie locali.
Clima
e alimentazione. L’operazione
è delle più semplici: troppe piogge o troppo caldo mettono a rischio qualsiasi
tipo di coltura, provocando malnutrizione carestia, con conseguenze di lungo
periodo devastanti sotto il profilo sanitario, soprattutto nei bambini.
Le
alte temperature alterano la distribuzione geografica delle specie e facilitano
la trasmissione delle malattie. In
un mondo più caldo, zanzare, insetti, zecche e roditori possono allargare le
loro aree di sopravvivenza e quindi il loro raggio d’azione. Secondo gli studi
dell’Organizzazione mondiale della Sanità, la malaria aumenterà
vertiginosamente provocando un considerevole aumento dei decessi. Il motivo è
presto detto: andando a diffondersi fra popolazioni non avvezze alla
malattia, il virus non incontrerà praticamente ostacoli sul suo cammino.
Ma numerose sono le patologie in
aumento: febbre gialla, dengue, sindromi polmonari acute, malattia di Lyme,
encefaliti fulminanti. E ancora: il ristagno dell’aria dovuto all’aumento
delle temperature, farà aumentare i casi d’asma, allergie e malattie
cardio-respiratorie.
Il riscaldamento dei mari inciderà sulla nostra salute. Sono molti gli studi che confermano la correlazione fra l’aumento dei casi di colera e l’aumento della temperatura nelle acque della Baia del Bengala. Così come quelli che confermano il processo di causa-effetto fra El Nino e le epidemie di malaria e dengue. La crescita d’agenti patogeni marini mettono a rischio il mondo animale marino.
L’arma
della prevenzione.
Molti dei danni fin qui prospettati possono essere ridotti con degli
interventi mirati. Il più urgente di questi è quello di ricostruire (quando
non costruire dal principio) le infrastruttura sanitarie nei Paesi in via di
sviluppo. Alcune malattie provocate dalle alterazioni del clima, possono essere
“limitate” da programmi d’educazione sanitaria, dal regolare monitoraggio
delle acque, dalle vaccinazioni di massa e dai depuratori d’aria.
6. Ecosistemi e biodiversità
Biodiversità:
la principale risorsa dello sviluppo ambientale, della crescita economica e dei
nostri modelli culturali, è seriamente messa in crisi dai rapidi cambiamenti
climatici. La composizione e
la distribuzione geografica dei diversi ecosistemi mondiali muterà con la
stessa velocità del clima. Molti habitat subiranno delle pressioni
irreversibili e le specie incapaci di adeguarsi al cambiamento si estingueranno,
senza possibilità di ritorno.
Gli
effetti del riscaldamento globale su specie ed ecosistemi.
Sono almeno 420 i cambiamenti accertati dal mondo scientifico su specie e
comunità. Fra questi: i flussi migratori dei volatili, anticipati in primavera
e posticipati in autunno; un allungamento di 11 giorni nella crescita delle
piante da giardino europee (fra il 1959 ed il 1993). Una precoce riproduzione
d’uccelli, anfibi, farfalle e libellule.
La
difficoltà delle foreste.
Osservazioni sul campo, esperimenti e modelli scientifici hanno dimostrato che
basta un incremento della temperatura di un solo grado per alterare il
funzionamento e la composizione delle foreste. Le specie esistenti incapaci di
sopravvivere saranno soppiantate da nuove, provocando un’alterazione
dell’ecosistema. Nuove malattie decimeranno le foreste, assieme agli incendi,
in continuo aumento. A rischio soprattutto le aree alle più alte latitudini,
che si riscalderanno più di quelle equatoriali. Un esempio: le foreste boreali
subiranno alterazioni maggiori rispetto a quelle tropicali e dei climi
temperati. La foresta boreale dell’Alaska si sta già espandendo verso nord al
tasso di 100 chilometri per grado centigrado.
Il
ruolo delle foreste nel sistema climatico.
Sono la nostra maggiore riserva di carbonio, contenendo circa l’80% del
carbonio presente nella vegetazione terrestre e circa il 40% del carbonio
presente nel suolo. Enormi quantità di carbonio potrebbero essere rilasciate
nell’atmosfera durante il cosiddetto periodo di transizione da un tipo di
foresta ad un altro se il tasso di mortalità dei fusti fosse più veloce di
quello della ricrescita.
Le foreste, inoltre, incidono sul
clima a livello locale e regionale, influenzando la temperatura del terreno, i
processi di evaporazione e traspirazione, la formazione delle nuvole e le
precipitazioni.
Aumento
dei deserti e delle aree semi-aride.
Tranne poche eccezioni, le proiezioni affermano che i deserti diventeranno più
caldi ma non significativamente più umidi.
Montagne.
Il continuo assottigliamento dei ghiacciai, del permafrost e del manto nevoso
incide (e sempre più incideranno) sulla stabilità dei suoli e sul sistema
idrogeologico. Non solo: specie (e relativi ecosistemi) quando possibile migrano
a valle, in altri casi si estinguono. Studi mirati hanno dimostrato che alcune
piante alpine si stanno spostando al ritmo di 4 metri ogni dieci anni e che
alcune specie sono già scomparse.
7. Disastri climatici ed eventi estremi: tre esempi
Clima
e comunità umane. Le popolazioni fortemente dipendenti dal commercio
ittico, dall’agricoltura e da altre risorse naturali corrono i rischi
maggiori. Assieme alle popolazioni dislocate intorno ai delta dei fiumi e nelle
zone costiere. In alcuni casi gli studi parlano di una riduzione degli ettari di
terreno coltivabile del 40/60%. Una diminuzione indotta dal riscaldamento delle
temperature, dal maggior tasso di evaporazione e dalla scarsità di
precipitazioni. La pesca sarà invece danneggiata dal riscaldamento delle acque,
che mette in pericolo la sopravvivenza di numerose specie.
Le
infrastrutture diventeranno più vulnerabili a inondazioni e smottamenti.
Violente e frequenti precipitazioni intensificheranno le inondazioni urbane. Gli
smottamenti peggiori si prevedono nelle zone collinose.
I
cicloni tropicali porteranno maggiore distruzione.
Conosciuti anche come uragani e tifoni, l’effetto devastante dei cicloni sarà
potenziato dall’aumento delle piogge violente, dei venti e del livello del
mare. Il rischio vero è che il riscaldamento della superficie marina farà
aumentare a dismisura la formazione di questi fenomeni.
8. Mutamenti climatici e conseguenze in Europa
«Il consenso registrato fra gli
scienziati sul cambiamento di clima dovrebbe essere un campanello d'allarme in
ogni capitale, in ogni comunità. Dobbiamo andare avanti in modo coraggioso
verso le tecnologie pulite e ci dobbiamo preparare all'innalzamento dei livelli
dei mari, allo stravolgimento delle stagioni delle piogge e alle altre
conseguenze dell'aumento delle
temperature». A parlare così è Robert T. Watson, presidente dell’Ipcc
(intergovernamental panel on climate change).
In un rapporto di oltre mille
pagine, al quale hanno collaborato centinaia di scienziati, ci sono i risultati
di simulazioni e modelli matematici, da cui derivano scenari futuri peggiori di
quelli elaborati finora. Ecco che cosa aspetta l'Europa.
Clima.
È previsto un aumento generale delle temperature annuali, più accentuato
d'inverno e alle latitudini boreali (+2,5°-4,5°). Più incerte le previsioni
sulle precipitazioni. La maggior parte dei modelli matematici mostra un aumento
delle piogge come conseguenza di un più alto contenuto di vapore acqueo
nell'atmosfera. Le precipitazioni invernali nel Nord Europa potrebbero aumentare
fino al 20 per cento, mentre quelle estive dovrebbero restare invariate, o
diminuire nelle regioni mediterranee e nell'Europa centrale.
Ecosistemi.
La vegetazione risponde al cambiamento di clima in modo diretto (la temperatura)
e in modo indiretto ai suoi effetti: umidità del suolo, incendi, presenza di
erbivori e parassiti. Prima sorpresa: gli adattamenti evolutivi sono molto rari.
Di fronte a un cambiamento di clima, le piante si distribuiscono diversamente
anziché mutare caratteri. Un’ipotesi è che le piante avanzino lentamente
verso Nord, affrontando problemi come le barriere umane e naturali, la
competizione con le specie che già presidiano quel territorio, l'adattamento
alle nuove condizioni ambientali. Ha invece un positivo effetto fertilizzante
l'aumento di anidride carbonica, che moltiplica praticamente tutti i raccolti
tranne il mais. La condizione è che ci sia acqua a sufficienza, ma le piante
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Adattamenti.
L'uomo dovrà intervenire per ridurre l'impatto del clima e guidare
l'adattamento degli ecosistemi alla nuova realtà. Per assecondare l'avanzata
delle piante verso Nord occorrerà creare dei “corridoi migratori”, anche se
sono difficili da localizzare, data la densità della popolazione. Si dovranno
riforestare ampie zone, magari le terre agricole abbandonate, per creare nuovi
habitat per le specie che il caldo spinge a Nord. Per ridurre l'impatto sulla
zone umide, invece, occorre curare la vegetazione delle rive e riportare i corsi
d'acqua al loro spazio originario. Se poi si riducesse l'inquinamento e lo
sfruttamento dei terreni, le piante avrebbero meno stress su quel fronte e
potrebbero concentrare le energie su quello climatico.
Corsi
d’acqua. Le montagne,
soprattutto le Alpi, riforniscono d'acqua la maggior parte dei fiumi europei. La
portata di fiumi importanti come il Reno, il Rodano e il Danubio (attraverso
l'Inn) dipende dall'accumulo invernale di neve e dal suo scioglimento estivo e
influenza la vita nelle pianure di tutta Europa: industrie, agricoltura,
trasporti fluviali. Come ha dimostrato l'alluvione del '97 in Polonia, Germania
e nella repubblica ceca, i sistemi tradizionali di difesa sono inadeguati e i
cambiamenti nei regimi delle acque possono avere effetti devastanti. La linea
delle nevi eterne sale di 150 metri ogni grado in più.
Il fatto che nevichi più tardi e si
sciolga più presto sta cambiando il regime dei fiumi, che sono in piena
all'inizio della primavera e in secca d'estate, quando per giunta piove sempre
meno. Gli unici a rallegrarsi di questa situazione sono i produttori di energia
idroelettrica, che possono generare la massima produzione quando c'è la massima
domanda.
Ghiacci.
Tutti i ghiacciai del mondo perderanno nei prossimi cent'anni circa il 25 per
cento della loro massa, ma le Alpi faranno peggio. Metà dei ghiacciai originari
si sono già sciolti dal 1850 a oggi, e il 95 per cento di quelli rimasti si
scioglierà entro il 2100. Conseguenze: significative riduzioni nei corsi
d'acqua e problemi di stabilità dei costoni montuosi. La criosfera è
considerato l'habitat più a rischio, perché non ci sono contromisure
all'impatto del caldo sul ghiaccio. L'acqua sarà un bene che non si potrà più
sciupare.
Coste.
Si ipotizza un innalzamento medio del livello dei mari di 5 millimetri l’anno
(2-9 millimetri sono gli estremi), che però interagisce con altri elementi
difficilmente valutabili: i movimenti della crosta terrestre, la circolazione
oceanica, i venti, le tempeste, i picchi di caldo. In molte zone d'Europa la
popolazione, l'attività economica e la terra fertile sono concentrate nelle
zone costiere, il che renderà drammatico l'aumento del livello del mare.
Salute.
Più malattie legate ai colpi di caldo e meno malattie da raffreddamento. Più
malattie respiratorie (il caldo e l'umido aumentano la concentrazione di tutte
le sostanze che infastidiscono le vie respiratorie) e malattie infettive, per il
proliferare nel caldo e nell'umido di vettori come zanzare e acari.
9. Previsioni per l’Italia
Secondo le previsioni degli esperti,
a causa dei cambiamenti climatici il nostro Paese verrebbe a trovarsi diviso in
due fasce climatiche ben marcate.
Al Sud avremo una forte riduzione
delle precipitazioni annue, con una concentrazione di sporadici fenomeni
violenti nell’arco di pochi giorni; un processo che nel lungo periodo potrebbe
causare la desertificazione di vaste aree pianeggianti e frane ed erosioni nelle
aree montane. Al Nord, si avrà invece un aumento delle precipitazioni,
anch’esse concentrate stagionalmente, in grado di causare alluvioni e dissesti
sempre maggiori.
Ambiente Italia, l'Istituto di Ricerche di Legambiente, ha provato a proiettarsi alla fine del XXI secolo per vedere cosa potrebbe succedere in Sicilia per effetto del caldo e della desertificazione. Ebbene per il 2100 è previsto un aumento del "caldo" compreso tra i 2 ed i 3,2 gradi centigr