Consiglio di Stato, Sez, VI, n. 1906, del 9 aprile 2013
Beni Culturali.Vincolo archeologico e ruderi disseminati

L’effettiva esistenza delle cose da tutelare può essere dimostrata anche per presunzione ed è ininfluente che i materiali oggetto di tutela siano stati portati alla luce o siano ancora interrati, essendo sufficiente che il complesso risulti adeguatamente definito e che il vincolo archeologico appaia adeguato alla finalità di pubblico interesse al quale è preordinato. L’amministrazione dei beni culturali ed ambientali può estendere il vincolo ad intere aree in cui siano disseminati ruderi archeologici particolarmente importanti, è necessario, però, in tal caso, che i ruderi stessi costituiscano un complesso unitario ed inscindibile, tale da rendere indispensabile il sacrificio totale degli interessi dei proprietari e senza possibilità di adottare soluzioni meno radicali, evitandosi, in ogni caso, che l’imposizione della limitazione sia sproporzionata rispetto alla finalità di pubblico interesse cui è preordinata. (Segnalazione e massima a cura di F. Albanese)

N. 01906/2013REG.PROV.COLL.

N. 01896/2007 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1896 del 2007, proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali, in persona del Ministero pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

Il signor Montieri Angelo, rappresentato e difeso dall’avvocato Antonello Tornitore, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Cola di Rienzo, 271;

per la riforma

della sentenza 29 maggio 2006, n. 6209, del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Napoli, Sezione VII.



Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

viste le memorie difensive;

visti tutti gli atti della causa;

relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 marzo 2013 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti l’avvocato dello Stato Cristina Gerardi e l’avvocato Mario Esposito, per delega dell’avvocato Tornitore.



FATTO e DIRITTO

1.– Il signor Montieri Angelo è proprietario di un terreno coltivato a frutteto che si trova nel Comune di Mugnano, località Torricello, identificato con la particella n. 289 del foglio 4 del catasto di Napoli.

Con provvedimento 24 gennaio 2006, n 10 il Ministero per i beni e le attività culturali – muovendo dal presupposto che nella predetta località si trovano resti archeologici relativi ad una vasta necropoli di epoca preromana nonché «un praedium» di età romana – ha dichiarato gli immobili interessati da tali resti, indicati in apposita planimetria, compreso quello del signor Montieri, di interesse particolarmente importante.

Nel provvedimento impugnato si afferma, inoltre, che «considerata l’attuale destinazione d’uso prevalentemente agricola dell’area, si evidenzia che arature al di sotto dei 40 cm e piantumazione profonde, nonché sterri, dissodamenti e terrazzamenti devono essere opportunamente controllati e sottoposti al preventivo parere della Soprintendenza per i beni archeologici, al fine di assicurare la conservazione e l’integrità del contesto archeologico».

1.1.– Col ricorso n. 2104 del 2006, tale provvedimento è stato impugnato innanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Sezione settima, che, con sentenza 29 maggio 2006, n. 6209, ha accolto il ricorso. In particolare, si è affermato che:

a) «la parte monumentale di maggiore evidenza (…) si colloca a distanza notevole (40/50 Km) dalla proprietà del ricorrente, allocata non solo ai margini dell’area vincolata», ma «inframmezzata da estese aree invece non vincolate senza che ne sia dato cogliere la ragione»;

b) l’amministrazione non ha tenuto conto in maniera adeguata della forte incidenza che il provvedimento ha sull’attività svolta dal ricorrente.

Si è concluso, pertanto, che l’imposizione del vincolo si è basata su una «presunzione sfornita di adeguato supporto probatorio».

2.– Il Ministero per i beni e le attività culturali ha proposto appello per i motivi indicati nei successi punti.

2.1.– Si è costituito in giudizio il ricorrente in primo grado, chiedendo che l’appello venga dichiarato non fondato.

2.2.– Con ordinanza 2 aprile 2007, n. 1611, questa Sezione ha rigettato la domanda cautelare.

3.– Con un unico, articolato motivo, l’appellante ha dedotto che:

a) la distanza tra la proprietà dell’appellato e i reperti di interesse archeologico è di circa 450 metri e non di 45/50 Km;

b) la circostanza che alcune aree non sono ancora sottoposte a vincolo non potrebbe costituire un elemento di illegittimità del provvedimento impugnato, in quanto si tratta di una scelta improntata a «logiche di progressività»;

c) la determinazione assunta costituisce il risultato di un equilibrato bilanciamento degli interessi,in quanto l’amministrazione ha voluto evitare di procedere alla più invasiva occupazione dell’area per l’effettuazione degli scavi.

4.– Ritiene la Sezione che l’appello sia fondato.

5.– Il decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137), disciplina il procedimento amministrativo per la dichiarazione di interesse culturale di beni specificamente indicati, i poteri di vigilanza e controllo del Ministero competente, le modalità di protezione “diretta” dei beni stessi (si vedano, in particolare, gli articoli 10, 18, 19 e 20 e seguenti).

La giurisprudenza di questo Consiglio, con orientamento formatosi nella vigenza della legge 1° giugno 1939, n. 1089, ma con affermazioni estensibili al nuovo sistema, ha già avuto modo di rilevare che, ai fini della tutela vincolistica su beni archeologici, «l’effettiva esistenza delle cose da tutelare può essere dimostrata anche per presunzione e che è ininfluente che i materiali oggetto di tutela siano stati portati alla luce o siano ancora interrati, essendo sufficiente che il complesso risulti «adeguatamente definito e che il vincolo archeologico appaia adeguato alla finalità di pubblico interesse al quale è preordinato» (Cons. Stato, VI, 1° marzo 2005, n. 805).

La stessa giurisprudenza ha specificato che «l’amministrazione dei beni culturali ed ambientali può estendere il vincolo ad intere aree in cui siano disseminati ruderi archeologici particolarmente importanti: è necessario, però, in tal caso, che i ruderi stessi costituiscano un complesso unitario ed inscindibile, tale da rendere indispensabile il sacrificio totale degli interessi dei proprietari e senza possibilità di adottare soluzioni meno radicali, evitandosi, in ogni caso, che l’imposizione della limitazione sia sproporzionata rispetto alla finalità di pubblico interesse cui è preordinata» (Cons. Stato. VI, n. 5069 del 2005).

Più recentemente la Sezione, in relazione ad una fattispecie analoga alla presente, ha affermato che «quando si tratta della imposizione del vincolo archeologico, è del tutto ovvio che l’autorità amministrativa ritenga di sottoporre a tutela una intera area complessivamente abitata nell’antichità e solo eventualmente cinta da mura, comprendendovi anche gli spazi verdi, dal momento che le esigenze di salvaguardia riguardano non i reperti in sé e solo in quanto addossati gli uni agli altri, ma complessivamente tutta la complessiva superficie destinata illo tempore all’insediamento umano» (Cons. Stato, VI, 29 gennaio 2013, n. 522).

6.– Nel caso in esame il Ministero per i beni e le attività culturali, con l’adozione del provvedimento impugnato, 24 gennaio 2006, n 10, ha affermato che: a) nel Comune di Mugnano, in località Torricello, si trovano resti archeologici relativi ad una vasta necropoli di epoca preromana nonché «un praedium» di età romana; b) gli immobili interessati da tali resti, indicati in apposita planimetria, compreso quello di proprietà della parte appellata, sono stati dichiarati di interesse particolarmente importante.

Nella relazione storico-archeologica, richiamata da tale provvedimento, si rileva che: i) nell’area del Torricello sono riscontrabili «diffuse presenze archeologiche attestanti una intensa frequentazione dell’area in età romana»; ii) si tratta soprattutto «di ambienti e resti murari da riferire alle strutture abitative e murarie di un praedium cui lo stesso Torricello dovette appartenere»; iii) la zona «appare largamente frequentata sin dal IV-III secolo a.C., come dimostrano non solo i risultati delle recenti indagini archeologiche condotte in località Paparelle (sottoposta già a vincolo), ma anche i numerosi nuclei di necropoli a cassa di tufo preromana le cui tracce risultano sia dalla continua attività di scavatori clandestini, che lascia spesso in evidenza blocchi di tufo, sia dalle regolari lavorazioni agricole».

Dopo avere esposto quanto sopra si afferma che, in un tale ambito territoriale, «costituente un comprensorio archeologico omogeneo», «le diffuse presenze archeologiche sul territorio attestano l’estensione della necropoli anche verso est in direzione di Napoli e secondo la suddetta direttrice viaria antica» investendo la particella in esame 289, «interessata da presenze che sembrano indiziare l’esistenza dell’insediamento rurale».

7.– Le riportate valutazioni tecniche svolte dall’amministrazione sono esenti dai vizi riscontrati dal primo giudice alla luce delle tre argomentazioni (una “positiva” e due “negative”) svolte dall’appellante.

A) In primo luogo, assume particolare rilevanza la circostanza che «la parte monumentale di maggiore evidenza» si colloca, rispetto alla proprietà dell’appellato, ad una distanza di soli 450 metri e non alla «distanza notevole» di «40/50 Km» indicata dal primo giudice.

Né varrebbe rilevare, come fa la parte appellante, che «l’eccezione in ordine alla distanza di 450 metri anziché di 40/50 Km sollevata in sede di appello è inammissibile».

Innanzitutto, nella specie non si tratta di una ‘eccezione’ in senso tecnico proposta per la prima volta in sede di appello, ma il richiamo ad una ‘distanza’ e dunque ad una circostanza di fatto obiettiva, che ad avviso dell’appellante è stata del tutto travisata dal Tar.

Inoltre, il principio di non contestazione non è stato correttamente invocato dall’appellante.

Sul punto deve rilevarsi che il principio di non contestazione, codificato dall’art. 64, secondo comma, cod. proc. amm., è un principio generale che presiede allo svolgimento dell’attività istruttoria. Nel caso in esame, la difesa dell’amministrazione svolta in primo grado, mediante, in particolare, il rinvio alla nota n. 1191 del 2006 redatta dal Ministero, ha contestato nella sua interezza la ricostruzione operata dall’originario ricorrente.

Inoltre, sotto altro aspetto, l’operatività del principio in esame presuppone che i fatti non possano essere ricostruiti, come è avvenuto nella specie, alla luce della documentazione prodotta nel giudizio. In altri termini, non viene in rilievo un fatto che, non supportato da prove, deve ritenersi dimostrato in assenza di una specifica contestazione.

La questione relativa alla distanza effettiva emerge dagli atti del giudizio e, in quanto tale, non può ricostruirsi alla luce del principio in esame.

Del resto, la stessa parte appellata non ha affermato che la distanza indicata nell’atto di appello non sia quella obiettivamente esistente (né ha fornito elementi che possano indurre a ritenere ben maggiore la distanza intercorrente tra il terreno in questione ed il luogo ove sono stati ritrovati i reperti), ma si è limitata a ritenere che tale indicazione costituisce il risultato di una attività difensiva non consentita.

B) In secondo luogo, la circostanza evidenziata nella sentenza, secondo cui alcune aree incluse nella zona omogenea in esame non sono state sottoposte a vincolo, non implica, come correttamente rilevato dall’appellante, che le determinazioni già assunte siano illegittime, ben potendo l’amministrazione procedere gradualmente nello svolgimento della propria attività di tutela del patrimonio culturale.

C) Infine, per quanto attiene all’esigenza di tutela del privato messa in rilievo nella sentenza impugnata, non vale obiettare che la misura assunta sia sproporzionata rispetto all’interesse pubblico protetto.

Ciò in quanto le limitazioni poste al diritto di proprietà devono essere interpretate, in coerenza con le prospettate esigenza di tutela, nel senso che non occorre che la parte appellata debba ottenere il rilascio di un apposito parere (o di una formale autorizzazione) da parte della Soprintendenza ogni volta intenda effettuare l’aratura al di sotto dei 40 cm. E’ sufficiente, infatti, che – con congruo anticipo – la parte comunichi all’amministrazione i periodi in cui deve procedere, nel corso dell’anno, all’aratura in modo da consistere all’amministrazione stessa di svolgere gli opportuni controlli (fermi restando i suoi poteri sanzionatori, ove l’aratura abbia luogo senza aver reso possibili tali controlli).

Il preventivo parere (da intendere quale formale previa autorizzazione) è, invece, richiesto nel caso in cui devono essere poste in essere le altre attività specificamente indicate nel provvedimento impugnato. In altri termini, proprio al fine di assicurare il rispetto del principio di proporzionalità, il provvedimento impugnato deve essere interpretato nel senso che i controlli e i pareri, da esso richiamati, si riferiscono rispettivamente all’aratura e alle altre attività.

8.– In definiva, per le ragioni sin qui esposte, deve ritenersi che l’amministrazione ha imposto un vincolo incidente su un insieme omogeneo e unitario di beni. Mediante un corretto utilizzo della tecnica delle presunzioni, l’amministrazione è risalita ad un fatto ignoto mediante l’analisi di precisi e concordanti fatti noti specificamente indicati (si veda Cons. Stato, VI, n. 522 del 2013, cit.).

Non potendosi, pertanto, ritenere, come affermato dal primo giudice, che «si è di fronte ad una mera presunzione sfornita di adeguato supporto probatorio», l’appello è fondato, con conseguente rigetto del ricorso di primo grado.

9.– L’esito del giudizio, unitamente alla natura della controversia, giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese dei due gradi di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando accoglie, nei sensi di cui in motivazione, l’appello e, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado.

Dichiara integralmente compensate tra le parti le spese dei due gradi di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 marzo 2013 con l'intervento dei magistrati:

Luigi Maruotti, Presidente

Claudio Contessa, Consigliere

Andrea Pannone, Consigliere

Silvia La Guardia, Consigliere

Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore

 

 

 

 

 

 

L'ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 09/04/2013

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)