Pres. Lupo Est. Teresi Ric. Perrini
Rifiuti. Discarica abusiva
Il reato di discarica abusiva può essere accertato anche in base alla consistenza ed allo stato di conservazione dei rifiuti, potendosi conseguentemente escludere una successiva utilizzazione dei materiali (nella fattispecie, pezzi di marmo asseritamente impiegati per la realizzazione di mosaici)
Svolgimento
del
processo
Con
sentenza in data 11 novembre 2004 la Corte
d’Appello di Lecce - sezione distaccata di Taranto -
confermava la condanna
alla pena dell’arresto e dell’ammenda
inflitta nel giudizio di primo grado a Perrini Antonio
per avere realizzato una discarica non
autorizzata di rifiuti
speciali in
località Misonghia.
Rilevava la Corte che l’imputato aveva realizzato una discarica di rifiuti speciali non pericolosi, costituita da in ingente ammasso cuneiforme di detriti non selezionati (pezzi di legno, una grata, sacchi, scarti della lavorazione del marmo).
L’accumulo era avvenuto non in maniera occasionale e temporanea, ma con comprovata abitualità, atteso anche l’utilizzo di mezzi appositamente predisposti (un’apertura, coperta di grate, apribili, praticata nel muro perimetrale dell’opificio del Perrini) per agevolare lo sversamento del materiale di scavo della sua industria nel sito che in passato era stata una cava.
Proponeva ricorso per cassazione
l’imputato denunciando violazione di legge
e vizio di motivazione in ordine alla
configurabilità dei reato di discarica abusiva
che doveva essere escluso perché
nella cava dismessa venivano momentaneamente
depositati ritagli di marmo
di diverse misure per
10/15 giorni per essere riutilizzati per la realizzazione di mosaici.
Per l’equivocità della
deposizione, non era credibile
l’agente del Corpo forestale dello
Stato, Netti, avendo l’imputato fornito elementi idonei ad
escludere un
deposito incontrollato e protratto nel tempo dei residui,
riutilizzabili, della lavorazione del
marmo, materiali
che, in sede di bonifica dell’area,
erano stati asportati in pochi giorni, donde
l’insussistenza della discarica.
Chiedeva l’annullamento della sentenza.
Il ricorso non è puntuale perché censura con erronee argomentazioni giuridiche e in punto di fatto la decisione che è esente da vizi logico-giuridici, essendo stati indicati gli elementi probatori emersi a carico dell’imputato e confutata ogni obiezione difensiva.
La sentenza, infatti,
ha correttamente
ritenuto ricorrenti le
condizioni che integrano il concetto
normativo di discarica non autorizzata
di rifiuti non pericolosi,
nella
specie costituiti da
eterogenei materiali
da scarti della
lavorazione del marmo provenienti
dall’opificio gestito
dall’imputato, una grata, pezzi di
legno, sacchetti di colore azzurro,
accumulati nell’area di una
cava, mentre le incongrue doglianze sulla qualificazione loro attribuita in sentenza sono irrilevanti ai fini del sindacato
di legittimità.
L’art. 51 del d.lgs. 5 febbraio 1997 n. 22 prevede e punisce, al terzo comma, la discarica non autorizzata di rifiuti per la cui configurabilità “sono necessari sia una condotta ripetuta nel tempo d’accumulo di rifiuti in un’area, sia il degrado dell’area stessa, consistente nell’alterazione permanente dello stato dei luoghi, requisito che è certamente integrato nel caso in cui sia consistente la quantità dl rifiuti depositati abusivamente” (Cassazione Sezione III, n 36062/2004, Tomasoni, RV. 229484).
Nella
specie è stato accertato, con logiche
argomentazioni, alla stregua di quanto rilevato in sede di sopralluogo, che i materiali era accumulati disordinatamente; che la cava,
inaccessibile dal basso, era infestata
da arbusti ed erbacce,
sicché “sarebbe
stato impossibile andare a cercare
in quella massa di detriti ed altri oggetti i pezzi di marmo che si
assume
sarebbero poi serviti per realizzare
pavimenti o mosaici”; che
l’ammasso cuneiforme [perché il versamento
dei materiali veniva effettuato
dall’alto] era depositato da tempo
perché presentava una diversa
consistenza, più asciutto alla
base e più umido nella zona
apicale.
Le modalità di conservazione denotano, quindi, che l’area de qua è stata trasformata, di fatto, in deposito di rifiuti di vario genere, mediante una condotta consistente nell’abbandono per un lungo periodo di una notevole quantità di rifiuti, sicché è irrilevante la bonifica del sito in tempi ristretti.
L’inammissibilità del ricorso comporta condanna al pagamento delle spese del procedimento e al versamento alla cassa delle ammende della somma di €. 1.000, liquidata equitativamente.