Cass. Sez. III n. 47712 del 19 ottobre 2018 (UP 14 giu 2018)
Pres. Lapalorcia Est. Mengoni Ric. Lamacchia
Rifiuti.Rottami di ferro
Il Regolamento n. 333/2011 non può ritenersi abrogativo del decreto 5/2/1998, come si ricava distintamente dal comma 3 dell’art. 184-ter citato, che tale ultimo provvedimento richiama in modo espresso, ammettendone la perdurante vigenza (sia pur fino all’adozione di nuovi decreti ministeriali). Al contempo, peraltro, il medesimo provvedimento comunitario prevede – tra le caratteristiche che i rottami di ferro debbono avere per perdere la qualità di rifiuto – l’avvenuta cesoiatura, senza specificazioni tecniche. Queste ultime, tuttavia, a giudizio del Collegio debbono essere comunque previste, e debbono essere normate, al fine di evitare, per un verso, che rifiuti con caratteristiche molto diverse possano esser sottoposti alla medesima, rilevante disciplina in tema di end of waste, e, per altro verso, che l’assenza di regole dettagliate – specie in una materia ad alto tecnicismo - stravolga la ratio ed il significato delle disposizioni (comunitarie) medesime (ad esempio, poter vendere come usate le rotaie solo in apparenza recuperate, ma in realtà caratterizzate da cesoiatura di ampia portata). Ecco, dunque, che la necessità di accompagnare una disciplina così tecnica con specifiche disposizioni esecutive comporta, in assenza di espressa previsione, che queste siano comunque ricavate dalla normativa vigente, da individuare nel caso in esame nelle specifiche CECA, alle quali il d.m. 5 febbraio 1998 fa diretto rinvio in punto di lunghezza massima della parti “cesoiate” (lunghezza che, per emergenza pacifica, non è stata rispettata nella vicenda di cui trattasi). Sì da ravvisarsi, tra i due testi, quella “totale sintonia quanto a strumenti e finalità” che la Corte di appello ha correttamente evidenziato.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 17/11/2017, la Corte di appello di Milano confermava la pronuncia emessa il 26/5/2014 dal locale Tribunale, con la quale Antonino Campisi e Mario Lamacchia erano stati giudicati colpevoli dei reati loro rispettivamente ascritti ai sensi dell’art. 260, d. lgs. 4 aprile 2006, n. 152 e condannati alla pena di cui al dispositivo.
2. Propongono distinto ricorso per cassazione i due imputati, a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
Lamacchia:
• Erronea applicazione degli artt. 184-ter, 260, d. lgs. n. 152 del 2006, d.m. 5 febbraio 1998, Regolamento 333/2011/CE. La Corte di appello – al pari del primo Giudice - avrebbe riconosciuto la contestata gestione abusiva dei rifiuti sul presupposto che questi non fossero stati “cesoiati” nella lunghezza massima di 1,5 metri, ma in altra superiore. Tale limite, tuttavia, non sarebbe riferibile al caso di specie, poiché previsto dal d.m. 5/2/1998 (e, più precisamente, dalle specifiche CECA da questo richiamate) che sarebbe stato superato dal Regolamento comunitario n. 333/2011, che prescriverebbe sì – per il recupero di questi rifiuti – la medesima operazione di cesoiatura, ma senza alcun limite massimo di lunghezza. Ancora, e diversamente da quanto affermato in sentenza, il citato decreto ministeriale non potrebbe esser ritenuto ancora vigente in attesa dell’adozione di altri provvedimenti analoghi, ai sensi dell’art. 184-ter, comma 3, TUA, atteso che questa norma presupporrebbe che la materia non sia stata regolata da disciplina comunitaria, quel che invece si riscontrerebbe nella vicenda in esame, proprio giusta il Regolamento n. 333. Il Giudice del merito, quindi, avrebbe dovuto disapplicare il decreto del 1998 ed applicare soltanto la normativa sovranazionale;
• Inosservanza e/o erronea applicazione dell’art. 49, comma 2, cod. pen. La sentenza impugnata non farebbe corretta applicazione del principio di offensività che permea di sé l’intero ordinamento penale, astenendosi dal verificare – come invece dovuto – l’idoneità della condotta a porre in pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma, ossia l’ambiente, ai sensi dell’art. 260 contestato;
• Mancanza di motivazione in ordine ai reati di cui ai capi b), c), d) ed e) della rubrica. La Corte di appello avrebbe omesso ogni argomento in ordine al dolo dei reati contestati, affermando la responsabilità del Lamacchia solo in forza dell’elemento psicologico individuato in capo al coimputato Campisi. Il generico ed indimostrato richiamo ad un accordo tra i due, inoltre, nulla comproverebbe sul tema, emergendo dunque evidente una carenza motivazionale. Nei medesimi termini, poi, con la doglianza n. 4 si contesta l’inosservanza e/o erronea applicazione dell’art. 110 cod. pen., avendo il Collegio di merito ravvisato il presunto dolo specifico del Campisi quale elemento sufficiente per affermare la responsabilità anche del ricorrente;
• Inosservanza e/o erronea applicazione dell’art. 256, comma 1, d. lgs. n. 152 del 2006. Con riguardo alla richiesta derubricazione dell’art. 260 nella diversa fattispecie di cui all’art. 256, comma 1, stesso decreto, la sentenza avrebbe fornito una risposta del tutto errata; in particolare, avrebbe affermato che quest’ultima disposizione si applicherebbe soltanto in caso di violazione di prescrizioni amministrative, non anche legislative, quel che sarebbe invece escluso dalla costante giurisprudenza di questa Corte;
• Inosservanza e/o erronea applicazione dell’art. 259, comma 2, d. lgs. n. 152 del 2006. Il Giudice avrebbe errato nel ritenere la confisca di cui all’art. 259, comma 2, d. lgs. n. 152 del 2006 applicabile anche al reato ex art. 260, qui contestato; ciò, infatti, contrasterebbe con il dato normativo e con i costanti indirizzi di legittimità. Inoltre, il provvedimento ablativo sarebbe stato imposto su tutti i mezzi della “L.M. Trading s.r.l.” (della quale il ricorrente risulterebbe amministratore di fatto), non solo su quelli utilizzati per il trasporto dei rifiuti.
Campisi:
• Erronea applicazione dell’art. 260, d. lgs. n. 152 del 2006; carenza di motivazione. La sentenza si connoterebbe per evidenti errori di diritto, a muover dalla individuazione di un’ipotesi di gestione abusiva di rifiuti; questa, invero, presupporrebbe un’attività totalmente difforme da quella autorizzata, come da costante indirizzo di questo Collegio, quel che non sarebbe stato provato nella vicenda in esame. Il ricorrente, sia pur con documento non conforme (quel che deriverebbe dal convincimento che i prodotti non costituissero più rifiuti), avrebbe comunque conferito i materiali ferrosi ad un soggetto a ciò autorizzato (la citata “L.M. Trading”), anziché effettuarne il recupero presso il proprio sito. Nessuna violazione delle prescrizioni autorizzative, dunque, potrebbe esser riconosciuta, atteso che nessun provvedimento imporrebbe al Campisi di effettuare personalmente le attività di recupero; lo stesso, dunque, avrebbe compiuto quanto richiestogli, ossia trasportare i rifiuti alla “L.M. Trading”, quel che però il Collegio non avrebbe valutato, omettendo ogni verifica sui titoli amministrativi;
• Stessa censura, poi, è mossa con riguardo al profilo soggettivo della condotta, in ordine al quale la Corte di merito non avrebbe steso alcuna motivazione. In particolare, la sentenza non avrebbe considerato che la scelta di portare i rifiuti alla “L.M. Trading”, anziché presso il proprio sito, sarebbe stata dettata soltanto da comprensibili ragioni economiche, dalle quali non si potrebbe automaticamente inferire – come la sentenza – un intento illecito a realizzazione di un ingiusto profitto; quel che, peraltro, emergerebbe anche dalle poche telefonate intercettate tra i due imprenditori. Altri e diversi, pertanto, avrebbero dovuto essere gli indici che la Corte avrebbe dovuto valutare (indicati alle pagg. 16-17 del gravame), ma la sentenza li avrebbe trascurati del tutto.
Si chiede, dunque, l’annullamento della decisione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Entrambi i ricorsi risultano infondati.
Muovendo da quello proposto dal Lamacchia, e dalla questione che lo stesso pone in ordine alla disciplina applicabile al caso di specie, ritiene il Collegio che la censura mossa non possa esser accolta, dovendosi qui condividere le ragioni sviluppate dai Giudici di prime e seconde cure, chiamati a pronunciarsi sulla medesima materia.
In particolare, e pacifico il profilo in fatto della vicenda (cesoiatura dei binari con lunghezza superiore a 1,5 metri), occorre innanzitutto richiamare il d.m. 5 febbraio 1998 (Individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi degli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22) che, all’art. 3 (Recupero in materia), parte prima, stabilisce che le attività, i procedimenti e i metodi di riciclaggio e di recupero di materia individuati nell’allegato 1 devono garantire l’ottenimento di prodotti o di materie prime o di materie prime secondarie con caratteristiche merceologiche conformi alla normativa tecnica di settore o, comunque, nelle forme usualmente commercializzate; l’allegato 1, art. 3, in materia di rifiuti di metalli (come quelli in esame, trattandosi di rotaie ferroviarie), prescrive poi – tra le caratteristiche richieste - che la materia prima secondaria per l’industria metallurgica sia conforme alle specifiche CECA, AISI, CAEF e UNI.
Tra le prime, la lunghezza massima del rifiuto stesso, pari a 1,5 metri.
4. Successivamente al citato decreto del 1998, è stato quindi emanato il d. lgs. 3 dicembre 2010, n. 205 (Disposizioni di attuazione della direttiva 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive), che, tra l’altro, ha introdotto nel d. lgs. n. 152 del 2006 l’art. 184-ter; a mente del cui primo comma, “Un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i criteri specifici”, da adottare nel rispetto di alcune condizioni. Di seguito, il comma 2 stabilisce che “L’operazione di recupero può consistere semplicemente nel controllare i rifiuti per verificare se soddisfano i criteri elaborati conformemente alle predette condizioni. I criteri di cui al comma 1 sono adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria ovvero, in mancanza di criteri comunitari, caso per caso per specifiche tipologie di rifiuto attraverso uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai sensi dell’ articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400. I criteri includono, se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza o dell’oggetto”. Da ultimo, per quel che qui rileva, il comma 3 afferma che “Nelle more dell’adozione di uno o più decreti di cui al comma 2, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui ai decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio in data 5 febbraio 1998, 12 giugno 2002, n. 161, e 17 novembre 2005, n. 269 e l’art. 9-bis, lett. a) e b), del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2008, n. 210. La circolare del Ministero dell'ambiente 28 giugno 1999, prot. n. 3402/V/MIN si applica fino a sei mesi dall’entrata in vigore della presente disposizione”.
5. Tanto premesso, sostiene il ricorrente che il decreto 5 febbraio 1998 non troverebbe applicazione nel caso di specie (in uno con il richiamo alle specifiche CECA), difettando il presupposto della mancata adozione di uno o più nuovi decreti ministeriali, ai sensi del citato comma 2 dell’art. 184-ter; ciò, a sua volta, difettando il presupposto di questi provvedimenti amministrativi, ossia la “mancanza di criteri comunitari”. Questi ultimi, infatti, sarebbero stati nelle more dettati, in particolare dal Regolamento (UE) n. 333/2011 del Consiglio del 31/3/2011, recante, in particolare, i requisiti in forza dei quali alcuni tipi di rottami metallici cessano di essere considerati rifiuti ai sensi della direttiva 2008/98/CE: questo provvedimento indicherebbe - all’art. 3 - i criteri specifici per i rottami di ferro ed acciaio qui in esame, tra cui (giusta l’allegato 1, punto 3.2) la cesoiatura degli stessi, per la quale la norma medesima non individuerebbe tuttavia alcun requisito massimo di lunghezza, a differenza di quanto prescritto nel d.m. del 1998.
6. Ebbene, ritiene la Corte che questo assunto – pur fondato su una corretta ricognizione normativa – non possa esser condiviso, sì da doversi confermare, anche nella vicenda in oggetto, la permanente vigenza del d.m. da ultimo citato, in uno con il richiamo alle specifiche CECA.
In particolare, si osserva innanzitutto che il Regolamento n. 333/2011 non può ritenersi abrogativo del decreto 5/2/1998, come si ricava distintamente dal comma 3 dell’art. 184-ter citato, che tale ultimo provvedimento richiama in modo espresso, ammettendone la perdurante vigenza (sia pur fino all’adozione di nuovi decreti ministeriali). Al contempo, peraltro, il medesimo provvedimento comunitario prevede – tra le caratteristiche che i rottami di ferro debbono avere per perdere la qualità di rifiuto – l’avvenuta cesoiatura, senza specificazioni tecniche. Queste ultime, tuttavia, a giudizio del Collegio debbono essere comunque previste, e debbono essere normate, al fine di evitare, per un verso, che rifiuti con caratteristiche molto diverse possano esser sottoposti alla medesima, rilevante disciplina in tema di end of waste, e, per altro verso, che l’assenza di regole dettagliate – specie in una materia ad alto tecnicismo - stravolga la ratio ed il significato delle disposizioni (comunitarie) medesime (ad esempio, come ben si legge nella prima sentenza, poter vendere come usate le rotaie solo in apparenza recuperate, ma in realtà caratterizzate da cesoiatura di ampia portata). Ecco, dunque, che la necessità di accompagnare una disciplina così tecnica con specifiche disposizioni esecutive comporta, in assenza di espressa previsione, che queste siano comunque ricavate dalla normativa vigente, da individuare nel caso in esame nelle specifiche CECA, alle quali il d.m. 5 febbraio 1998 fa diretto rinvio in punto di lunghezza massima della parti “cesoiate” (lunghezza che, per emergenza pacifica, non è stata rispettata nella vicenda di cui trattasi). Sì da ravvisarsi, tra i due testi, quella “totale sintonia quanto a strumenti e finalità” che la Corte di appello ha correttamente evidenziato.
Quel che, da ultimo, già la prima sentenza aveva ben evidenziato, anche in punto di elemento soggettivo del reato, specificando – quanto al capo a) della rubrica – che “il materiale trasportato (quindi venduto da Campisi Metalli ed LM Trading) è qualificato espressamente come m.p.s. (materia prima secondaria, n.d.e.) conforme a DM 5.2.1998 e specifiche Ceca, come risulta dal timbro apposto sul documento che reca la seguente dicitura: MPS di cui al c. 1 art. 183 dlgs 152/06 punto 1 (rott. ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti alle specifiche CECA, AISI, CAEF o UNI, come previsto anche da D.M. 5.2.98”). Dal che, l’evidente consapevolezza, anche in capo ai ricorrenti, della perdurante vigenza del più volte citato decreto del 1998 e delle relative specifiche tecniche.
La prima doglianza del Lamacchia, pertanto, risulta infondata.
7. Alle medesime conclusioni, poi, perviene la Corte anche in ordine alla seconda, con la quale si lamenta l’inosservanza e/o l’erronea applicazione dell’art. 49, comma 2, cod. pen. in punto di offensività della condotta; la sentenza impugnata - pronunciandosi proprio sulla questione in esame - ha infatti sviluppato un più che adeguato argomento logico-giuridico, richiamando la natura della fattispecie di cui all’art. 260, d. lgs. n. 152 del 2006, contestata in rubrica. In particolare, il Collegio di merito ha fatto buon governo del principio, di costante affermazione giurisprudenziale, a mente del quale ai fini della integrazione del reato qui in argomento non sono necessari un danno ambientale né la minaccia grave di esso, atteso che la previsione di ripristino ambientale contenuta nel comma quarto del citato articolo si riferisce alla sola eventualità in cui il pregiudizio o il pericolo si siano effettivamente verificati e, pertanto, non è idonea a mutare la natura della fattispecie da reato di pericolo presunto a reato di danno (Sez. 3, n. 19018 del 20/12/2012, Accarino, Rv. 255395, secondo cui “non rientrano tra i presupposti del reato né il danno ambientale, né la minaccia grave di danno ambientale, perché la previsione di ripristino ambientale contenuta nell'art. 260, comma 4, richiamato - secondo cui il giudice, con la sentenza di condanna o di patteggiamento "ordina il ripristino dello stato dell'ambiente e può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena all'eliminazione del danno o del pericolo per l'ambiente" - si riferisce alla sola eventualità in cui il danno o il pericolo si siano effettivamente verificati e non muta, perciò, la natura del reato da reato di pericolo presunto a reato di danno”; in termini, tra le altre, Sez. 3, n. 4503 del 16/12/2005, Samarati, Rv. 233294). Sì da doversi condividere, dunque, l’assunto della sentenza secondo il quale “la valutazione d’impatto ambientale è già stata fatta dal legislatore e non comporta la verifica del caso concreto”.
8. Ancora infondate, di seguito, risultano le doglianze di cui ai motivi nn. 3 e 4, in punto di responsabilità.
Non può esser condiviso, innanzitutto, l’assunto secondo il quale la Corte di appello avrebbe omesso ogni motivazione con riguardo al profilo psicologico delle condotte contestate al Lamacchia (limitandosi a richiamare quello relativo al coimputato Campisi), rivenendosi nella sentenza, per contro, un adeguato percorso argomentativo che non merita censura. In particolare, il Collegio – anche rimandando alla prima, diffusa decisione, alla quale l’altra si lega in un continuum argomentativo, attesa la cd. doppia conforme – ha evidenziato che la piena adesione del ricorrente alla contestata gestione abusiva aveva trovato conferma non solo nel mancato trattamento delle rotaie, nei termini (peraltro immediatamente percepibili) appena sopra riportati, ma anche nella fittizietà dei documenti a corredo in possesso degli autisti e, non da ultimo, dalle intercettazioni in atti; dalle quali, in particolare, “emerge che non solo (Lamacchia, n.d.r.) ne era a conoscenza, ma era anche l’artefice del descritto meccanismo”. Una motivazione, dunque, che riguarda specificamente il ricorrente in esame, senza che si possa allora accogliere la tesi difensiva secondo la quale gli argomenti, in tal senso, sarebbero stati tratti solo dalla diversa figura del Campisi. Una motivazione con la quale, peraltro, la sentenza di merito ha anche superato l’assunto della piena buona fede in capo al Lamacchia, invocata pur a fronte di un compendio probatorio che la Corte di appello ha congruamente ribadito esser confermativo dei capi di imputazione; ciò, peraltro, con riguardo a tutte le fattispecie contestate in rubrica, in ordine alle quali la prima pronuncia si è lungamente sviluppata, in modo analitico, evidenziando – capo per capo – quali emergenze istruttorie fondassero il giudizio di penale responsabilità.
Elementi – questi appena richiamati – che il ricorso neppure menziona, tantomeno contesta, sì da non poter esser ritenuto, sul punto, effettiva censura alla pronuncia impugnata.
9. Ancora infondato, poi, risulta il gravame quanto al quinto motivo, in tema di riqualificazione della condotta ex art. 256, commi 1 e 4, d. lgs. n. 152 del 2006. Osserva il Collegio, infatti, che la Corte di merito – nel pronunciarsi sulla medesima questione – ha correttamente individuato nella vicenda i caratteri propri del delitto di cui all’art. 260, stesso decreto, quali “la sistematicità della condotta, la consistenza quantitativa del materiale trattato, l’utilizzazione della propria struttura aziendale per la predisposizione della documentazione, dei trasporti e di tutta l’attività necessaria per la commercializzazione dei rifiuti non trattati”. In tal modo, dunque, la sentenza ha fatto buon governo del principio – di costante e condivisa applicazione – in forza del quale l'art. 260, comma 1, in oggetto contempla un reato abituale (già previsto, del resto, dall'art. 53-bis, d.lgs. n. 22 del 1997, come introdotto dalla legge 23 marzo 2001, n. 93) che punisce chi, al fine di conseguire un ingiusto profitto, allestisce una organizzazione di traffico di rifiuti, volta a gestire continuativamente, in modo illegale, ingenti quantitativi di rifiuti. Tale gestione dei rifiuti deve concretizzarsi in una pluralità di operazioni con allestimento di mezzi ed attività continuative organizzate, ovvero attività di intermediazione e commercio (cfr. Sez. 3, n. 40827 del 6/10/2005, Carretta, Rv. 232348) e tale attività deve essere "abusiva", ossia effettuata o senza le autorizzazioni necessarie (ovvero con autorizzazioni illegittime o scadute) o violando le prescrizioni e/o i limiti delle autorizzazione stesse (ad esempio, la condotta avente per oggetto una tipologia di rifiuti non rientranti nel titolo abilitativo, ed anche tutte quelle attività che, per le modalità concrete con cui sono esplicate, risultano totalmente difformi da quanto autorizzato, sì da non essere più giuridicamente riconducibili al titolo abilitativo rilasciato dalla competente Autorità amministrativa) (cfr. Sez. 3, n. 40828 del 6/10/2005, Fradella, Rv. 232350). Quindi, il delitto in esame sanziona comportamenti non occasionali di soggetti che, al fine di conseguire un ingiusto profitto, fanno della illecita gestione dei rifiuti la loro redditizia, anche se non esclusiva attività, per cui per perfezionare il reato è necessaria una, seppure rudimentale, organizzazione professionale (mezzi e capitali) che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo, ossia con pluralità di operazioni condotte in continuità temporale, operazioni che vanno valutate in modo globale: alla pluralità delle azioni, che è elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica violazione di legge, e perciò il reato è abituale dal momento che per il suo perfezionamento è necessaria le realizzazione di più comportamenti della stessa specie (cfr. Sez. 3, n. 46705 del 3/11/2009, Caserta, Rv. 245605, confermata anche da Sez. 3, n. 29619 dell'8/7/2010, Leorati, Rv. 248145).
10. Esattamente quanto riscontrato nella sentenza di appello, con argomenti che il ricorso non affronta e non contesta, se non sostenendo che la diversa fattispecie di cui all’art. 256, commi 1 e 4, stesso decreto, sarebbe configurabile anche a fronte di prescrizioni (violate) di carattere legislativo, al pari dell’art. 260 in rubrica; considerazione, tuttavia, che non risulta decisiva, atteso che la sentenza ha confermato la condanna non già perché solo l’art. 260 concerna violazioni di prescrizioni legislative, ma perché della stessa norma sono stati qui rinvenuti i caratteri distintivi, per come appena sopra richiamati dalla costante giurisprudenza di legittimità.
11. Da ultimo, ancora quanto al ricorso del Lamacchia, il motivo in punto di confisca.
Osserva il Collegio, in primo luogo, che, secondo un orientamento interpretativo ripetutamente affermato da questa Corte e mai contraddetto, in tema di gestione dei rifiuti, la confisca dei mezzi di trasporto è obbligatoria, sia nelle ipotesi di trasporto illecito di rifiuti, di trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario con dati incompleti od inesatti ovvero con uso di certificato falso durante il trasporto, sia per il reato d'attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260, d.lgs. n. 152/2006) ove sia stato commesso mediante l'impiego di mezzi di trasporto (Sez. 3, n. 35879 del 25/06/2008, Fossati, Rv. 241030; Sez. 3, n. 4746/2008 del 12/12/2007, Rocco, Rv. 238784. Successivamente, tra le altre, Sez. 3, n. 2284 del 28/11/2017, Benedetti, non massimata). Nella motivazione della sentenza Fossati - che a sua volta riprende la sentenza Rocco e che il Collegio condivide - si legge che «la confisca del mezzo di trasporto non viene espressamente prevista nell'art. 260, così come non era espressamente prevista dall'art. 53-bis del decreto Ronchi, perché il delitto di cui alla norma dianzi citata non presuppone necessariamente l'uso di un mezzo di trasporto, in quanto può essere compiuto anche mediante attività diverse dal trasporto di rifiuti, come ad esempio per mezzo di un'attività di intermediazione o commercio. Tuttavia, quando esso viene commesso anche mediante il trasporto, la confisca del mezzo diventa obbligatoria, perché tale misura di sicurezza è espressamente prevista dall’art. 259, d. lgs. n. 152 del 2009. Tale norma contiene infatti un riferimento esplicito a tutte le ipotesi di cui all'art. 256, compresa quella del trasporto, senza operare alcuna distinzione in merito all'attività di gestione illecita per la quale i rifiuti sono trasportati. Pertanto, la confisca del mezzo va disposta non solo nella ipotesi di trasporto illecito di rifiuti di cui all'art. 256, di trasporto di rifiuti senza formulario o con formulario con dati incompleti o inesatti, ovvero con uso di certificato falso durante il trasporto, ma anche per le attività organizzate per il traffico illecito dei rifiuti, allorché compiute utilizzando mezzi di trasporto. Infatti, come ha precisato questa Corte nella citata sentenza n. 4746 del 2008, "sarebbe stato invero irrazionale prevedere la confisca obbligatoria del mezzo di trasporto nelle ipotesi contravvenzionali di cui al d. lgs. n. 152 del 2006, artt. 259, 256 e 258 ed escluderla nell'ipotesi delittuosa di cui all'art. 260, che assorbe la contravvenzione di trasporto illecito e si riferisce al traffico di ingenti quantitativi"».
Da quanto precede, dunque, emerge evidente l’infondatezza della prima parte della doglianza, con la quale si contesta in sé la possibilità di emettere un provvedimento ablativo dei beni a fronte di una contestazione ex art. 260, d. lgs. n. 152 del 2006.
12. Sotto altro profilo, poi, e con riguardo agli autocarri sottoposti a vincolo, si osserva soltanto che – contrariamente al tenore del ricorso - la Corte di appello non ha disposto la misura in modo immotivatamente ampio, ma ha precisato che la confisca “riguarda i mezzi che sono serviti allo svolgimento del’attività delittuosa nel suo complesso”.
Il gravame del Lamacchia, pertanto, deve essere rigettato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
13. Alle medesime conclusioni, poi, perviene la Corte quanto all’impugnazione proposta dal Campisi.
Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 12110, Rv. 243247). Si richiama, sul punto, il costante indirizzo di questa Corte in forza del quale l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606, comma 1, lett e), cod. proc. pen., è soltanto quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi; ciò in quanto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo (Sez. U., n. 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074).
In altri termini, il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene alla ricostruzione dei fatti né all'apprezzamento del Giudice di merito, ma è limitato alla verifica della rispondenza dell'atto impugnato a due requisiti, che lo rendono insindacabile: a) l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l'assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. (Sez. 2, n. 21644 del 13/2/2013, Badagliacca e altri, Rv. 255542; Sez. 2, n. 56 del 7/12/2011, dep. 4/1/2012, Siciliano, Rv, 251760).
14. In tal modo individuato il perimetro di giudizio proprio della Suprema Corte, osserva allora il Collegio che le censure mosse dal ricorrente al provvedimento impugnato si evidenziano come infondate; il ricorso, infatti, non affronta in modo adeguato, censurandole efficacemente, le diffuse argomentazioni spese dai Giudici del merito, che hanno peraltro trattato tutti i profili anche in questa sede proposti, risolvendoli con un solido percorso argomentativo, privo di illogicità manifeste e contraddizioni di sorta. Come tale, dunque, non censurabile.
In particolare, si è sottolineato che il ricorrente, dopo aver acquistato notevoli quantitativi di rotaie dismesse da R.F.I., le aveva più volte rivendute al Lamacchia, nel corso di pochi mesi, trasportando il materiale direttamente presso la “L.M. Trading” di quest’ultimo ed omettendo il trattamento di recupero che avrebbe dovuto effettuare, per contratto, nel proprio stabilimento. Quel che, d’accordo con il coimputato, aveva permesso al ricorrente di risparmiare sul costo dei trasporti dagli scali ferroviari agli impianti della “Campisi Metalli e sul costo del trattamento, così come al concorrente di abbattere i costi ed aumentare i ricavi in punto di vendita di merce “ordinaria”. Una gestione abusiva di ingenti quantitativi di rifiuti, quindi, peraltro confermata dalla falsificazione dei documenti assegnati agli autisti, contenenti dati fittizi; documenti sui quali, come già indicato, era richiamato espressamente il d.m. 5/2/1998, in uno con le specifiche CECA, sebbene pacificamente non rispettate (come sopra esposto), a conferma ulteriore della piena coscienza e volontà della condotta contestata al capo A) della rubrica. Condotta correttamente qualificata nei termini della gestione abusiva di cui all’art. 260, d. lgs. n. 152 del 2006, in forza delle considerazioni già in precedenza riportate.
15. Quel che, peraltro, non può esser poi superato dalle diffuse considerazioni di cui al ricorso, generiche ed a contenuto fattuale, con le quali il Campisi tende a sottoporre a nuovo vaglio plurime risultanze dibattimentali, in punto di: a) scelte imprenditoriali (lavorare i binari dismessi sul posto, anziché nel proprio stabilimento); b) mancata violazione di prescrizioni autorizzative; c) trasporto di rifiuti presso un soggetto autorizzato (L. M. Trading); d) tracciabilità dei prodotti; e) tenore delle conversazioni con il Lamacchia; f) costi sostenuti e possibili guadagni. Fino all’elencazione degli “elementi che la Corte di appello di Milano avrebbe dovuto valutare al fine di cercare di comprendere quale potesse essere stato l’elemento psicologico dell’imputato al momento della commissione del fatto contestato”; elementi ancora di mero fatto, analiticamente riportati alle pagg. 16-17 del gravame.
Anche questo ricorso, pertanto, deve essere rigettato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 14 giugno 2018