Cass.Sez. III n. 4346 del 30 gennaio 2014 (Ud 17 dic 2013)
Pres.Mannino Est.Ramacci Ric.Roda.
Rifiuti.Autorizzazione integrata ambientale e violazione delle prescrizioni
In tema di gestione dei rifiuti, risponde del reato previsto dall'art. 29-quattuordecies del D.Lgs. n. 152 del 2006, il titolare dell'autorizzazione integrata ambientale che viola le prescrizioni imposte dal provvedimento, non potendo in alcun caso l'inosservanza di esse ritenersi circoscritta nell'ambito delle mere irregolarità amministrative, in quanto la valutazione della offensività della condotta è stata già preventivamente effettuata dal legislatore. (Fattispecie in cui è stata ritenuta corretta la decisione impugnata che aveva giudicato penalmente rilevante la mancata individuazione e segnalazione delle zone di stoccaggio dei rifiuti, nonché l'omesso adeguamento al piano di monitoraggio e controllo per la verifica di funzionalità della rete fognaria interna e dei sensori di livello dei serbatoi).
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica SENTENZA P.Q.M.REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA
Dott. MANNINO Saverio - Presidente - del 17/12/2013
Dott. SAVINO Mariapia - Consigliere - SENTENZA
Dott. RAMACCI Luca - rel. Consigliere - N. 3675
Dott. ANDREAZZA Gastone - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. ANDRONIO Alessandro Maria - Consigliere - N. 32926/2013
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso proposto da:
RODA MARIA N. IL 13/04/1940;
avverso la sentenza n. 346/2012 TRIB. SEZ. DIST. di IMOLA, del 13/06/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/12/2013 la relazione fatta dal Consigliere Dott. RAMACCI LUCA;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. FRATICELLI Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore Avv. VALENTI A..
RITENUTO IN FATTO
1. Il Tribunale di Bologna - Sezione Distaccata di Imola, con sentenza del 13.6.2013 ha riconosciuto RODA Maria responsabile del reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 29 quattordecies, (così qualificata l'originaria imputazione riferita al D.Lgs. n. 58 del 2005, art. 16) e l'ha condannata alla pena dell'ammenda perché, quale legale rappresentante della "CALLEGARY ECOLOGY SERVICE s.r.l.", non ottemperava a tutte le prescrizioni contenute nell'autorizzazione dell'amministrazione provinciale di Bologna n. 128412 e successive modifiche, in relazione al paragrafo D.2.3., punti 6 e 27, concernenti l'individuazione e segnalazione delle zone di stoccaggio dei rifiuti e l'adeguamento al piano di monitoraggio e controllo con riferimento alla verifica delle tubazioni interrate della rete fognaria interna degli impianti di stoccaggio dei rifiuti e la verifica del funzionamento dei sensori di livello dei serbatoi (fatti accertati il 12.11.2009), assolvendola, invece, perle residue imputazioni.
Avverso tale pronuncia la predetta propone ricorso per cassazione. 2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione dell'art. 552 c.p.p., lamentando l'insufficiente enunciazione del fatto nell'imputazione, la quale farebbe esclusivo riferimento alle prescrizioni violate senza indicazione delle specifiche condotte materiali, non ritenendo sufficiente l'indicazione dei singoli punti violati, senza indicazione dei paragrafi, stante l'ampiezza dei contenuti dell'autorizzazione, evidenziando anche la obiettiva incertezza sui contenuti manifestatasi nel corso del dibattimento. Aggiunge di aver tempestivamente sollevato l'eccezione che veniva, però, rigettata dal giudice del merito.
3. Con un secondo motivo di ricorso denuncia il vizio di motivazione in relazione alle considerazioni svolte dal giudicante circa l'inosservanza della prescrizione di cui al punto 6 del paragrafo D.2.3 dell'autorizzazione, ritenendole contraddittorie rispetto ad atti del procedimento.
4. Altrettanto faceva nel terzo motivo di ricorso con riferimento alla violazione di cui al punto 27 del paragrafo D.2.3. 5. Con il quarto motivo di ricorso lamenta la violazione di legge con riferimento all'art. 5 c.p., evidenziando l'equivocità delle prescrizioni imposte con l'autorizzazione.
6. Con un quinto motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione in relazione alla valutazione dell'elemento soggettivo del reato, in quanto la sentenza, pur evidenziando che le condotte in contestazione erano state materialmente poste in essere da altri soggetti, ne attribuiva senza ulteriori specificazioni, anche con riferimento all'elemento psicologico del reato, la responsabilità alla rappresentante legale della società.
7. Con un sesto motivo di ricorso denuncia la violazione dell'art. 49 c.p., sotto il profilo della concreta inoffensività dei fatti contestati, rispetto ai quali l'affermazione di penale responsabilità risulterebbe frutto di una interpretazione formalistica delle prescrizioni riconosciuta dallo stesso giudice del merito.
Rileva, inoltre, che l'inoffensività della condotta sarebbe anche desumibile dalla circostanza che le violazioni contestate consistono in mere irregolarità, non incidenti sulla sostanziale osservanza della prescrizione e non lesive del bene giuridico tutelato ancorché individuato nell'esigenza di assicurare il controllo amministrativo da parte dell'ente preposto.
8. Con un settimo motivo di ricorso lamenta, infine, la violazione di legge per la mancata concessione della sospensione condizionale della pena.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso. 9. In data 29.11.2013 ha depositato in cancelleria nuovi motivi deducendo: 1) l'erronea interpretazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 29 quattuordecies, perché in contrasto con la normativa dell'Unione Europea e, segnatamente, gli artt. 2 e 114 TFUE e con gli artt. 3 e 71 della direttiva 2008/98/CE, chiedendone un'interpretazione conforme da parte di questa Corte o, in subordine, la disapplicazione, la proposizione di questione di legittimità costituzionale o il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia;
2)l'erronea l'erronea interpretazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 29 quattuordecies, per contrasto con il principio di riserva di legge di cui all'art. 25 Cost., comma 2 e con il principio di legalità di cui all'art. 7 CEDU come interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo sotto il profilo della "prevedibilità", sollevando questione di legittimità costituzionale; 3) erronea interpretazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 29 quattuordecies, in contrasto con il principio di offensività quale desumibile dell'art. 27 Cost., comma 3, art. 25 Cost., comma 2 e art. 13 Cost., sollevando questione di legittimità costituzionale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
10. Il ricorso è inammissibile.
Occorre osservare, con riferimento al primo motivo di ricorso, che l'art. 522 c.p.p., comma 1, lett. c), dispone che il decreto di citazione a giudizio deve contenere l'enunciazione del fatto, in forma chiara e precisa, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l'applicazione di misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi articoli di legge.
La giurisprudenza di questa Corte è unanimemente orientata nel ritenere che l'imputazione è da ritenersi completa nei suoi elementi essenziali quando il fatto sia contestato in modo da consentire la difesa in relazione ad ogni elemento di accusa (Sez. 4^ n. 38891, 4 novembre 2010; Sez. 4^ n. 34289, 11 agosto 2004; Sez. 1^ n. 12474, 17 dicembre 1994).
11. Nella fattispecie, l'imputazione conteneva l'indicazione specifica della norma violata, il riferimento alla posizione giuridica dell'imputata ed all'autorizzazione le cui prescrizioni si assumevano violate, individuandola anche con l'amministrazione che l'aveva rilasciata ed il numero di protocollo, le prescrizioni violate vengono indicate con riferimento al punto specifico del relativo paragrafo in cui sono contenute e l'ulteriore indicazione dell'oggetto del singolo punto quale, ad esempio, la "individuazione e segnalazione di zone di stoccaggio".
Si tratta, ad avviso del Collegio, di contestazione certamente sintetica ma completa in tutti i suoi essenziali requisiti e che sebbene non integrata con una più specifica indicazione delle condotte accertate, non ha certo impedito all'imputata di svolgere compiutamente la propria difesa.
In effetti il richiamo a punti specifici dell'autorizzazione ed al generico oggetto trattato da ogni singolo punto consentiva di individuare compiutamente la contestazione che, peraltro, come emerge dalla descrizione dei fatti in sentenza, altro non era se non il risultato di un accertamento svolto, all'interno dell'azienda, in sostanziale contraddittorio con il personale ivi presente, che vi ha attivamente partecipato, prendendo diretta cognizione dei risultati e rispondendo ai rilievi di volta in volta formulati.
Inoltre, va rilevato che, in una delle ricordate pronunce (Sez. 4^ n. 34289, 11 agosto 2004), questa Corte aveva avuto modo di sottolineare come la possibilità di articolare prove testimoniali dimostri la piena comprensione da parte dell'imputato del thema decidendum e la puntuale individuazione delle tesi da opporre alla ricostruzione dei fatti proposta dall'accusa ed è ciò che è avvenuto anche nel caso in esame.
Risulta infatti dalla sentenza impugnata che la difesa ha avuto modo di indicare propri testimoni, produrre documentazione e far effettuare un accertamento tecnico da un perito che è stato poi sentito nel corso dell'istruzione dibattimentale. Ne consegue la manifesta infondatezza del motivo di ricorso appena esaminato.
12. Il secondo e terzo motivo di ricorso possono essere unitariamente trattati perché riferiti entrambi a deduzioni non ammissibili in questa sede di legittimità.
Invero la ricorrente, pur lamentando il vizio di motivazione, prospetta, in sostanza, una valutazione alternativa dei dati fattuali già esaminati dal giudice del merito che non è consentita a questo giudice di legittimità.
È appena il caso di ricordare che la consolidata giurisprudenza di questa Corte è orientata nel senso di ritenere che il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa previsione normativa, al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell'apparato argomentativo con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (si vedano, ad esempio, limitatamente alla pronunce successive alle modifiche apportate all'art. 606 c.p.p., dalla L. n. 46 del 2006, Sez. 3^ n. 12110, 19 marzo 2009; Sez. 6^ n. 23528, 6 luglio 2006; Sez. 6^ n. 14054, 20 aprile 2006; Sez. 6^ n. 10951, 29 marzo 2006).
13. Nondimeno, la motivazione del provvedimento impugnato non presenta alcun salto logico o manifeste contraddizioni. Coerentemente, infatti, il Tribunale ha posto in evidenza, con riferimento all'obbligo di individuazione delle zone di stoccaggio e dei serbatoi/contenitori con appositi cartelli/targhe identificative del rifiuto ivi contenuto, imposto dal paragrafo D.2.3, punto 6 dell'autorizzazione, che la violazione doveva ritenersi sussistente stante l'inadeguatezza della etichettatura della sola zona come "Zona 1 A", disposta dall'azienda per la presenza di una sola tipologia di rifiuto e non anche dei singoli serbatoi e ciò in quanto detta etichettatura è funzionale alla corretta informazione sulla natura e tipologia del rifiuto a tutti i soggetti che entravano a contatto con i rifiuti, anche se estranei al reparto: altri dipendenti, gli stessi controllori o, addirittura, soggetti estranei.
Quanto all'ulteriore prescrizione violata (quella di cui al punto 27 del paragrafo D.2.3, che rinvia, a sua volta, al piano di monitoraggio e controllo di cui alla Sezione D3), il Tribunale ha evidenziato che, riguardo alla prevista verifica delle tubazioni interrate della rete fognaria interna e degli impianti di stoccaggio rifiuti e la verifica dei sensori di livello dei serbatoi (parr. D3 punti 4 e 5), il gestore non era stato in grado di esibire alcuna documentazione e, analizzando le dichiarazioni dei singoli testimoni, ivi compresi quelli indotti dalla difesa, ricostruisce in modo più che esauriente la vicenda, pervenendo alla conclusione che la specifica prescrizione sia stata effettivamente violata. Il Tribunale ha riscontrato l'assenza di documentazione anche con riferimento all'obbligo di monitorare i consumi dell'acqua prelevata diversificando l'uso civile da quello delle attività di gestione dei rifiuti (par. D.3 punto 7 tab. 12), nonché la mancata effettuazione della richiesta diversificazione, mentre, riguardo all'obbligo di registrazione mensile dei consumi di energia elettrica, da effettuarsi distinguendo l'uso civile da quello industriale (par. D.3 punto 10, tab. 14), constatava, sempre sulla base delle emergenze processuali, l'assenza di tale distinzione e, ancora una volta, la mancanza di documentazione.
Si tratta, a ben vedere, di argomentazioni che, per la loro accuratezza, si sottraggono agevolmente alle censure formulate, consistenti, come si è detto, in una personale lettura degli esiti dell'istruzione dibattimentale volta a contrastare il percorso giustificativo seguito dal giudice del merito.
14. Anche l'infondatezza del quarto motivo di ricorso risulta di macroscopica evidenza.
Come si è appena visto, le prescrizioni dell'autorizzazione violate dall'imputata non sono affatto "criptiche" come sostenuto nel motivo di ricorso, peraltro formulato in maniera apodittica ed attraverso il mero richiamo ad alcuni principi giurisprudenziali. In ogni caso, è sufficiente ricordare che la buona fede che sostanzialmente la ricorrente invoca non può certo essere indotta dalla erronea conoscenza o dall'ignoranza della legge penale e deve trarre origine da un "elemento positivo", inteso come circostanza che induce nella convinzione della liceità della condotta e che può, ad esempio, essere individuato nel comportamento dell'autorità amministrativa, ovvero nel contenuto di un atto amministrativo. Riguardo a tale ultimo aspetto, tuttavia, si è già avuto modo di chiarire che l'elemento soggettivo del reato contravvenzionale non è escluso dall'errore sull'estensione di un'autorizzazione rilasciata per lo svolgimento di un'attività di gestione di rifiuti, perché si tratta di errore sul precetto che non integra lo stato di "buona fede" (Sez. 3^ n. 11497, 22 marzo 2011).
Del resto, non va sottaciuto che l'imputata risulta professionalmente inserita nel campo di attività della gestione dei rifiuti e sulla stessa incombeva, pertanto, uno specifico obbligo di adeguata informazione circa le disposizioni che regolano la materia, ivi comprese quelle imposte con un atto autorizzatorio di particolare rilievo quale l'autorizzazione integrata ambientale. 15. Palesemente infondato risulta pure il quinto motivo di ricorso. Va in primo luogo rilevato che D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 29 quattuordecies, comma 2, rivolge il precetto al possessore dell'autorizzazione integrata ambientale che risulta essere, appunto, l'imputata, in quanto legale rappresentante della "CALLEGARY ECOLOGY SERVICE s.r.l.".
Va inoltre ricordato quanto osservato dalla giurisprudenza di questa Corte, in generale, per ciò che attiene l'illecita gestione di rifiuti, ritenuta ascrivibile al titolare dell'impresa anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta vietata (Sez. 3^ n. 23971, 15 giugno 2011).
Va peraltro osservato che la ricorrente non ha in alcun modo negato il diretto espletamento dell'attività autorizzata ne', tanto meno, ha opposto di aver specificamente delegato ad altri soggetti le molteplici incombenze previste dall'autorizzazione integrata ambientale rilasciata alla società da lei rappresentata. Correttamente, dunque, il giudice del merito le ha attribuito la responsabilità dell'inosservanza delle specifiche prescrizioni dell'autorizzazione, peraltro all'esito di una puntuale analisi delle singole condotte contestate, dalla quale emergono pacificamente i profili di colpa che le caratterizzano, cosicché non può ritenersi sussistente il vizio di motivazione denunciato.
16. Quanto al sesto motivo di ricorso, occorre considerare la particolare natura e le finalità delle disposizioni che sono state ritenute violate.
Le finalità dell'AIA sono ora indicate dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 4, comma 4, lett. c) e riguardano la prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento proveniente dalle attività indicate all'allegato VIII. Si prevedono misure intese a evitare, ove possibile, o a ridurre le emissioni nell'aria, nell'acqua e nel suolo, comprese le misure relative ai rifiuti, per conseguire un livello elevato di protezione dell'ambiente, salve le disposizioni sulla valutazione di impatto ambientale, mentre le definizioni relative alla materia sono integrate nell'art. 5.
La specifica disciplina è invece contenuta nel Titolo 3-bis appositamente inserito nel D.Lgs. n. 152 del 2006.
I requisiti della domanda di autorizzazione e la relativa procedura sono
indicati negli artt. 29-ter e 29-quater introducendo, rispetto al passato, sostanziali modifiche.
In base al disposto dell'art. 5, comma 14, dell'ormai abrogato D.Lgs. 59 del 2005, l'autorizzazione sostituiva, ad ogni effetto, ogni altro visto, nulla osta, parere o autorizzazione in materia ambientale, previsti dalle disposizioni di legge e dalle relative norme di attuazione, fatte salve la normativa contenuta nel D.Lgs. n. 334 del 1999, in tema di rischi da incidente rilevante e le autorizzazioni ambientali previste dalla normativa di recepimento della direttiva 2003/87/CE. L'articolo citato stabiliva, inoltre, che l'autorizzazione integrata ambientale sostituisse, in ogni caso, le autorizzazioni indicate nell'elenco riportato nell'allegato 2. Tale elenco, ove necessario, poteva essere modificato. 17. Analoga previsione è ora contenuta del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 29 quater, comma 11, laddove si afferma che le autorizzazioni integrate ambientali sostituiscono, ad ogni effetto, le autorizzazioni riportate nell'elenco dell'allegato 9, secondo le modalità e gli effetti previsti dalle relative norme settoriali. In particolare, le autorizzazioni integrate ambientali sostituiscono la comunicazione di cui all'articolo 216, ferma restando la possibilità di utilizzare successivamente le procedure semplificate previste dal capo 5^.
L'elenco riportato nell'allegato è tuttavia diverso e più restrittivo rispetto a quello del D.Lgs. 59 del 2005, cosicché l'ambito di operatività della disposizione risulta più contenuto rispetto al passato.
Per il resto, la previgente disciplina è stata riprodotta, con modifiche di carattere formale, negli artt. da 29 quinquies a 29 quattordecies senza peraltro apportare alcuna variazione all'impianto sanzionatorio già previsto dal D.Lgs. n. 59 del 2005, art. 16, ed ora contemplato dall'art. 29 quattordecies.
Come osservato correttamente dal giudice del merito e rilevato in precedenza anche da questa Corte (Sez. 3^ n. 18741, 16 maggio 2012, non massimata), vi è una sostanziale continuità tra le diverse disposizioni.
18. Ciò posto, merita di essere ricordato che, come anche rilevato in dottrina, la disciplina in esame, riguardante gli impianti maggiormente inquinanti, è caratterizzata dal riferimento al principio dell' "approccio integrato", di derivazione comunitaria, in quanto, come evidenziando nei "considerando" 7 ed 8 delle Direttiva 96/61/CE sulla prevenzione e la riduzione integrate dell'inquinamento, si ritiene che approcci distinti nel controllo delle emissioni nell'aria, nell'acqua o nel terreno possano "incoraggiare il trasferimento dell'inquinamento tra i vari settori ambientali anziché proteggere l'ambiente nel suo complesso", mentre lo scopo di un approccio integrato della riduzione dell'inquinamento è "la prevenzione delle emissioni nell'aria, nell'acqua e nel terreno, tenendo conto della gestione dei rifiuti ogniqualvolta possibile e, altrimenti, la loro riduzione al minimo per raggiungere un elevato livello di protezione dell'ambiente nel suo complesso". In altre parole, attraverso il superamento del sistema settoriale, mediante l'approccio integrato si opera una valutazione complessiva e coordinata degli impatti ambientali di un insediamento finalizzata anche ad evitare le conseguenze di fenomeni complessi dovuti al contestuale rilascio di più agenti inquinanti.
Se si tiene conto di tale significativo aspetto della disciplina in esame, emerge chiaramente come il ricorso a prescrizioni estremamente dettagliate e l'esigenza di un puntuale rispetto delle stesse siano pienamente giustificati dalle finalità perseguite e anche una eventuale valutazione sulla concreta offensività della condotta non può prescindervi.
Peraltro, una preventiva valutazione sulla gravità delle singole violazioni è stata già effettuata dal legislatore, il quale ha previsto la sanzione penale solo per alcune, ritenute più gravi (tra le quali figura quella contestata alla ricorrente) ed altre, evidentemente considerate di minor rilievo, per le quali è stata ritenuta sufficiente la sanzione amministrativa.
Considerati dunque tali aspetti, appare di tutta evidenza come le prescrizioni imposte nel caso specifico non potevano certo esser ritenute, come preteso in ricorso, una semplice formalità la cui inosservanza resta circoscritta nell'ambito delle mere irregolarità, trattandosi, invece, di disposizioni concernenti, evidentemente, la sicurezza, come quelle relative alla identificazione dei rifiuti ed al monitoraggio della tenuta delle tubazioni, ovvero il controllo dell'attività svolta, nel caso di quelle concernenti il monitoraggio dei consumi idrici e di energia elettrica.
19. Per ciò che concerne, infine, il settimo motivo di ricorso, la ricorrente non deduce di aver richiesto al giudice del merito la concessione della sospensione condizionale della pena ne' tale richiesta risulta dalle conclusioni rassegnate dal difensore e riportate in sentenza ne', tanto meno, dal verbale di udienza. Da ciò consegue che il giudice del merito non era affatto obbligato a motivare la mancata concessione della sospensione condizionale della pena, ne' ad esaminare la questione (Sez. 3^ n. 23228, 13 giugno 2012; Sez. 6^ n. 4374, 2 febbraio 2009 ed altre prec. conf). 20. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità - non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa della ricorrente (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) - consegue l'onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di Euro 1.000,00.
Ai sensi dell'art. 585 c.p.p., comma 4, l'inammissibilità dell'impugnazione si estende ai motivi nuovi.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2014