TERRE DA SCAVO E MATRICI MATERIALI DI RIPORTO: VERGOGNA CONTINUA
a cura di Gianfranco Amendola
TERRE DA SCAVO E MATRICI MATERIALI DI RIPORTO: VERGOGNA CONTINUA
a cura di Gianfranco Amendola
Già ci siamo occupati, su questo sito, delle novità che si preparavano per le terre e rocce da scavo.
Purtroppo, avevamo ragione e la conversione dei primi decreti legge del governo Monti lo dimostra con chiarezza.
E allora vediamo di capire quali novità sono state introdotte e quali ci aspettano.
Per farlo, occorre considerare il quadro che risulta dal combinato disposto dell’art. 3 (Interpretazione autentica dell'articolo 185 del decreto legislativo n. 152 del 2006, disposizioni in materia di matrici materiali di riporto e ulteriori disposizioni in materia di rifiuti) del decreto-legge 25 gennaio 2012, n. 2 coordinato con la legge di conversione 24 marzo 2012, n. 28 («Misure straordinarie e urgenti in materia ambientale.») e dell’art. 49 (Utilizzo terre e rocce da scavo) del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 coordinato con la legge di conversione 24 marzo 2012, n. 27 («Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività.»)
Rinviando per approfondimenti e dettagli ad un prossimo articolo, si possono anticipare le seguenti sintetiche osservazioni:
1) Se leggiamo il contenuto della “interpretazione autentica” dell’art. 185 D. Lgs 152/06, contenuta nell’art. 3 D.L. n. 2, , si vede subito che essa vuole introdurre nella dizione “terreno, suolo e altro materiale allo stato naturale” anche le “matrici materiali di riporto”. Che cosa siano non è molto chiaro perché il richiamo all’allegato 2 alla parte quarta del D. Lgs 152/06 ci porta solo a un paragrafo relativo allo stato di contaminazione del sottosuolo, dove si parla genericamente della “eterogeneità delle matrici, suolo, sottosuolo e materiali di riporto”; ed il secondo comma del citato art. 3 parla di “materiali eterogenei, …., utilizzati per la realizzazione di riempimenti e rilevati, non assimilabili per caratteristiche geologiche e stratigrafiche al terreno in situ, all'interno dei quali possono trovarsi materiali estranei “. Sembra, quindi, almeno a livello letterale che ci si voglia riferire a materiali eterogenei non assimilabili al terreno, all’interno dei quali possono trovarsi materiali estranei ed altamente inquinanti, come già era apparso evidente da una bozza di regolamento bocciata dal Consiglio di Stato e dalla prima formulazione dell’art. 491.
Comunque, una cosa è chiara: premesso che l’art. 185 è di diretta derivazione comunitaria, il nostro ineffabile legislatore vuole equiparare al suolo, alle terre da scavo e all’ ”altro materiale allo stato naturale”, di cui parla la direttiva, anche materiali di riporto estranei, eterogenei e non naturali. Altro che “interpretazione autentica”! Questo è, con tutta evidenza, un allargamento assolutamente al di fuori dell’ambito voluto e consentito dal legislatore comunitario.
L’abnormità della norma risulta ancora più evidente se leggiamo il quarto comma dell’art. 3 citato, secondo il quale, <<all'articolo 240, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, dopo la parola: «suolo» sono inserite le seguenti:” materiali di riporto”>>. Di modo che oggi, ai fini della normativa sui rifiuti, la definizione di <<sito>> è : <<l'area o porzione di territorio, geograficamente definita e determinata, intesa nelle diverse matrici ambientali (suolo, materiali di riporto, sottosuolo ed acque sotterranee) e comprensiva delle eventuali strutture edilizie e impiantistiche presenti>> ; dove appare del tutto evidente che i materiali di riporto non hanno nulla a che vedere con le “matrici ambientali”, ovviamente naturali (suolo, sottosuolo ed acque sotterranee) cui si riferisce la direttiva sui rifiuti (sulla quale era ricalcato l’art. 240).
2) E passiamo all’art. 49 del D. L. n. 1/2012, così come modificato dalla legge di conversione, Sorvoliamo pure sulla stranezza di un comma (1 ter) che, in sostanza, modifica una norma del 2010 introducendovi un decreto ministeriale previsto da una legge che nel 2010 non esisteva, e andiamo al sodo: con tutta evidenza, quello che si voleva era avere le mani completamente libere di classificare come sottoprodotti le terre da scavo (ed ora anche i materiali di riporto eterogenei ecc.), in quanto il testo originario dell’art. 39, comma 4 D. Lgs. 205/2010 collegava l’abrogazione dell’art. 186 (che detta l’attuale disciplina delle terre e rocce da scavo), ad un decreto ministeriale emesso “ai sensi dell’art. 184-bis, comma 2”; rispetto al quale, quindi, bene o male, poneva qualche limite (<<Sulla base delle condizioni previste al comma 1, possono essere adottate misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti >>); mentre ora si tratta di un decreto del tutto indeterminato.
In sostanza, allora, appare del tutto evidente che, in realtà, il disegno complessivo del nostro legislatore si basa su tre obiettivi: ampliare ben oltre il consentito l’ambito delle terre da scavo, inserendovi anche materiali del tutto estranei; evidenziare in tutti i modi, con insistenza quasi maniacale, che i materiali di cui si tratta (terre da scavo e matrici di riporto) possono essere non rifiuti ma sottoprodotti; ed infine ampliare oltre ogni limite, con riferimento ad essi, le condizioni per considerarli sottoprodotti onde sottrarli alla disciplina sui rifiuti.
A questo punto, è altrettanto evidente che questo processo si pone in diretta rotta di collisione con la normativa comunitaria, con la giurisprudenza della Corte di giustizia europea (che già nel 2007 aveva condannato analogo tentativo italiano di sottrarre, sempre con “interpretazione autentica”, le terre da scavo all’ambito dei rifiuti) e con la giurisprudenza della Suprema Corte. La Cassazione, infatti, ha più volte evidenziato che “si palesa inconferente l’eventuale riferimento all'interpretazione autentica di cui all'art. 1, co. 17, della L. n. 443-2001, come modificata dall'art. 23 della L. n. 306-2003, attualmente riprodotta nell'art.186 del D. L.vo n. 152-2006, che esclude dal novero dei rifiuti le terre e le rocce da scavo, qualora si tratti di terra mista ad asfalto, ferro, betonelle per marciapiedi stradali, paletti in cemento precompresso, che costituiscono rifiuti speciali derivanti dalle attività di demolizione, ai sensi del citato art. 7, co. 3 lett. b), del decreto legislativo n. 22/97, attualmente art 184, co. 3 lett. b), del D. L.vo. 3.4.2006 n. 152”2, ribadendo costantemente che “gli inerti provenienti da demolizioni di edifici o da scavi di manti stradali erano e continuano ad essere considerati rifiuti speciali anche in base al decreto legislativo n.152 del 2006, trattandosi di materiale espressamente qualificato come rifiuto dalla legge, del quale il detentore ha l’obbligo di disfarsi avviandolo o al recupero o allo smaltimento”3.
Oggi, invece, con le nuove leggi, si sancisce che possono essere non rifiuti ma sottoprodotti, materiali che già sono invece certamente rifiuti perché trattasi di sostanze, oggetti, residui e pezzi di materiale di cui qualcuno si è disfatto abbandonandoli, dopo l’utilizzo (inclusi i residui dell’attività di scavo), sul terreno o nel terreno.
Peraltro, anche a livello di semplice buon senso, appare evidente che il terreno “naturale” senza sostanze estranee non desta preoccupazioni ambientali e pertanto non crea problemi escluderlo dalla disciplina sui rifiuti; ma la conclusione è del tutto opposta se trattasi di terreno contaminato o, peggio, di materiali eterogenei artificiali diversi dalla terra.
Il che, ovviamente, non vuol dire che il terreno contaminato o questi materiali eterogenei depositati nel terreno non possano essere riutilizzati. Anzi, è auspicabile che ciò avvenga. Ma non può che avvenire attraverso le garanzie che la legge, comunitaria ed italiana, predispone per il recupero dei rifiuti onde evitare pericoli e danni alla salute ed all’ambiente.
E’ ora di trarre le conclusioni.
Il governo dei Professori ha pesantemente manipolato la normativa esistente in materia di terre e rocce da scavo attraverso un incastro tra norme contenute nel D. L. n. 1 e nel D. L. n. 2, così come convertiti in legge, al fine di ampliare a dismisura, in parte da subito e in parte con un futuro decreto, la possibilità di sottrarre materiali naturali, artificiali, da scavo e di riporto, alla normativa sui rifiuti, facendoli rientrare, invece, (ma solo formalmente) nella categoria dei sottoprodotti. Ciò ha fatto in totale contrasto con la normativa comunitaria e senza avere neppure il coraggio di dirlo apertamente, facendo finta, a livello formale, che non si tratta di innovazioni ma solo di una “interpretazione autentica”, e che rispetterà i principi (comunitari) contenuti nell’art. 184-bis.
Al momento, in attesa del futuro decreto, resta valida la disciplina generale precedente relativa alle terre e rocce da scavo (art. 186), ma, con la modifica dell’art. 185, le esclusioni dal campo di applicazione della normativa sui rifiuti si estendono anche al terreno in situ contenente materiali da riporto ed al suolo non contaminato contenente materiali da riporto scavato nel corso di attività di costruzione, ove sia certo che esso verrà riutilizzato a fini di costruzione allo stato naturale e nello stesso sito in cui è stato escavato; qualora lo si voglia utilizzare in siti diversi, si dovrà verificare, caso per caso, se si tratti di rifiuto (art. 183, comma 1, lett.a), di sottoprodotto (se ricorrono le condizioni dell’art. 184-bis) o di materia secondaria (art. 184 ter, fine rifiuto).
Ancora una volta, quindi, il nostro paese ha dimostrato, senza avere neppure il coraggio di dirlo apertamente, che di fronte agli interessi economici della TAV, delle grandi opere, della cementificazione delle aree urbane, poco contano i diritti dell’ambiente e della salute. Questa volta si è giunti addirittura a reiterare, in materia di terre da scavo, un comportamento già pesantemente stigmatizzato dalla Corte europea sin dalla citata sentenza del 2007, ampliando per la seconda volta, indebitamente, le esclusioni dalla normativa sui rifiuti proprio in materia di terre da scavo (“Orbene, ogni norma nazionale che limita in modo generale la portata degli obblighi derivanti dalla direttiva oltre quanto consentito dall’art. 2, n. 1, di quest’ultima travisa necessariamente l’ambito di applicazione della direttiva”).
Insomma, il lupo perde il pelo ma non il vizio, anche se cambiano i governi e arrivano i Professori.
1 Cfr. il nostro Il governo dei Professori ed il partito delle terre e rocce da scavo, su questo sito
2 Cass. pen., sez. 3, c.c. 26 ottobre 2006, n. 39369, Scarinci
3 Cass. pen. sez. 3, 18 giugno 2009, n. 39728, Gioffrè; nello stesso senso, tra le tante, Id., 15 maggio 2007, n. 23788, Arcuti . Da ultimo, cfr. Id, 12 gennaio 2011, n. 16705, Marietta, secondo cui “il fresato d'asfalto proveniente dal disfacimento del manto stradale rientra nella definizione del materiale proveniente da demolizioni e costruzioni, incluso nel novero dei rifiuti speciali non pericolosi”