Incidenti
industriali e sicurezza dei cittadini. Il caso Marghera
di Luca RAMACCI
(pubblicato su "Rapporto Ecomafia 2003 - Legambiente")
Il 28 novembre 2002 un violento incendio ha
interessato, durante la notte, l’impianto denominato TD5 dello stabilimento
Dow Poliuretani Italia di Porto Marghera.
Le notizie riportate dai giornali riferiscono, come
al solito, dei ritardi nell’allertare la popolazione, che ha avuto notizia
dell’accaduto solo 50 minuti dopo lo scoppio (“la
Repubblica”, 1 dicembre 2002 ).
Nei giorni
seguenti le testate locali e nazionali hanno registrato la consueta indignazione
degli abitanti di Marghera e le solite dichiarazioni degli “addetti ai
lavori” alle quali hanno fatto seguito, seguendo un collaudato copione, le
scontate rassicurazioni corredate da smentite, anticipazioni di risultati di
analisi, propositi per il futuro e quant’altro abitualmente viene utilizzato a
corredo di simili notizie.
Sono anche
iniziate le verifiche per accertare eventuali responsabilità penali
Lasciando i processi ai Tribunali - sedi sicuramente
più appropriate delle piazze e dove ancora si spera che la ragione non sia di
chi strilla più forte – e superata la frustrazione che si ha nel constatare
come, ormai, anche la salute dei cittadini venga utilizzata per schermaglie
politiche che di fronte a certi problemi dovrebbero, invece, essere poste in
secondo piano, resta a chi deve convivere con il polo petrolchimico un dubbio
non da poco.
Ci si chiede, infatti, quali siano i rischi reali
per la cittadinanza in caso di incidenti come quello di pochi giorni fa e quanto
siano affidabili le assicurazioni che, in queste occasioni, provengono da più
parti, ancor prima che gli accertamenti ufficiali siano conclusi.
Le notizie che normalmente seguono ad incidenti del
genere, abbastanza frequenti nella zona di Marghera, vanno lette con grande
prudenza e, soprattutto, considerando il comportamento tenuto abitualmente da
chi le diffonde.
Non può farsi a meno di notare, infatti, come la
presenza del polo industriale veneziano sia vissuta talvolta in
modo schizofrenico come potrebbe dimostrare la lettura degli giornali
degli ultimi anni.
Le complesse problematiche legate all’inquinamento
vengono affrontate talvolta ridimensionando drasticamente i fenomeni, peraltro
sotto gli occhi di tutti, negando così l’evidenza, come quando vennero
diffusi i dati di un accertamento eseguito da tecnici dell’Istituto Superiore
di Sanità sullo stato di inquinamento della laguna[1]
o quelli sugli accertamenti relativi alla violazione della normativa
sull’inquinamento atmosferico nell’area industriale di Marghera[2].
Altre volte, invece, la situazione ambientale
viene richiamata in tutta la sua gravità quando si tratta di affrontare il
problema delle bonifiche dei siti contaminati. Iniziativa sicuramente
encomiabile se non fosse accompagnata da un singolare balletto di competenze tra
Stato ed Enti locali (tutti vogliono bonificare) che fa passare in secondo piano
ogni verifica sulle cause dei fenomeni
inquinanti e sulla loro eventuale permanenza ed il fatto che gli oneri delle
bonifiche, alla fine, gravano più sulla collettività che sulle aziende che
hanno inquinato.
All’alternarsi tra l’indifferenza e la corsa
dell’oro delle bonifiche non si aggiunge mai, però, una completa informazione
non solo sullo stato dell’ambiente, ma anche sulle eventuali ripercussioni
sulla salute degli abitanti delle zone interessate dalla presenza del polo
industriale.
Inoltre, alle vicende di “ordinario”
inquinamento, si aggiungono i rischi di incidente rilevante sempre presenti e
portati all’attenzione dell’opinione pubblica da eventi come quello del
novembre 2002.
Anche in questo caso le informazioni sono, però,
contraddittorie e gli strumenti normativi forniti del tutto inutili.
La materia è disciplinata dal D. Lgs. 17 agosto 1999, n. 334 “Attuazione
della direttiva 98/62/CE relativa al controllo dei pericoli di incidenti
rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose” che ha sostituito
il d.p.r. 17 maggio 1988, n. 175
Le disposizioni
(comunemente conosciute rispettivamente, come “Seveso-bis” e “Seveso”
dal riferimento alle direttive comunitarie cui danno attuazione) sono
finalizzati a prevenire il rischio di incidenti rilevanti derivanti
dall’esercizio di determinate attività industriali.
Il D.p.r. 17588, che ha
subito ripetuti tentativi di modifica attraverso l’emanazione di decreti
legge, è rimasto in vigore, per undici anni, nell’indifferenza generale come
dimostrano il numero limitato di studi per una materia così rilevante e la
circostanza che – in tutto il periodo della sua vigenza – si sia registrata
una sola pronuncia giurisprudenziale significativa.
Una tale situazione, in
altre circostanze, potrebbe essere interpretata come un segnale positivo perché
pochi processi potrebbero corrispondere ad una quasi totale osservanza delle
disposizioni.
In realtà lo stato delle
cose era ben diverso perché determinato non solo dall’indifferenza di cui si
è detto, ma anche dalla difficoltà dei controlli e dalle innumerevoli
possibilità di aggirare la normativa.
Un dato emblematico è riscontrabile in una delle rare sentenze in materia[3]
dove viene riportato il contenuto della deposizione testimoniale resa dal
funzionario ministeriale addetto alle istruttorie amministrative conseguenti
l’invio del c.d. rapporto di sicurezza, dalla quale emergono, in tutta la loro
drammaticità, la confusione e l’approssimazione con la quale gli enti
competenti affrontarono l’entrata in vigore del decreto.
Al D.p.r. del 1988 ha fatto
seguito, come si è detto, la disciplina attualmente in vigore applicabile agli
stabilimenti in cui sono presenti sostanze pericolose in quantità uguali o
superiori a quelle specificamente indicate nell'allegato I al decreto medesimo.
La nuova normativa, come emerge
dai commenti che ne hanno accompagnato l’entrata in vigore, ha in alcuni casi
apportato modifiche migliorative ma in altri ha fornito più di una possibilità
di interpretare alcune disposizioni in modo estremamente restrittivo, come nel
caso in cui, nel definire l’”incidente rilevante”, il legislatore si
riferisce ora ad eventi che devono essere “di grande entità” mentre
nel 1988 venivano definiti semplicemente “di rilievo”.
Non è questa la sede per esaminare nel dettaglio
la complessa normativa di settore, ma è sufficiente osservare, per dare a chi
legge un’idea di cosa prevede la legge, che da una semplice, superficiale
lettura delle disposizioni contenute nel decreto, non può farsi a meno di
rilevare che a fronte di una descrizione di procedure e cautele tale da indurre
l’impressione che eventi sicuramente disastrosi verrebbero affrontati con
criteri di sorprendente efficienza, che gli effetti di tali eventi sarebbero
nella maggior parte dei casi contenuti dalla predisposizione di opportuni piani
di sicurezza e che gli organi competenti siano messi in grado di conoscere in
modo completo la situazione sul territorio anche grazie alla fattiva
collaborazione dei gestori imposta dal decreto, la realtà è completamente
diversa
La
consueta “parcellizzazione” delle competenze fra più soggetti, ormai
frequente nelle disposizioni in materia ambientale, la altrettanto frequente
previsione di disposizioni attuative da emanarsi in tempi diversi, la cronica
inefficienza della pubblica amministrazione, la scarsa professionalità dei
soggetti preposti ai controlli, l’impossibilità per gli stessi di procedere
con sufficienti garanzie di libertà di azione (come è facile comprendere se
solo si tengano presenti la struttura degli enti e degli uffici, la possibilità
di controllo politico dei vertici), gli interessi, anche economici in gioco e la
prevedibile necessità dei gestori degli stabilimenti a rischio di salvaguardare
le esigenze di produzione e
limitare le spese fanno chiaramente intendere che lo scenario da film
hollywoodiano rappresentato dal legislatore in caso di incidente resterà una
pia illusione, come dimostrano anche le cronache che hanno accompagnato
l’ultimo incidente di Marghera.
Tornando a questa vicenda,
particolare ma comunque chiaramente indicativa della situazione esistente,
cerchiamo di capire non tanto cosa sia effettivamente successo (lo accerterà
l’inchiesta penale) quanto quale sia la situazione di fatto.
Dai dati riportati
dall’Amministrazione comunale di Venezia[4]
risultano presenti i seguenti impianti soggetti al D.Lv. 33499:
AGIPGAS
S.p.A.
AGIPPETROLI
S.p.A.
AGIPPETROLI
S.p.A.- DEPOSITO AVIAZIONE
AGIPPETROLI
S.p.A.- DEPOSITO AVIAZIONE
ALCOA
TRASFORMAZIONI S.r.l.
API
ATOFINA
ITALIA S.r.l.
AUSIMONT
S.p.A.
CARBOLIO
S.p.A.
CEREOL
CRION
DECAL - DEPOSITI COSTIERI CALLIOPE S.p.A.
DOW
POLIURETANI ITALIA S.r.l.
ENICHEM
S.p.A.
EVC
ITALIA
I.C.B.
S.p.A.
IES
S.p.A.
MARGHERA
BUTADIENE S.p.A.
MIOTTO
GENERALE PETROLI
MONTEFIBRE
S.p.A.
PETROVEN
S.r.l.
PYROS
S.r.l.
SAN
MARCO PETROLI S.p.A.
SAPIO
SERVIZI
COSTIERI Srl
3V
CPM CHIMICA PORTO MARGHERA S.p.A.
Quello interessato
dall’incidente del 22 novembre è la DOW POLIURETANI ITALIA S.r.l.
Nella
scheda redatta dalla ditta interessata ed inviata al Comune ai sensi
dell’articolo 6 del Decreto Legislativo,
risultano impiegate le seguenti sostanze soggette alla normativa e
“suscettibili di causare un eventuale incidente rilevante” :
Acetaldeide
Acido cloridrico gas
Acido
nitrico
Ammoniaca
Cloro
O-
Diclorobenzene
Dinitrotoluene
Fosgene
Mercurio
Metano
m-Nitrotoluene
Ossido
di carbonio
Sottoprodotti
clorurati pesanti:
m-Toluendiammina
Toluendiisocianato
Toluene
Nell’incidente di cui
si è detto, il rischio è stato causato dal coinvolgimento (effettivo o
possibile ancora non lo si è capito) degli impianti in cui è presente il
fosgene (segnalato da più fonti come presente in Marghera in quantitativo pari
a diverse tonnellate).
Questa la descrizione
degli effetti di tale sostanza nella scheda redatta, lo si ripete,
dall’azienda ai sensi della normativa vigente:
“EFFETTI PER LA
POPOLAZIONE E PER L’ AMBIENTE:
Fosgene:
Mal di gola, irritazioni del tratto respiratorio, respiro corto e asmatico,
tosse, edema polmonare, mal di testa, nausea, vomito.
Questa descrizione (come tutte le altre contenute
nelle schede) dovrebbe avere, lo si è già detto, una funzione informativa.
Cercando tuttavia in alte fonti, gli effetti di
questa sostanza sembrano essere molto più rilevanti di quelli riportati nella
scheda.
Una prima descrizione degli effetti del fosgene è
la seguente:
“…Concentrazioni di 20 ppm (parti per
milione) sono sufficienti per provocare l’irritazione del tratto superiore
delle vie respiratorie e tempi di esposizione di 1 o 2 minuti possono causare
gravi danni ai polmoni. Concentrazioni maggiori provocano soffocamento immediato
a causa dei vasti danni polmonari. L’edema polmonare può insorgere anche dopo
un tempo di latenza di alcune ore (5-8 ore). Il liquido causa ustioni cutanee e
danni corneali.”[5].
Sentendo parlare di fosgene viene anche da pensare
al fatto che questa sostanza era usata come aggressivo chimico per scopi
militari durante la I guerra mondiale.
Torna così
alla memoria, ad esempio, la triste vicenda dei “gasati di Plezzo”.
Il 24
ottobre 1917, il XXXV Battaglione lanciagas tedesco, nel corso di una delle
battaglie che presedettero lo sfondamento dell’Isonzo e la disfatta di
Caporetto, utilizzarono con un congegno elettrico per l’innesco simultaneo 900
bombole contenenti gas al fosgene (il gas “Croce Gialla” o “Croce
Azzurra” così chiamato dal simbolo utilizzato per identificarne i
contenitori) da postazioni ubicate a circa 1 Km di distanza dalle linee
italiane.
Un intero
battaglione di fanti italiani della Brigata Friuli venne così annientato.
Morirono
circa 800 uomini e se ne salvarono solo una dozzina.
I
testimoni della vicenda ricordano come i cadaveri vennero rinvenuti in modo tale
da far ritenere che gli sfortunati soldati fossero stati colti dalla morte di
sorpresa, mentre erano intenti alle loro attività ordinarie.
Questo
episodio narrato dai libri di storia[6]
induce a riflettere.
Vediamo
nel dettaglio cosa successe nel 1917 apprendendolo dalle parole di Fritz Weber:
“…Lanciagas? Ecco probabilmente ciò che il presago Niedermooser
designava come uno di “quei trucchi” dei tedeschi. Non sapevo ancora quale
terribile mezzo di combattimento essi fossero. Uno di questi battaglioni poteva
lanciare in una volta sola mille bombole d’acciaio piene di gas avvelenato e
compresso nelle posizioni nemiche. Anche il gas era, almeno per noi, nuovo e
veniva comunemente chiamato “Croce Azzurra”. In realtà era fosgene.
Gl’italiani non disponevano ancora di una maschera contro i gas nel nostro
senso; avevano soltanto delle maschere polivalenti, ma anche queste in quantità
assai scarsa. Il silenzio di morte che regnò nel fondo della valle della conca
di Tolmino fu opera del battaglione lanciagas tedesco. L’operazione non durò
che trenta secondi.
Ma gli
effetti del fosgene furono considerati anche durante la seconda guerra mondiale.
Al fine
di studiare possibili rimedi alle intossicazioni provocate da questa sostanza su
soldati e civili a seguito di fughe dai depositi conseguenti a bombardamento,
dal novembre del 1943 un medico nazista, il dott. August Hirt,
divenne responsabile di un progetto di studio con esperimenti eseguiti su cavie
umane (in questo caso si trattava di prigionieri zingari) che morirono in numero
definito “difficilmente precisabile” nella documentazione consultata. Gli
esperimenti andarono avanti sino alla metà del 1944 e cessarono con l’arrivo
delle truppe alleate a Strasburgo dove Hirt “operava”.[7]
Date
tali premesse e considerato anche che,
sebbene il fosgene a Marghera venga utilizzato per scopi diversi da quelli
bellici e conservato in condizioni, si spera, di sicurezza, non appare comunque
giustificata la scarsa attenzione prestata ai rischi effettivi che una fuga di
questa ed altre sostanze possono provocare nella popolazione, specie in presenza
di un non tranquillizzante strumento legislativo che tutti sappiamo essere solo
di facciata.
Anni
addietro, in occasione di un altro incidente, vennero diffusi i dati relativi
alle analisi di rischio per la popolazione in caso di fughe di fosgene, cloro e
ammoniaca che individuavano un raggio di diversi chilometri in linea d’aria
entro il quale si sarebbero registrati morti e feriti.
Dati più
recenti, diffusi dalla stampa[8]
in occasione dell’ultimo incidente del 22 novembre 2002 ed allegati
all’”Accordo per la chimica” del 1998, indicano, in caso di incidente
grave, un raggio di un chilometro per il rischio di morte e di otto chilometri
per il rischio di ferimenti e danni
permanenti alla popolazione. In quell’occasione si faceva anche notare come
fossero a rischio tutti i pazienti dell’ospedale “Umberto Primo” di
Mestre.
Tutti
questi dati, che sembrano peraltro ispirati a grande prudenza, non forniscono
indicazioni sufficienti agli abitanti di Marghera e delle zone limitrofe.
La
reazione delle autorità preposte ad intervenire, in tutti i casi di incidente,
è spesso tardiva anche perché (lo si apprende sempre dalle cronache) la
notizia dell’incidente viene sempre diffusa direttamente dallo stabilimento
interessato, cosicché la responsabilità della eventuale informazione rischia
di essere rimessa alla discrezione (e alla coscienza) dei titolari dello
stabilimento che potrebbero essere gli stessi soggetti cui deve addebitarsi la
responsabilità dell’evento…
La
costante incertezza sulla reale situazione determina l’ulteriore rischio che
la cittadinanza, assuefatta al balletto di dichiarazioni e smentite utilizzate
da gruppi contrapposti anche per scopi politici, risulti impreparata a reagire
di fronte a condizioni di rischio effettivo.
Quali
dunque le soluzioni?
Ancora
una volta le associazioni di tutela dell’ambiente ed i singoli cittadini
dovrebbero sollecitare da chi ha la responsabilità di assicurare la loro
sicurezza una risposta semplice ad alcune semplici domande:
-
la situazione a Marghera è sotto controllo?
-
Si conoscono i rischi effettivi in caso di incidente?
-
Quali sono questi rischi?
-
Esistono le condizioni per intervenire in modo efficace in caso di
incidente?
-
Quali sono le procedure previste (evacuazione, soccorso alla popolazione)
e le strutture predisposte?
e,
soprattutto:
-
si è in grado di assicurare l’incolumità o, comunque, la
sopravvivenza delle persone che, al momento dell’incidente, si trovano in
luoghi affollati (cinema, supermercati, scuole etc.)?
Queste
risposte dovrebbero essere date, con estrema chiarezza, non dai titolari degli
stabilimenti, dalla documentazione “ufficiale” o dalle dichiarazioni rese
alla stampa da questo o quel politico interessato solo alla cura della propria
immagine, ma dai soggetti cui la legge demanda compiti specifici in materia.
A noi
cittadini spetta invece pretenderle con fermezza respingendo ogni tentativo di
allentare la tensione intorno allo scottante problema della sicurezza con fumose
argomentazioni.
Luca
RAMACCI
Magistrato
[1]
A. DI DOMENICO, L. TURRIO BALDASSARRI, G. ZIEMACKI "Relazione di
Perizia Tecnica sulla qualità e quantità dell’impatto antropico nella
laguna di Venezia". Lo schema dei risultati delle analisi è
consultabile in calce al nostro articolo “Quando
l’indifferenza uccide l’ambiente: l’esempio della laguna di Venezia”
reperibile nella banca dati di Lexambiente (www.lexambiente.com)
all’indirizzo: http://www.lexambiente.it/bancadati/a00007.htm
[4]
Rinvenibili in Internet all’indirizzo: www.comune.venezia.it/sicurezza/schederi
(N.B. l’ultima parola dell’indirizzo è effettivamente “schederi” e
non “schedari”)
[6]
Si vedano, ad esempio, G. PIEROPAN “1914 –1918 Storia della Grande
Guerra sul fronte italiano” Milano 1988 pp. 416 e ss., F. WEBER “ Tappe
della disfatta (Das Ende eine Armee)” Milano 1993 pp. 147 e ss.
[7]
Notizie ricavate dal sito dell’organizzazione Olokaustos di Venezia
(www.olokaustos.org) cui si rinvia per maggiori dettagli, anche fotografici.