La Strategia Energetica Nazionale. Alcune riflessioni sulla valenza giuridica del documento

di Antonio DI MARTINO e Antonio SILEO

Lo scorso 27 marzo nella Gazzetta Ufficiale n. 73, è stato pubblicato il comunicato del Ministero dello sviluppo economico che dà conto dell’avvenuta approvazione del documento finale contenente la Strategia Energetica Nazionale (SEN). Viene così reso noto che, in data 8 marzo 2013, è stato adottato il decreto interministeriale (dei Ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare) che ha approvato la SEN.

Il ponderoso documento – 139 pagine con le quali si vogliono delineare le scelte energetiche dei prossimi decenni per quanto l’orizzonte di riferimento esplicitato chiaramente sia solo quello del 2020 – era stato comunque presentato alla stampa giovedì 14 marzo, proprio dai ministri Corrado Passera e Corrado Clini.

Riduzione dei costi energetici, pieno raggiungimento e superamento di tutti gli obiettivi europei in materia ambientale, maggiore sicurezza di approvvigionamento e sviluppo industriale del settore energia: ecco i quattro obiettivi della Strategia. Per raggiungerli, sono state fissate sette priorità: promozione dell’efficienza energetica, promozione di un mercato del gas competitivo, sviluppo economicamente sostenibile delle energie rinnovabili, sviluppo di un mercato elettrico pienamente integrato con quello europeo, ristrutturazione del settore della raffinazione e della rete di distribuzione dei carburanti, sviluppo sostenibile della produzione nazionale di idrocarburi, modernizzazione dei processi decisionali con l’obiettivo di renderli più efficaci e più efficienti.

 

L’iniziativa dei due Ministri è passata alquanto inosservata, probabilmente perché è intervenuta a valle della celebrazione delle elezioni nazionali e con la Legislatura XVI già conclusa. Circostanze che tuttavia non hanno sottratto la SEN a critiche – immediate, quelle espresse da Greenpeace, Legambiente e WWF – sull’opportunità politica e la legittimità di un atto concluso da un governo deputato al solo disbrigo degli affari correnti.

La non troppa considerazione rivolta alla SEN probabilmente è spiegabile anche con la sua tardiva approvazione, arrivata quasi venti giorni dopo la celebrazione delle elezioni e a quasi quattro mesi dal termine della XVI Legislatura.

 

Mettendo da parte ogni giudizio su contenuti e scelte di merito della Strategia, segnaliamo invece l’opportunità di approfondire preliminarmente la questione della natura giuridica del documento – definito dal decreto che l’ha approvato «atto di indirizzo strategico» – e, quindi, del valore che esso riveste nel nostro ordinamento.

Per rispondere a questi interrogativi, riteniamo sia utile svolgere prima alcune considerazioni sui contenuti e i tratti distintivi della funzione amministrativa.

 

La funzione amministrativa è definita come l’attività che è diretta alla cura e realizzazione degli interessi concreti dello Stato-comunità, così come determinati (e delimitati) dal potere politico. È una funzione connotata dal paradigma della discrezionalità: all’interno di una cerchia di comportamenti leciti, l’organo amministrativo ha la potestà di scegliere quello che è più utile e conveniente a soddisfare l’interesse pubblico, quest’ultimo come predeterminato dalla legge.

Pertanto, la funzione amministrativa deve necessariamente estrinsecarsi nel rispetto del principio di legalità: l’azione amministrativa è sempre vincolata dal perseguimento delle finalità pubbliche definite dalla legge, nonché dall’impossibilità di utilizzare un atto per fini diversi da quelli per i quali il potere stesso è stato concesso.

Nell’esercizio di tale funzione, i soggetti pubblici emanano gli atti amministrativi i quali, diversamente dagli atti politici (che sono ritenuti liberi nel fine: SANDULLI, VIRGA), sono sindacabili innanzi alla giurisdizione ordinaria e amministrativa.

 

Una speciale categoria di atti amministrativi è costituita dagli atti di alta amministrazione. Essi svolgono un raccordo fra la funzione politica e la funzione amministrativa, e sono funzionali all’adozione di (successivi) atti necessari all’attuazione dei fini della legge.

Ne costituiscono esempi, tra gli altri: le deliberazioni di nomina e revoca dei più alti funzionari dello Stato; la nomina dei dirigenti di livello verticistico; le decisioni di ricorsi straordinari in dissenso dal parere del Consiglio di Stato; le decisioni del Consiglio dei Ministri che risolvono i conflitti di competenza.

Il loro fondamento normativo è rinvenuto in due disposizioni, quali: l’art. 95 della Costituzione, che attribuisce al Presidente del Consiglio dei Ministri i compiti di unità di indirizzo politico-amministrativo e di direzione politica del governo; e l’art. 2 della legge n. 400/88, che riserva al Consiglio dei Ministri la competenza in ordine a tutti i provvedimenti di fissazione dell’azione generale amministrativa. Le direttive conseguenti sono impartite dal Presidente del Consiglio dei Ministri, allo scopo di promuovere e coordinare l’attività dei Ministri.

Data la sua rilevanza, all’attività di alta amministrazione partecipa il Presidente della Repubblica che emana gli atti di detta natura, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, nella forma del decreto (CHIEPPA, GIOVAGNOLI).

Secondo autorevole dottrina (SANDULLI), gli atti di alta amministrazione sono atti formalmente e sostanzialmente amministrativi e, come tali, devono ritenersi vincolati nei fini e suscettibili di tutela giurisdizionale.

 

Caratteristiche peculiari degli atti in questione sono, rispettivamente, l’ampio carattere discrezionale e la subordinazione.

Circa il profilo dell’ampia discrezionalità, s’è posto in passato il problema dell’obbligo di motivazione di tale categoria di atti: sul punto, la giurisprudenza amministrativa aveva affermato che, pur non potendosi ricondurre tali atti tra quelli soggetti a obbligo motivazionale, si palesasse tuttavia l’esigenza di una (sia pur sommaria) indicazione delle ragioni a fondamento della decisione assunta. Il problema è stato risolto dall’art. 3 della legge n. 241/90 che ha generalizzato l’obbligo di motivazione per i provvedimenti amministrativi, senza escludere gli atti di alta amministrazione.

Viceversa, la subordinazione deve intendersi riferita sia nei confronti della legge ordinaria sia degli atti di direzione politica, nel cui rispetto gli atti di alta amministrazione sono tenuti ad operare.

Ciò premesso, l’aspetto (davvero) problematico degli atti di alta amministrazione riguarda, appunto, il regime di impugnabilità degli stessi. Trattandosi di atti formalmente e sostanzialmente amministrativi, dovrebbero essere impugnabili, senza limitazioni di sorta, così come stabilisce in via generale l’art. 113 della nostra Costituzione («contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa»: comma 1).

Il principio è pacifico nella giurisprudenza amministrativa: ivi, troviamo enunciato l’assunto che «(…) anche in riferimento agli atti di alta amministrazione si è affermata, nella giurisprudenza, l’ammissibilità del sindacato giurisdizionale sulla sussistenza dei presupposti, sulla congruità della motivazione e sul nesso logico di consequenzialità tra presupposti e conclusioni …» (tra gli altri: Consiglio di Stato, sentenza n. 1483/2012 e TAR Lazio, sentenza n. 2697/2012).

Tuttavia, la dottrina ha rilevato che (ben difficilmente) gli atti di alta amministrazione recano disposizioni sufficientemente puntuali ad arrecare un immediato pregiudizio a situazioni giuridiche individuali. Più spesso, tali atti hanno un contenuto generale che difficilmente potrebbe ledere, in via diretta e immediata, situazioni giuridiche soggettive: ciò comporta l’inesistenza dell’interesse ad agire da parte del privato, che rappresenta condizione di ammissibilità del ricorso in sede giurisdizionale.

Ne consegue che la tutela avverso tale tipologia di atti verrebbe posticipata, piuttosto, al momento in cui siano posti in essere gli atti esecutivi di quelli di alta amministrazione: in quell’occasione, il ricorrente avrà la possibilità d’impugnare tanto l’atto di alta amministrazione, quanto il relativo atto di esecuzione (cosiddetta doppia impugnativa).

 

Svolte le considerazioni di cui sopra, possiamo tornare alla SEN per definirne la natura giuridica.

Ad avviso di chi scrive, pare dubbia la qualificazione del decreto interministeriale che l’ha approvata come un atto di alta amministrazione. Come abbiamo osservato poc’anzi, tale attività amministrativa si estrinseca in forme precise, del resto connaturate alla sua rilevanza: l’adozione di decreti del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri.

Tutt’altra procedura è stata seguita per l’adozione della SEN e l’emanazione del decreto in discorso. Significative, infatti, le mutevoli procedure adottate per la formazione del documento. Per esempio, almeno gli addetti ai lavori non possono non ricordare che l’approvazione della SEN sarebbe dovuta essere preceduta da una Conferenza nazionale sull’energia; anzi, in molti rammenteranno che la fantomatica conferenza era stata più volte promessa già durante il governo Berlusconi.

 

A chi scrive, però, la vera criticità pare piuttosto un’altra: qual è la specifica e puntuale fonte normativa di rango primario che costituisce il presupposto per l’approvazione della SEN?

Nelle premesse al decreto interministeriale, troviamo il richiamo «ai poteri di indirizzo spettanti in materia al ministro dello Sviluppo economico e al ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare».

Orbene, nessun dubbio sussiste circa la generica titolarità in capo ai due dicasteri di poteri di indirizzo. La questione è un’altra: il principio di legalità dell’azione amministrativa implica che gli organi della pubblica amministrazione esercitino le sole potestà che ad essi sono conferite da specifiche norme di rango legislativo, così da esercitare le proprie prerogative relative ai singoli obiettivi/compiti in conformità e nei limiti di tali norme. Se così non fosse, la discrezionalità amministrativa scivolerebbe in arbitrio.

Ecco allora l’interrogativo di fondo, al quale il decreto a firma dei ministri Passera e Clini non risponde: quale sia la specifica, precisa norma di legge che ha assegnato ai loro dicasteri il compito di elaborare la Strategia Energetica Nazionale, definendone ampiezza e condizioni per l’esercizio di tale prerogativa.

La risposta invero se da un lato è piuttosto semplice dall’altro è un po’ sconcertante: questa norma non esiste più!

Per capire come ciò possa essere accaduto è necessario fare qualche breve passo indietro che ci riporta ad una questione ben più contestata della SEN: il ritorno alla produzione elettronucleare. Proprio quello fortemente voluto dall’ex ministro Claudio Scajola che ritenne la SEN tanto urgente da inserirla in un decreto-legge, il 112/2008, convertito per l’appunto con la legge n. 133/2008. Quella SEN era anche strumentale alla Strategia nucleare, questa però dopo il clamore suscitato dal disastro atomico giapponese di Fukushima fu prima stoppata nel bulimico decreto-legge Omnibus, il 34/2011, introducendo una moratoria di un anno, per poi essere del tutto abrogata durante la conversione in legge del decreto. Tutto questo perché il quesito referendario sul nucleare, oltre ad essere abbinato ai due sull’acqua pubblica, precedeva quello sul legittimo impedimento. Così tanto temuto dall’allora Presidente del Consiglio da far di tutto pur di evitare il raggiungimento del quorum.

Sorvolando su alcuni altri interessanti particolari – il giudizio della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale – si arriva all’attuale assetto normativo in cui, in conseguenza della duplice abrogazione sia dell’art. 7 della legge 133/2008 (per via legislativa) sia dell’art. 5 comma 8 della legge 75/2011 (per via referendaria), manca ogni norma primaria che espressamente si occupi della SEN.

Mancherebbe quindi ogni norma (di rango primario) che espressamente si occupi della SEN.

Un vulnus, un vizio di origine, che ben difficilmente poteva passare inosservato; infatti, già l'8 novembre 2012 l'Autorità per l'energia elettrica e il gas ebbe a segnalare a Governo e Parlamento la necessità di una tale norma.

Dovrebbe essere evidente che la questione non è affatto di poco conto. All’inverso, e restando al piano strettamente tecnico-giuridico, la circostanza potrebbe avere precise ripercussioni sulla legittimità (e il regime di impugnabilità) della stessa SEN.

Infatti, un conto è chiederne l’annullamento, adducendo innanzi al giudice la sussistenza di un vizio di legittimità; ben altro, è farne dichiarare la nullità, per l’insussistenza in radice di ogni potestà amministrativa in materia.

La differenza, ne siamo certi, non sfuggirà agli addetti ai lavori.