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Sez. 3, Sentenza n. 9536 del 02/03/2004 (Ud. 20/01/2004 n.00036 ) Rv. 227404
Presidente: Raimondi R. Estensore: Franco A. Imputato: Mancuso. P.M. Siniscalchi A. (Conf.)
(Dichiara inammissibile, App.Palermo, 15 maggio 2002).
538001 EDILIZIA - IN GENERE - Nuovo condono edilizio - Sospensione dei procedimenti in corso - Inammissibilità originaria del ricorso per cassazione - Sospensione - Esclusione - Fondamento.
CON MOTIVAZIONE
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Massima (Fonte CED Cassazione)
In caso di inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza dei motivi non può essere disposta la sospensione del procedimento per violazioni edilizie ai sensi dell'art. 32, comma 25, del decreto Legge 30 novembre 2003 n. 269, convertito con legge 24 novembre 2003 n. 326, atteso che la sospensione deve essere disposta con riferimento ai procedimenti in corso, mentre in ipotesi di inammissibilità originaria del ricorso, non essendosi formato un valido rapporto di impugnazione, non vi è alcun procedimento in corso.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. RAIMONI Raffaele - Presidente - del 20/01/2004
Dott. ONORATO Pierluigi - Consigliere - SENTENZA
Dott. SQUASSONI Claudia - Consigliere - N. 36
Dott. FIALE Aldo - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. FRANCO Amedeo - est. Consigliere - N. 41652/2002
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Mancuso Rosario, nato a Palma di Montechiaro il 10 ottobre 1923, e da Morgana Angela, nata a Palma di Montechiaro l'8 novembre 1936;
avverso la sentenza emessa il 15 maggio 2002 dalla corte d'appello di Palermo;
udita nella Pubblica udienza del 20 gennaio 2004 la relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona dell'Avvocato Generale Dott. SINISCALCHI Antonio, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 3 maggio 2001 il giudice del tribunale di Agrigento dichiarò gli odierni ricorrenti colpevoli dei reati di cui: A) all'art. 20, lett. b), della legge 28 febbraio 1985, n. 47; B) agli artt. 1, 2 e 13 legge 5 novembre 1971, n. 1086; C) agli artt. 1, 4 e 14 legge 5 novembre 1971, n. 1086; D) all'art. 349, secondo comma, cod. pen.; E) all'art. 20, lett. b), della legge 28 febbraio 1985, n. 47.
La corte d'appello di Palermo, con la sentenza in epigrafe, ridusse la pena e revocò l'ordine di demolizione, confermando nel resto la sentenza di primo grado.
Gli imputati propongono ricorso per Cassazione deducendo:
a) violazione degli artt. 110 e 144 cod. pen. e vizio di motivazione in quanto la Morgana è stata condannata soltanto perché comproprietaria dell'area sulla quale è stato realizzato l'immobile abusivo, senza la prova di un suo concorso nel reato. In ogni caso la corte d'appello avrebbe dovuto graduare la sua responsabilità ai sensi dell'art. 114 cod. pen., in considerazione del contributo di minima importanza da lei recato.
b) vizio di motivazione in ordine alla determinazione della pena. MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo è manifestamente infondato. I giudici del merito, infatti, hanno ritenuto accertato che anche la Morgana fosse stata committente delle opere abusive, e che quindi anche la stessa avesse concorso nei reati contestati, non solo perché essa era coniuge, in regime di comunione legale, del coimputato Mancuso e comproprietaria del terreno, ma anche perché essa era destinataria finale della costruzione, perché la medesima abitava e risiedeva nello stesso territorio comunale dove è ubicata la costruzione abusiva, perché la stessa era stata trovata sui luoghi al momento del secondo sequestro, perché per realizzare la palazzina abusiva a ben quattro elevazioni fuori terra era stato necessario un notevolissimo impegno finanziario. Trattasi di un apprezzamento di fatto adeguatamente e congniamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede. Quanto alla presunta violazione dell'art. 114 cod. pen. si tratta di una censura che non è stata dedotta con l'atto di appello e che non può pertanto essere proposta per la prima volta in questa sede di legittimità, mentre sul punto - in mancanza di una specifica doglianza - la corte d'appello non aveva obbligo di motivare. Il secondo motivo si risolve in una censura in punto di fatto della decisione impugnata ed è comunque manifestamente infondato, in quanto i giudici del merito hanno fornito congrua, specifica ed adeguata motivazione sull'esercizio del loro potere discrezionale in ordine alla determinazione della pena, avendo preso in considerazione tutte le circostanze di cui all'art. 133 cod. pen., ed in particolare la gravita del danno recato all'assetto urbanistico del territorio nonché la capacità a delinquere di ciascuno degli imputati, desunta dai loro precedenti penali, gravi e plurimi per il Mancuso. D'altra parte, pur essendo il motivo di appello relativo alla determinazione della pena del tutto generico per la Morgana e del tutto privo di motivazione per il Mancuso, la corte d'appello ha ugualmente ridotto la pena ad entrambi gli imputati, adeguatamente motivando con riferimento allo stato di incensuratezza per la Morgana ed alle circostanze di cui all'art. 133 cod. pen. per il Mancuso. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.
Stante l'inammissibilità originaria del ricorso, dinanzi a questa Corte non si è formato un valido rapporto di impugnazione, con la conseguenza che il procedimento non può essere sospeso ai sensi degli artt. 32, comma 25, e segg. d.l. 30 novembre 2003, n. 269, e 38 e 44 legge 28 febbraio 1985, n. 47, e ciò - anche a prescindere da qualsiasi considerazione circa la superficie e la volumetria del manufatto abusivo, consistente in una palazzina a ben quattro e- levazioni fuori terra - in forza del principio enunciato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 32 del 21 dicembre 2000 (c.c. 22 novembre 2000), imp. De Luca, m. 217.266, secondo cui l'inammissibilità del ricorso per Cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso. Infatti, ai sensi delle citate disposizioni la sospensione deve essere disposta relativamente ai procedimenti in corso, mentre nella specie, a causa dell'inammissibilità originaria del ricorso e dell'inesistenza di un valido rapporto di impugnazione, non può ritenersi che vi sia un procedimento in corso.
D'altra parte, questa soluzione deve essere adottata anche alla stregua di una doverosa interpretazione adeguatrice delle disposizioni che vengono in rilievo o comunque sulla base del principio interpretativo ricavabile dall'art. 111 Cost. che, imponendo una sollecita definizione del processo, e specialmente di quello penale, vieta il compimento di attività inutili ed in contrasto con il principio di economia processuale. La detta soluzione appare altresì conforme alla ratio della disposizione, dal momento che questa, con tutta evidenza, dispone la sospensione del procedimento esclusivamente in vista della possibilità per l'imputato di chiedere ed ottenere il condono edilizio e, quindi, della possibilità che intervenga questa causa di estinzione del reato.
Pertanto, è anche evidente che la norma non può trovare applicazione quando non vi è nemmeno in astratto la possibilità di una futura dichiarazione di estinzione del reato per intervenuto condono edilizio, come si verifica quando palesemente non sussistano i presupposti richiesti dalla legge o come quando - come avviene nel caso di specie - la dichiarazione di estinzione del reato non potrebbe in nessun caso essere pronunciata.
Infatti, quand'anche gli imputati ottenessero il condono edilizio, non potrebbe comunque essere mai pronunciata sentenza che dichiari l'estinzione del reato e ciò perché la causa di estinzione si sarebbe sempre verificata dopo la pronuncia della sentenza impugnata e quindi non potrebbe mai essere rilevata e dichiarata proprio in forza del ricordato principio secondo cui, in caso di inammissibilità del ricorso, non possono essere rilevate e dichiarate le cause di proscioglimento o di estinzione del reato maturate successivamente alla data della sentenza impugnata con il ricorso.
In applicazione dell'art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi che possano far ritenere non colpevole la causa di inammissibilità del ricorso, di ciascuno al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che, in considerazione delle ragioni di inammissibilità del ricorso stesso, si ritiene congruo fissare in E. 500,00.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di E. 500,00 in favore della cassa delle ammende. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 20 gennaio 2004.
Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2004