Cass. Sez. III n. 57954 del 29 dicembre 2018 (Ud 15 set 2017)
Presidente: Fiale Estensore: Cerroni Imputato: Granata
Urbanistica.lavori in difformità e completamento opere
In tema di reato di esecuzione di lavori edilizi in difformità dal permesso di costruire, per individuare la natura e la sussistenza di detta difformità non è necessario attendere il completamento dell’opera ove, da quanto già realizzato, si possa desumere che il manufatto, una volta ultimato, assumerebbe caratteristiche diverse da quelle progettate.
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 4 aprile 2017 il Tribunale di Chieti, in funzione di Giudice del riesame, ha rigettato la richiesta di riesame proposta da Gianfranco Granata e Nella Lanza, indagati per il reato di cui agli art. 110 cod. pen., 30 e 44, comma 1, lett. c) d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 70 legge regionale Abruzzo 12 aprile 1983, n. 18, nei confronti del decreto di sequestro preventivo emesso in data 22 febbraio 2017 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Vasto ed avente ad oggetto un fabbricato di proprietà degli indagati sito in agro di Vasto al foglio 59 part. 4393.
2. Avverso il provvedimento è stato proposto dagli indagati, tramite il difensore, ricorso per cassazione con unico articolato motivo di impugnazione.
2.1. In particolare, i ricorrenti hanno dedotto violazione di legge a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen..
Al riguardo, ripercorsi i dati fattuali (acquisto del lotto dal venditore Luigi Mignano, rilascio a costui di permesso di costruire e di successivo permesso in sanatoria), i ricorrenti hanno ribadito la piena conformità degli atti amministrativi alla normativa urbanistica ed edilizia, mentre il vincolo di asservimento del fondo agricolo si costituiva per effetto del rilascio della concessione edilizia, che legittimava lo ius aedificandi sul fondo contiguo, non rilevando la necessità di strumenti negoziali privatistici. In ragione di ciò, l’atto notarile (che detto asservimento consacrava) aveva funzione di pubblicità notizia e quindi permaneva il vincolo di inedificabilità.
In relazione poi al vizio motivazionale, quanto in ogni caso alla pretesa difformità dell’opera rispetto al permesso di costruire in sanatoria, vi era stata un’immediata sospensione dei lavori a seguito dell’ordinanza comunale che aveva accertato difformità rispetto al permesso di costruire in sanatoria, e tali difformità avrebbe potuto essere sanate attraverso il deposito di una s.c.i.a. stante l’assenza di interventi strutturali da eseguire, trattandosi di opere interne e di variazioni prospettiche senza aumento di superfici e volumi.
Non sussistevano quindi né fumus né periculum.
3. Il Procuratore generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso, stante il fumus del reato ed in ragione dell’irrilevanza della dedotta buona fede dei ricorrenti, acquirenti del cespite, atteso che quantomeno sussisteva la colpa per non avere assunto le necessarie informazioni sulla sussistenza di titolo abilitativo e di compatibilità dell’intervento con gli strumenti urbanistici.
CONSIDERATO IN DIRITTO
4. I ricorsi sono inammissibili.
4.1. Il provvedimento impugnato ha individuato un duplice, e reciprocamente autonomo, profilo di rigetto della richiesta di riesame, assumendo da un lato l’insufficiente estensione quantitativa del vincolo ai fini dell’edificabilità del suolo agricolo, e dall’altro la difformità dei lavori eseguiti dai ricorrenti rispetto a quanto prescritto dal permesso di costruire in sanatoria, sì da provocare l’ordine di immediata sospensione dei lavori.
4.2. A quest’ultimo proposito, i ricorrenti hanno sostenuto che si trattava solamente di opere interne e di variazioni prospettiche, di modifiche di aperture che non importavano aumenti di superficie e volume.
In senso contrario, invece, l’ordinanza di sospensione dei lavori, disposta dal Settore urbanistica del comune di Vasto e presente in atti, dà conto che le opere eseguite in difformità del permesso di costruire, colà analiticamente indicate, avevano comportato un aumento di superficie e la modifica dei prospetti, in assenza di idoneo titolo abilitativo nonostante la previsione normativa di cui all’art. 10 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.
Ciò posto, e tenuto conto della presente sede cautelare, va ricordato che in tema di reato di esecuzione di lavori edilizi in difformità dal permesso di costruire, per individuare la natura e la sussistenza di detta difformità non è necessario attendere il completamento dell’opera ove, da quanto già realizzato, si possa desumere − come in specie, stante la richiamata documentazione − che il manufatto, una volta ultimato, assumerebbe caratteristiche diverse da quelle progettate (cfr. Sez. 3, n. 13592 del 30/01/2008, Dinolfo, Rv. 239837). Né può essere escluso il pericolo che la libera disponibilità dell’immobile abusivamente realizzato possa aggravare o protrarre le conseguenze dell’illecito ovvero agevolarne la commissione di altri (cfr. Sez. 3, n. 39731 del 28/09/2011, Rainone e altro, Rv. 251304).
4.3. I ricorrenti in realtà non hanno preso adeguata posizione su tali profili dell’ordinanza, e comunque su detti aspetti della contestazione finora formulata nei loro confronti.
In ogni caso, quindi, anche a prescindere dalle questioni legate alla pretesa illegittimità dei provvedimenti concessori “a monte”, in ragione del mancato rispetto delle norme in tema di asservimento dei fondi agricoli, non risulta adeguatamente e specificamente contestata l’ulteriore ratio decidendi posta alla base del provvedimento impugnato.
5. Non può quindi che essere dichiarata l’inammissibilità dei proposti ricorsi (cfr. ad es. Sez. 3, n. 30021 del 14/07/2011, F., Rv. 250972).
Tenuto infine conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen. ed a carico di ciascun ricorrente, l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 2.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma il 15/09/2017