Cass. Sez. III n. 30287 del 1 agosto 2022 (UP 26 mag 2022)
Pres. Andreazza Est. Reynaud Ric. Scaletti
Urbanistica.Variante leggera in corso d’opera e difformità incidenti sulle volumetrie
Non rientrano nella ipotesi di variante “leggera” in corso d’opera – disciplinata dall’art. 22, comma 2, d.P.R. 380/2001, che la assoggetta a mera segnalazione certificata di inizio attività da presentarsi prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori, con la conseguente penale irrilevanza rispetto al reato urbanistico le difformità che incidono sulle volumetrie. Queste ultime richiedono il permesso di costruire, sicché il mancato previo rilascio del titolo in variante prima della esecuzione delle opere integra certamente gli estremi di reato.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 7 giugno 2021, la Corte d’appello di L’Aquila, decidendo il gravame proposto da Teresa Scaletti e Giuseppe Mancini, ha confermato la sentenza del Tribunale di Vasto che aveva nei loro confronti dichiarato non doversi procedere per sopravvenuta prescrizione dei reati di cui agli artt. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 181 d.lgs. 30 aprile 2004, n. 42. L’accusa si riferiva al concorso degli imputati, nelle rispettive qualità di committente (Scaletti) e di proprietario (Mancini), nell’esecuzione di lavori d’ampliamento di due preesistenti edifici, in totale difformità dal permesso di costruire e dall’autorizzazione paesaggistica.
2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo del difensore fiduciario, gli imputati hanno proposto due distinti ricorsi per cassazione.
2.1. Con un motivo definito “preliminare”, Giuseppe Mancini lamenta la violazione degli artt. 129 e 531 cod. proc. pen. e dell’art. 44 d.P.R. 380/2001, nonché il difetto di motivazione, per non essere stata esclusa la propria responsabilità, avendo egli, mero proprietario, nominato la moglie quale procuratrice speciale per i suddetti lavori. Non essendosene mai occupato, nemmeno a livello economico, e non essendosi mai recato sul cantiere, egli non poteva essere a conoscenza di eventuali difformità.
3. Gli altri tre motivi del ricorso proposto da Giuseppe Mancini sono comuni a quelli proposti con il ricorso di Teresa Scaletti, come di seguito indicato.
3.1. Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la violazione degli artt. 531 e 129 cod. proc. pen e 44 d.P.R. 380/2001, nonché il vizio della motivazione, per mancato riconoscimento della buona fede, posto che Teresa Scaletti aveva autodenunciato le difformità al Comune e il procedimento penale aveva preso le mosse proprio da tale autodenuncia. La Corte territoriale aveva completamente eluso il tema difensivo proposto con l’appello.
3.2. Con il secondo motivo di ricorso, si deducono la violazione degli artt. 531, 129 cod. proc. pen. e degli artt. 36 e 44 D.P.R. 380/2001, nonché il difetto di motivazione, avendo la Corte d’appello ritenuto che l’opera fosse stata costruita in totale difformità, laddove invece sussisterebbe solo difformità parziale (non integrante il reato ambientale contestato), comunque regolarizzata con nuovi provvedimenti rilasciati dal Comune e dalla Soprintendenza, da ritenersi autorizzativi di variante in corso d’opera o, in ogni caso, di sanatoria.
3.3. Con il terzo motivo di ricorso si lamentano violazione degli artt. 531 e 129 cod. proc. e 44, lett. a), b), c), d.P.R. n. 380 del 2001, nonché vizio di motivazione, per aver la sentenza ritenuto decisiva la perizia disposta dal Tribunale, salvo contraddittoriamente discostarsene, avendo il perito concluso che non si trattava di totale difformità. Si era inoltre omesso di rilevare che, considerando il volume dell’intero edificio risultante dall’ampliamento, le volumetrie eccedenti inciderebbero in misura inferiore al 2%, rientrando, pertanto, nei limiti della “tollerabilità” penalmente irrilevante.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono in parte inammissibili – ciò che vale per la violazione degli artt. 129 e 531 cod. proc. pen e per tutte le doglianze concernenti il vizio di motivazione, proposte in ciascun motivo dedotto – e comunque infondati, ciò che vale invece per la lamentata violazione delle norme sostanziali.
2. La dedotta violazione delle disposizioni processuali è manifestamente infondata.
Ed invero, costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale, in presenza di una causa di estinzione del reato, non può il giudice d'appello, al fine di pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., compiere attività ulteriori rispetto alla mera constatazione di circostanze - emergenti ictu oculi dagli atti - idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la sua commissione da parte dell'imputato ovvero la sua rilevanza penale (Sez. 6, n. 27725 del 22/03/2018, Princi e a., Rv. 273679). La formula di proscioglimento nel merito prevale infatti sulla dichiarazione di improcedibilità per intervenuta prescrizione soltanto nel caso in cui sia rilevabile, con una mera attività ricognitiva, l'assoluta assenza della prova di colpevolezza a carico dell'imputato ovvero la prova positiva della sua innocenza, e non anche nel caso di mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze (Sez. 6, n. 10284 del 22/01/2014, Culicchia, Rv. 259445). La valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartiene più al concetto di "constatazione", ossia di percezione ictu oculi, che a quello di "apprezzamento", essendo quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274-5).
Nel caso di specie la Corte territoriale ha fatto buon governo dei richiamati principi, avendo non illogicamente dato conto delle ragioni per cui non era evidente l’insussistenza di una totale difformità dei lavori realizzati rispetto a quelli consentiti in forza del consistente aumento di volumetria (esattamente considerato in base al progetto approvato), traendone argomento per desumere la realizzazione di un organismo integralmente diverso da quanto previsto nell'atto di assenso, e delle ragioni per cui non poteva ritenersi evidente l’estraneità all’abuso del ricorrente Mancini e la buona fede della ricorrente Scaletti.
3. Quanto ai dedotti vizi di motivazione, al di là dell’infondatezza della doglianza per quanto appena osservato, i motivi sono invece inammissibili per difetto d’interesse.
Ed invero, quando ci si dolga in sede di legittimità – come i ricorrenti fanno in tutti i motivi proposti – del vizio di motivazione in cui sia incorso il giudice di merito nel non fare applicazione della causa di proscioglimento prevista dall’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. a fronte di reati prescritti, laddove, come nella specie, i profili oggetto di doglianza, se fondati, imporrebbero una nuova valutazione di merito, il ricorso è in radice inammissibile, poiché il suo accoglimento imporrebbe l’annullamento della sentenza con un (inutile) rinvio. Non avendo i ricorrenti rinunciato agli effetti della prescrizione, il giudice del rinvio, in ossequio al principio di cui all’art. 129, comma 1, cod. proc. pen. ed alle esigenze di economia processuale di cui tale norma è espressione, non potrebbe infatti se non giungere alla medesima conclusione di proscioglimento processuale cui è pervenuta la sentenza impugnata.
Difetta, pertanto, un concreto interesse che sul punto legittimi l’impugnazione, dovendo farsi applicazione del principio, ripetutamente affermato dalla Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 224275). Nel ribadire recentemente tale principio in altra decisione, le Sezioni Unite di questa Corte – richiamando anche un risalente precedente (Sez. U, n. 17179 del 27/02/2002, Conti, Rv. 221403) – hanno in motivazione chiarito che l’art. 129 cod. proc. pen. «assolve a due funzioni fondamentali: la prima è quella di favorire l’imputato innocente, prevedendo l’obbligo dell’immediata declaratoria di cause di non punibilità “in ogni stato e grado del processo”, la seconda è quella di agevolare in ogni caso l’exitus del processo, ove non appaia concretamente realizzabile la pretesa punitiva dello Stato […] l’eventuale interesse dell’imputato a proseguire l’attività processuale, in vista di un auspicato proscioglimento con formula liberatoria di merito, sarebbe tutelato dalla possibilità di rinunciare alla prescrizione e deve bilanciarsi, alla luce della normativa vigente, con l’obiettivo, di pari rilevanza, della sollecita definizione del processo, che trova fondamento nella previsione di cui all’art. 111, secondo comma, Cost.» (Sez. U, n. 28954 del 27/04/2017, Iannelli). Per coltivare il suddetto interesse, i ricorrenti avrebbero dunque dovuto rinunciare alla prescrizione.
4. Da ultimo, osserva il Collegio che, sulla base della ricostruzione in fatto contenuta in sentenza impugnata, le violazioni di legge sostanziale dedotte sono tutte infondate per le ragioni di seguito indicate.
4.1 Il motivo preliminare dedotto da Giuseppe Mancini non tiene conto della consolidata giurisprudenza di questa Corte in tema di corresponsabilità, anche solo morale, per abuso edilizio del proprietario (o comproprietario) dell'immobile, non formalmente committente, laddove le condotte siano state tenute dal coniuge (cfr. Sez. 3, n. 38492 del 19/5/2016, Avanzato, Rv. 268014; Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e altro, Rv. 261522; Sez. 3, n. 44202 del 10/10/2013, Menditto, Rv. 257625; Sez. 3, n. 25669 del 30/5/2012, Zeno, Rv. 253065; Sez. 3, n. 49719, Campagna, Rv. 277469-01). La sentenza impugnata (pag. 7) valorizza gli indizi, conformi alla richiamata giurisprudenza, che non consentono di ritenere evidente l’estraneità del ricorrente all’abuso, posto che egli, oltre che proprietario dell’immobile, era coniuge della committente e abitava nello stabile oggetto delle modifiche non assentite.
4.2. Ancor meno fondata è la doglianza in diritto proposta con il primo motivo, avendo la sentenza dato conto delle ragioni – connesse alla rilevanza delle difformità – per cui non emergeva chiaramente la buona fede, ritenute evidentemente assorbenti rispetto alla postuma “autodenuncia”. Ed invero, si è osservato che le variazioni rispetto al progetto erano consistite in tamponature di balconi e terrazzi ed in una sopraelevazione comportante un consistente aumento di volumetria, sicché non illogicamente si è ritenuto «difficile anche solo ipotizzare che le opere siano state realizzate su iniziativa autonoma del direttore dei lavori, e che la committente e il proprietario non ne sapessero nulla».
4.3. Con riguardo al secondo motivo, quanto ai successivi provvedimenti con cui si sono regolarizzati gli abusi, la sentenza non li qualifica come provvedimenti in sanatoria e i ricorrenti, pur contraddittoriamente, mostrano di condividere la conclusione, rilevando, tuttavia, che si tratterebbe di autorizzazioni per varianti in corso d’opera.
Rileva, al proposito, il Collegio che la c.d. variante “leggera” in corso d’opera – disciplinata dall’art. 22, comma 2, d.P.R. 380/2001, che la assoggetta a mera segnalazione certificata di inizio attività da presentarsi prima della dichiarazione di ultimazione dei lavori, con la conseguente penale irrilevanza rispetto al reato urbanistico – non è nella specie ravvisabile, stando alla descrizione degli abusi operata nella sentenza impugnata, posto che, per la richiamata disposizione, sono ad essa estranee le difformità che incidono sulle volumetrie. Queste ultime richiedono il permesso di costruire (cfr. Sez. 3, n. 41752 del 27/10/2010, Ruperto e aa., Rv. 248702) – come peraltro attestato da quanto nella specie ex post accaduto – sicché il mancato previo rilascio del titolo in variante prima della esecuzione delle opere integra certamente gli estremi di reato.
4.4. Quanto al terzo motivo, oltre a richiamare ciò che più sopra si è osservato con riguardo alla non evidente riconduzione dell’abuso alla mera ipotesi della parziale difformità – reputandosi manifestamente infondata la tesi della mera “tollerabilità”, in quanto ovviamente non sostenibile in base al confronto, l’unico consentito, con il progetto approvato e violato – ci si si limita qui a rilevare come correttamente la sentenza evidenzi che, sul piano urbanistico, si sarebbe comunque dovuto pronunciare una sentenza di non doversi procedere per prescrizione del reato (eventualmente da qualificarsi come art. 44, comma 1, lett. a, d.P.R. 380/2001, senza che i ricorrenti abbiano allegato un interesse concreto ed attuale alla eventuale riqualificazione sul punto). Quanto al reato paesaggistico, la qualificazione dei lavori in parziale difformità non escluderebbe invece la sussistenza della contravvenzione, posto che, per consolidata giurisprudenza, il reato di cui all'art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, giusta la chiara formulazione del precetto contenuta nel primo comma della disposizione, si configura rispetto a lavori di qualsiasi genere eseguiti sui beni muniti di tutela paesaggistica, in assenza della prescritta autorizzazione o in difformità da essa, senza che assuma rilievo la distinzione tra le ipotesi di difformità parziale e totale rilevante invece nella disciplina urbanistica (cfr. Sez. 3, n. 3655 del 17/12/2013, dep. 2014, Alimonti, Rv. 258491; Sez. 6, n. 19733 del 03/04/2006, Petrucelli, Rv. 234730).
5. I ricorsi, complessivamente infondati, devono pertanto essere rigettati con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 26 maggio 2022.