Corte Costituzionale sent. 276 del 24 luglio 2003
Edilizia. Disapplicazione legge regionale. Conflitto di attribuzione
SENTENZA N.276
ANNO
2003
REPUBBLICA
ITALIANA
IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE COSTITUZIONALE
composta dai
signori:
-
Riccardo |
CHIEPPA |
Presidente |
-
Gustavo |
ZAGREBELSKY |
Giudice |
-
Valerio |
ONIDA |
" |
- Carlo |
MEZZANOTTE |
" |
-
Fernanda |
CONTRI
|
" |
- Guido |
NEPPI
MODONA |
" |
- Piero
Alberto |
CAPOTOSTI |
" |
-
Annibale |
MARINI |
" |
- Franco
|
BILE |
" |
-
Giovanni Maria |
FLICK |
" |
-
Francesco |
AMIRANTE |
" |
- Ugo |
DE
SIERVO |
" |
- Romano |
VACCARELLA |
" |
- Paolo |
MADDALENA |
" |
- Alfio |
FINOCCHIARO |
" |
ha pronunciato
la seguente
SENTENZA
nel
giudizio per conflitto di attribuzione sorto a seguito della sentenza della
Corte di Cassazione sez. 3° penale, n.204 del 23 gennaio 2001, che,
disapplicando l’art. 4 della legge Regione Lombardia 19 novembre 1999, n.
22, ha annullato l’ordinanza del Tribunale di Sondrio del 28 luglio 2000,
relativa al sequestro preventivo di un cantiere edile, promosso con ricorso
della Regione Lombardia, notificato il 24 maggio 2001, depositato in
Cancelleria il 5 giugno 2001 ed iscritto al n. 16 del registro conflitti 2001.
Visto
l’atto di costituzione del Presidente del
Consiglio dei ministri;
Udito
nell’udienza pubblica del 20 maggio 2003 il
Giudice relatore Giovanni Maria Flick;
Uditi
l’avvocato Giuseppe Franco Ferrari per la Regione
Lombardia e l’avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.
- Con ricorso depositato il 5 giugno 2001, la
Regione Lombardia ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del
Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione alla sentenza della Corte
di cassazione, sezione terza penale, del 23 gennaio 2001 (depositata il 7
marzo 2001), n. 204, lamentando «una inammissibile lesione di specifiche
prerogative regionali, con conseguente violazione degli artt. 3, 5, 97, 115,
117 e 118 della Costituzione »; e chiedendo che questa Corte «voglia
dichiarare che non spetta allo Stato, e per esso alla Corte di cassazione,
disapplicare la norma di legge regionale di cui all’art. 4, comma 3, della
legge regionale [della Lombardia] n. 22 del 1999».
La Regione
ricorrente premette che la sentenza citata ha annullato senza rinvio
l’ordinanza con cui il Tribunale di Sondrio, sezione del riesame, aveva a
sua volta annullato il decreto di sequestro preventivo di un cantiere edile,
in esito alla contestazione del reato di costruzione edilizia in assenza di
concessione, ai sensi dell’art. 20, lettera. b),
della legge 28 febbraio 1985 n. 47; e che, in particolare, la Corte di
cassazione aveva ritenuto inaccoglibile la tesi – fatta propria dal
Tribunale in sede di riesame e condivisa dalla ricorrente - della
insussistenza dell’ipotesi di reato, in ragione del disposto dell’art. 4
della legge della Regione Lombardia 19 novembre 1999, n. 22: norma che, per la
tipologia di opere edilizie oggetto dell’imputazione, avrebbe sostituito il
regime della concessione edilizia di cui alla legge n. 47 del 1985 con quello
della denuncia di inizio attività (D.I.A.), «regolarmente eseguita nella
fattispecie in esame».
2.
- Secondo la Regione, la citata norma di
legislazione regionale – prevedendo la serie di interventi edilizi
subordinati a denuncia di inizio di attività – avrebbe espressamente
sancito che essa si applica (comma 3) «…a
tutti gli interventi edilizi definiti nell’Allegato A della deliberazione di
Giunta Regionale n. 6/38573 del 25 settembre 1998, […] purché conformi alla
vigente strumentazione urbanistica comunale»: e ciò con l’evidente scopo
di ampliare il novero degli interventi soggetti alla semplice denunzia
iniziale, mediante l’applicazione di tale norma anche agli interventi di
nuova costruzione, alla sola condizione della loro conformità alla vigente
strumentazione urbanistica comunale. Invece,
la Corte di cassazione, con la pronuncia in argomento, avrebbe ritenuto
– in netto contrasto con la vigente legislazione regionale – che, per le
opere eseguite nella fattispecie sottoposta al suo esame e, in generale, per
«ogni intervento di nuova edificazione», il regime concessorio non potesse
essere sostituito dalla mera denuncia di inizio attività, in forza di
asseriti «principi fondamentali della legislazione urbanistica statale», cui
la normativa regionale andrebbe ricondotta, ai sensi
dell’art. 117 della
Costituzione.
In
particolare, nella sentenza in questione, la Cassazione avrebbe individuato
tali principi desumendoli sia dall’art. 19 della legge n. 241 del 1990, come
modificato dall’art. 2 della legge n. 537 del 1993, secondo cui per le
concessioni edilizie l’atto di assenso non potrebbe essere sostituito da una
mera denunzia di inizio attività; sia dall’art. 2, comma 60, della legge n.
662 del 1996, nella parte in cui restringe l’ambito di applicazione della
D.I.A. agli interventi edilizi di minor rilievo. In realtà, a parere della
Regione, la Cassazione avrebbe «operato un’illegittima invasione nelle
competenze regionali in materia urbanistica, disapplicando la normativa
lombarda in nome di generiche esigenze di riconduzione della medesima
nell’alveo dei principi fondamentali enunciati da leggi dello Stato»: così
violando le prerogative costituzionali della Regione ed «arrogandosi» il
potere di disapplicare una disposizione di legge regionale, in quanto ritenuta
in contrasto con la norma costituzionale di cui all’art. 117.
3.
- Più specificamente, la Regione lamenta come
il Giudice di legittimità – «scontrandosi con l’inequivoco dato
letterale» dell’art. 4, comma 3, della citata legge regionale n. 22 del
1999 – abbia ritenuto che la norma «autolimiterebbe la propria applicazione»
ai soli interventi di recupero di immobili e di realizzazione di nuovi
parcheggi: così negando, in radice, la possibilità di avvalersi della D.I.A.
per gli interventi di nuova costruzione,
benché ricompresi nell’elenco del già citato Allegato A) alla
deliberazione di Giunta regionale n. 6/38573 del 25 settembre 1998. Pertanto
– assume la ricorrente - «indipendentemente da quanto testualmente previsto
dall’art. 4», la Cassazione «è pervenuta, in sostanza, alla sua
disapplicazione», affermando così l’obbligo della Regione a sottrarre in
ogni caso gli interventi di nuova costruzione al regime della denuncia di
inizio attività, in forza dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi
dello Stato; e postulando così «l’esistenza di un precetto diverso da
quello voluto dal legislatore regionale».
Ad avviso
della Regione, «ciò che si contesta non è un error
in iudicando commesso dalla Suprema Corte, bensì un difetto assoluto di
giurisdizione della magistratura ordinaria, che non può sostituire una
propria determinazione a quella del legislatore»: a costituire fondamento del
conflitto non sarebbe, cioè, «l’uso illegittimo» di un potere comunque
spettante all’autorità giudiziaria; quanto, piuttosto, «una vera e propria
interferenza nell’azione regionale idonea a condizionare l’attribuzione
che in quell’azione si esprime e si svolge, mediante atti non consentiti al
giudice». Quest’ultimo si sarebbe espresso in ordine alla costituzionalità
di una norma di legge regionale fino al punto da disapplicarla, così
pervenendo alla «negazione implicita dell’intrinseca natura legislativa
dell’atto»: il che integrerebbe
«un errore sui confini stessi della giurisdizione».
Sotto tale
profilo, secondo la Regione, risulterebbero violate numerose norme della Carta
fondamentale e, segnatamente, l’art. 127, «quanto meno dal punto di vista
procedimentale»; l’art. 101, nella parte in cui vincola i giudici alla
legge; l’art. 134, che riserva alla Corte costituzionale il giudizio sulla
legittimità costituzionale delle leggi statali e regionali.
4.
- La ricorrente ritiene inoltre che, con la
sentenza oggetto del conflitto, sarebbe stata anche «operata
un’inammissibile lesione del potere legislativo regionale nella materia
urbanistica». Essa rileva come la giurisprudenza di questa Corte abbia
ritenuto possibile la lesione delle attribuzioni regionali attraverso pronunce
di organi giurisdizionali, «ove queste espressamente dichiarino di
disapplicare le leggi emanate dalle regioni, ovvero si attengano, nel giudizio
che sono chiamate ad esprimere, ad interpretazioni palesemente erronee e,
quindi, di fatto meramente apparenti».
Nel caso
di specie, il potere giurisdizionale esercitato determinerebbe, in concreto,
«un’illegittima compressione di un’attribuzione regionale ed
un’altrettanto illegittima espansione di altra attribuzione statale»: ciò
in quanto la materia “urbanistica” rientra tra quelle su cui la Regione ha
potestà legislativa ed amministrativa; e tali potestà sono tutelate non
soltanto dall’art. 117 Cost. (ambito materiale) e 127 Cost. (ambito
procedimentale), ma anche da tutta una normativa la quale – in attuazione
dei principi di decentramento e di semplificazione – ha espressamente
statuito che “la disciplina legislativa delle funzioni e dei compiti
conferiti alle Regioni … spetta alle Regioni quando è riconducibile alle
materie di cui all’art. 117, primo comma della Costituzione” (art. 3 della
legge n. 59 del 1997, c.d. legge Bassanini). Dalla «pretesa», da parte della
Corte di cassazione, di «modificare il vigente dettato normativo», sì da «sostituirsi
al legislatore», discenderebbe – conclude la ricorrente – una
inammissibile lesione delle prerogative regionali: con conseguente violazione
degli artt. 3, 5, 97, 115, 117 e 118 della Costituzione. Né, in senso
contrario, varrebbe l’obiezione secondo cui gli effetti della sentenza in
questione sarebbero limitati all’oggetto di quel giudizio, «così che la
legge regionale n. 22 del 1999 continuerebbe a spiegare la sua efficacia in
via generale»; infatti, sarebbe sufficiente la disapplicazione di una
disposizione di legge «anche in un solo caso», per determinare la rilevata
lesione delle prerogative regionali costituzionalmente tutelate, con
conseguente necessità di annullamento della sentenza oggetto del conflitto.
5.- Si è costituito in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità e
l’infondatezza delle doglianze espresse nel ricorso. La difesa erariale
evidenzia come la sentenza oggetto del conflitto rechi «una interpretazione
delle norme vigenti», dalle quali non possono di certo essere escluse le
norme-quadro statali: con la conseguenza che la Regione Lombardia avrebbe, in
realtà, proposto una «inammissibile impugnazione avverso sentenza
legittimamente resa dalla Suprema Magistratura penale». D'altra parte,
secondo l’Avvocatura, l’esegesi della disposizione legislativa regionale
adottata dalla ricorrente risulterebbe incompatibile con il principio
fondamentale della legislazione dello Stato che sancisce l’esclusiva
competenza statale in materia di repressione penale, poiché l’eliminazione
dello strumento concessorio, a beneficio della denuncia di inizio attività,
verrebbe ad incidere sulle fattispecie penali (assenza della concessione,
totale difformità, variazioni essenziali) che ad esso fanno riferimento.
6. - Con memoria depositata in
prossimità della udienza, la Regione ricorrente ha richiamato e sviluppato
ulteriormente le considerazioni già poste a fondamento del ricorso,
sottolineando come, nel caso in esame, sarebbe altresì «riscontrabile un
evidente abuso anche nel concreto esercizio del potere giurisdizionale,
connesso all’interpretazione palesemente erronea che la Suprema Corte ha
fornito della norma di legge regionale applicabile nel caso de
quo, vale a dire dell’art. 4, comma 3, l.r. 22/1999, anche in raffronto
ai principi desumibili dalle leggi dello Stato».
Considerato in diritto
1. - La Regione Lombardia
propone conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato, in relazione alla
sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione, sezione terza penale, il 23
gennaio 2001, n. 204, con la quale è stato disposto l’annullamento senza
rinvio dell’ordinanza del Tribunale del riesame di Sondrio del 28 luglio del
2000, che aveva a sua volta annullato il decreto di sequestro preventivo di un
cantiere edile, disposto a seguito della contestazione del reato di
costruzione in assenza di concessione edilizia, a norma dell’art. 20, lett. b),
della legge n. 47 del 1985. La Corte regolatrice, infatti, « in netto
contrasto con la vigente legislazione regionale», avrebbe ritenuto - sulla
base di una asserita necessità di riconduzione della normativa regionale ai
principi fondamentali della legislazione urbanistica statale - che, per le
opere eseguite nella vicenda sottoposta al suo esame, il regime concessorio
non potesse essere sostituito dalla semplice denuncia di inizio di attività.
In tal modo – sostiene la Regione ricorrente – la Corte di cassazione
avrebbe operato una illegittima invasione nelle competenze regionali in
materia urbanistica, disapplicando la disciplina legislativa regionale «in
nome di generiche esigenze di riconduzione della medesima nell’alveo dei
principi fondamentali enunciati da leggi dello Stato»; così da vulnerare «gravemente...le
prerogative costituzionali» della stessa ricorrente.
2. – Il conflitto non è
ammissibile.
Come
osserva la stessa ricorrente, questa Corte ha affermato in più occasioni che
anche gli atti giurisdizionali sono suscettibili di essere posti a base di un
conflitto, non soltanto tra poteri dello Stato, ma anche tra Regioni e Stato:
sempre che, tuttavia, il conflitto stesso non si risolva in un improprio
strumento di sindacato e di censura del modo di esercizio della funzione
giurisdizionale, assumendo le connotazioni di un mezzo di impugnazione
atipico. Una eventualità, quest’ultima, la cui evidente patologia
risulterebbe aggravata dalla circostanza che lo scrutinio,
in tal modo impropriamente richiesto a questa Corte, finirebbe per
sovrapporsi a quello già operato in sede giurisdizionale, con un perimetro
decisorio peraltro neppure coincidente e nel quadro di un contrasto tra enti,
diversi dalle parti del procedimento nel quale è stato adottato l’atto
posto a base del conflitto.
Ove,
dunque, relativamente a norme sostanziali o processuali, si intendano far
valere vizi o errori di giudizio, gli unici rimedi attivabili possono essere
quelli previsti dall’ordinamento processuale nel quale l’atto di
giurisdizione concretamente si iscrive. Se così non fosse, il giudizio
costituzionale si trasformerebbe in un nuovo grado di giurisdizione avente
portata generale: «avendo infatti per lo più le situazioni soggettive delle
Regioni base diretta o almeno indiretta in norme di rango costituzionale
attributive di competenza – ha osservato questa Corte – la gran parte dei
motivi di doglianza da parte delle stesse contro decisioni giurisdizionali
finirebbe per potersi trasformare automaticamente in motivo di ricorso per
conflitto di attribuzione, con evidente forzatura dei caratteri propri di
quest’ultimo e alterazione dei rapporti tra la giurisdizione costituzionale
e quella riconosciuta a istanze giurisdizionali non costituzionali» (sentenza
n. 27 del 1999).
Perché
sia dunque ammissibile un conflitto di attribuzione, quando a base della vindicatio
sia posto un atto giurisdizionale, è necessario che da parte del potere o
dell’ente – che da quell’atto pretende di aver subito una lesione nella
propria sfera di attribuzioni costituzionali – «sia contestata radicalmente
la riconducibilità dell’atto che determina il conflitto alla funzione
giurisdizionale...ovvero sia messa in questione l’esistenza stessa del
potere giurisdizionale nei confronti del soggetto ricorrente» (v. la sentenza
citata ed altre ivi richiamate).
Alla luce
di tali principi, emerge con chiarezza come, nella specie, le doglianze
prospettate dalla ricorrente non integrino i presupposti di cui si è detto.
Infatti, la Regione stessa non contesta tanto una vera e propria
“disapplicazione” di una norma regionale, quanto piuttosto una
“interpretazione palesemente erronea” di essa da parte della Corte di
cassazione, la quale “ha fornito un’interpretazione alquanto restrittiva
del citato articolo 4 … fino a sostanzialmente disapplicarlo, almeno
parzialmente”.
Orbene, a
tale interpretazione restrittiva – nell’individuare quale fosse la norma
applicabile nel procedimento incidentale a
quo – la Corte di cassazione è pervenuta attraverso un argomentare
tipicamente interpretativo, mediante il riferimento a “ragioni di ordine
testuale, razionale e sistematico” (così la motivazione della sentenza); e
ciò ha fatto riferendosi, nella motivazione, non già a principi fondamentali
da essa individuati aliunde – per
formulare in base a questi ultimi, come sembra ritenere la ricorrente, un
inammissibile sindacato di disapplicazione per incostituzionalità ex
art. 117 Cost. – bensì a quei principi fondamentali enunciati espressamente
proprio dall’art. 4 commi 1 e 2 della legge regionale.
Si versa,
pertanto, in un contrasto avente ad oggetto esclusivamente la portata da
annettere ad una proposizione ermeneutica, la quale, per di più, promana,
nella ipotesi in esame, proprio
da parte dell’organo che – a norma dell’art. 65 dell’ordinamento
giudiziario – è chiamato ad assicurare «...l’esatta osservanza e
l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo
nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni...». La
situazione è quindi ben diversa da quella scrutinata nella sentenza n. 285
del 1990 (più volte evocata dalla Regione ricorrente), ove un abnorme
“potere disapplicativo” di leggi regionali fu espressamente posto a
fondamento del provvedimento giurisdizionale, costituendone
non un passaggio dell’iter
argomentativo, ma la dichiarata essenza della ratio
decidendi.
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
inammissibile il conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione Lombardia
nei confronti dello Stato, in relazione alla sentenza della Corte di
cassazione, sezione terza penale, del 23 gennaio 2001, n. 204, con il ricorso
indicato in epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
l'8 luglio 2003.
Riccardo
CHIEPPA, Presidente
Giovanni
Maria FLICK, Redattore
Depositata
in Cancelleria il 24 luglio 2003.