TAR Lombardia (BS) Sez. II n. 1146 del 30 dicembre 2021
Urbanistica.Traslazione del posizionamento di un edificio
La mera traslazione del posizionamento di un edificio espressamente previsto dalla pianificazione generale e di dettaglio in zona completamente urbanizzata non può in alcun modo integrare un’ipotesi di lottizzazione abusiva, ma, al più, di variazione essenziale ai sensi dell’art. 32 del DPR 380/2001, che, alla lettera c) richiama proprio la “localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza” ovvero, considerato che la norma regionale non contiene analogo richiamo nella definizione di quelle che debbono essere considerate variazioni essenziali, una “difformità parziale”.
Pubblicato il 30/12/2021
N. 01146/2021 REG.PROV.COLL.
N. 00652/2020 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 652 del 2020, proposto da
Anna Maria Maccarinelli, rappresentata e difesa dall'avvocato Piermario Strapparava, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Valli' Cappiello in Brescia, via M. D'Azeglio 1/C;
contro
Comune di Nuvolento, rappresentato e difeso dall'avvocato Mauro Ballerini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Brescia, viale della Stazione, n. 37;
Comune di Nuvolento in Pers. Resp. Uff. Urb. Arch. Pelizzari, Comune di Nuvolento in Pers. Resp. Proc. Geom. Ebranati, Provincia di Brescia, Comando Prov. Vigili del Fuoco di Brescia, Dipart. Vigili del Fuoco, Socc. Pubbl. e Difesa Civile, Prefettura di Brescia, Regione Lombardia, Consorzio di Bonifica Chiese, non costituiti in giudizio;
Ministero dell'Interno, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato e domiciliato ex lege in Brescia, presso gli Uffici di quest’ultima, via S. Caterina, 6;
nei confronti
Benedetti Fratelli S.n.c. di Rinaldo e Franco, rappresentato e difeso dall'avvocato Alessandro Asaro, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Brescia, via Moretto n. 31;
Stefania Arch. Annovazzi, non costituita in giudizio;
per l'annullamento
- del permesso in sanatoria n. 13/2020 (Pratica edilizia 20/2020) datato 4 settembre 2020, rilasciato dal Comune di Nuvolento a favore dei controinteressati, di cui è stata acquisita copia a seguito di accesso agli atti del 7 settembre 2020;
- nonché di ogni atto ad essa presupposto, connesso, collegato e consequenziale.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Nuvolento, del Ministero dell'Interno e della società Benedetti Fratelli S.n.c. di Rinaldo e Franco;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 dicembre 2021 la dott.ssa Mara Bertagnolli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Lette le note di passaggio in decisione depositate dal Comune;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con il ricorso in esame, parte ricorrente censura il permesso di costruire rilasciato dal Comune intimato e relativo all’edificazione, in relazione all’immobile realizzato sulla scorta delle concessioni edilizie n. 45/1994 e n. 57/1992, di un blocco servizi prefabbricato e una cabina tecnologica interni al capannone, una porta esterna per l’accesso alla cabina tecnologica e alcuni condotti interni e camini a tetto.
Opere eseguite in assenza di titolo edilizio, non essendo previste dalle citate concessioni edilizie, ma, secondo il Comune, caratterizzate dalla doppia conformità richiesta dalla norma e suscettibili, quindi, di sanatoria, come esplicitato nel provvedimento impugnato, che parte ricorrente ha conosciuto solo successivamente alla contestazione della legittimità di un altro titolo in sanatoria rilasciato agli stessi controinteressati con riferimento alla stessa proprietà e impugnato con autonomo ricorso sub RG. 521/2020.
Avverso tale provvedimento, parte ricorrente ha dedotto:
1. Violazione, falsa ed errata applicazione dell’articolo 36 e seguenti del Testo Unico Edilizia D.P.R. n. 380/2001. Poiché l’inutile decorso del termine di cui all’art. 36, comma 3 del DPR 380/2001 comporta il formarsi del silenzio diniego, da impugnarsi nel termine decadenziale (così come affermato dal Consiglio di Stato nella sentenza 2742/2020), nella fattispecie in esame si sarebbe consolidato un provvedimento negativo, con la conseguenza che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria sarebbe illegittimo, in quanto contradditorio rispetto al provvedimento tacitamente formatosi di segno negativo.
A nulla rileverebbe l’integrazione documentale, che avrebbe riguardato esclusivamente l’aspetto dell’occupazione del sedime del Consorzio di Bonifica con le opere di recinzione;
2. Violazione, falsa ed errata applicazione dell’articolo 36 e seguenti del Testo Unico Edilizia D.P.R. n. 380/2001 in ragione della carenza del presupposto della doppia conformità delle opere alle prescrizioni urbanistiche vigenti al momento della presentazione della domanda e al momento della realizzazione dell’opera, riscontrata in relazione a diversi profili:
2.1. violazione, falsa ed errata applicazione degli art. 15, 20, 30, 31, 34, 36, 37, 45 e seguenti del DPR n. 380/2001 e degli artt. 33, 35, 36, 37 e 38 della L.R. Lombardia n. 12/2005. Il Comune resistente sarebbe incorso in uno sviamento di potere, non avendo considerato che, poiché la concessione edilizia n. 45/1994 era difforme rispetto alle previsioni planivolumetriche allegate alla convenzione urbanistica, con l’intervento assentito si sarebbe dato luogo a un’ipotesi di lottizzazione abusiva insuscettibile di sanatoria;
2.2. il Comune avrebbe, altresì, impropriamente suddiviso l’accertamento di conformità in due parti, adottando due diversi provvedimenti, quello impugnato con il ricorso in esame, che ha considerato l’ambito pertinenziale, ma non anche la villa edificata con la stessa C.E. 45/94 e il permesso di costruire n. 13/2020 che sana opere interne che hanno portato al cambio di destinazione d’uso da deposito a produttivo. Gli abusi avrebbero, invece, dovuto essere considerati esaminando l’intero contesto immobiliare;
2.3 la conformità avrebbe dovuto essere verificata con riferimento al PRG vigente e alla convenzione urbanistica sottoscritta con il piano di lottizzazione di iniziativa pubblica denominato Pieve, mentre sarebbe stata effettuata assumendo a parametro le concessioni edilizie 45/1994 e 57/1992;
2.4. ancora, secondo parte ricorrente, il Comune avrebbe erroneamente omesso di rilevare la non conformità dell’intervento oggetto di sanatoria rispetto al planivolumetrico allegato alla convenzione urbanistica e sottoscritto dai lottizzanti ovvero non avrebbe valorizzato il fatto che l’ingombro volumetrico del capannone sarebbe stato traslato in posizione differente senza alcun titolo legittimante. Ciò sarebbe stato reso possibile dalla falsa rappresentazione dei luoghi compiuta dal tecnico di parte ed avvallata dal Comune, la quale riguarderebbe anche le opere di urbanizzazione, l’abitazione pertinenziale e il traliccio e il punto di approdo della linea elettrica, opere, queste ultime, in relazione alle quali è stato proposto il parallelo giudizio sub RG 196/2020 e la cui presenza sarebbe stata completamente ignorata in sede di rilascio del permesso di costruire in sanatoria;
3. (corrispondente al punto 2.8.1. del ricorso) il Comune avrebbe omesso di considerare la strumentalità di canalizzazioni, porta, locali di servizio e camini - la cui realizzazione abusiva è stata rilevata nel corso del sopralluogo eseguito il 16 gennaio 2020 e che formano oggetto di sanatoria - alla trasformazione della destinazione d’uso dell’immobile, preclusa sul piano urbanistico, che non ammette nell’area attività produttive, in parte a produzione di bricchette di carbone e in parte allo stoccaggio/vendita dei prodotti;
4. anche la parte rimanente dell’edificio, non trasformata a scopo produttivo, avrebbe subìto un cambio di destinazione d’uso, essendo stata adibita a spazio di vendita: destinazione anch’essa non ammessa dal PGT;
5. il rilascio del titolo avrebbe dovuto essere subordinato al rispetto dell’art. 33 delle NTA del PGT, che prevede che “Negli ambiti territoriali a destinazione prevalentemente produttiva le acque meteoriche intercettate dalla copertura dovranno essere recapitate in appositi bacini di accumulo temporaneo evitando il convogliamento diretto in fognatura e/o la dispersione casuale nelle zone limitrofe. La realizzazione delle nuove attività produttive e l’ampliamento di quelle esistenti deve essere accompagnata da opportune indicazioni relative alla pressione ambientale stimata, alla dotazione tecnologica ed ambientale prevista, agli elementi di rischio potenziale indotto, alle indicazioni delle misure di mitigazione e compensazione dell'impatto previsto.”. In ogni caso, data la vicinanza alle abitazioni, lo stesso articolo, che vieta attività moleste e inquinanti, precluderebbe il cambio di destinazione d’uso perseguito dalla parte controinteressata;
6. il permesso sarebbe, infine, illegittimo, perché il cambio di destinazione d’uso avrebbe dovuto comportare la verifica del rispetto della disciplina in materia di prevenzione incendi;
7. infine, il permesso di costruire impugnato sarebbe illegittimo, in quanto fondato su una valutazione di impatto acustico inveritiera.
Si è costituito in giudizio il Comune, che, dopo aver ricostruito la vicenda e dato conto della definizione del ricorso sub RG 196/2020 con il rigetto dello stesso (c.f.r. sentenza n. 256/21), ha sostenuto l’infondatezza di quanto dedotto nel ricorso introduttivo.
Anche i controinteressati hanno eccepito l’infondatezza del ricorso.
Parte ricorrente ha, quindi, con un comportamento processuale che rasenta molto da vicino la temerarietà della lite, integralmente ribadito il proprio convincimento, pur non condiviso nelle pronunce già intervenute, che in esecuzione della convenzione sarebbero stati realizzati dei sottoservizi qualificati come privati, ma che avrebbero dovuto essere acquisiti alla mano pubblica, il tutto, però, senza in alcun modo rappresentare come tale profilo potrebbe incidere sulla sanabilità delle modifiche apportate al deposito oggetto dell’accertamento di conformità.
Alla pubblica udienza del 16 dicembre 2021, la controversia è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
Prima di procedere all’esame del merito della controversia si rende opportuno chiarire che le vicende edilizie riguardanti le proprietà dell’odierna ricorrente e della parte controinteressate hanno già formato oggetto di più pronunce di questo Tribunale.
In particolare, con sentenza n. 586/2019, l’ordinanza n. 17 del 10 luglio 2019, che ha riguardato la proprietà Benedetti, è stata annullata nella sola parte in cui recava un ordine di ripristino dell’attività di deposito, in quanto dopo che la diversa attività produttiva effettivamente esercitata era già stata abbandonata, l’utilizzo è risultato essere quello proprio di un deposito. In tale pronuncia è stato anche chiarito, con riferimento all’ordine di ripristino del diritto di passaggio, rispetto a cui la stessa ricorrente si è detta contraria, che la questione ha natura privatistica, anche in considerazione del fatto che la proprietà è già dotata di un autonomo accesso. Anche per questa parte, dunque, l’ordine di ripristino è stato annullato.
Tale pronuncia è stata confermata con la sentenza del Consiglio di Stato n. 3810/21, che ha definitivamente ritenuto doversi escludere “che l’invocato strumento urbanistico prevedesse che l’area di proprietà dell’appellante avesse accesso alla via pubblica attraverso il fondo degli appellati” ed affermato che gli “elaborati non prevedono né la strada, né l’accesso, ma semplicemente i sottoservizi”.
Successivamente, parte ricorrente ha presentato un ricorso finalizzato all’annullamento della nota del responsabile dell’Ufficio Unico Intercomunale Urbanistica, Edilizia Privata e SUAP prot. n. 1313/2020 del 13 febbraio 2020, contenente le risposte del Comune alle questioni evidenziate dalla ricorrente nella nota del 30 dicembre 2019 a proposito della lottizzazione “Pieve” (regolata dalla convenzione urbanistica del 19 marzo 1986), della deliberazione della giunta n. 7 di data 21 gennaio 1988 (con la quale sono stati approvati sei documenti integrativi della convenzione urbanistica, sottoscritti dai lottizzanti) e della deliberazione della giunta n. 29 di data 1 febbraio 1996 (con la quale è stata disposta l’acquisizione gratuita delle aree a standard dovute dai lottizzanti, in seguito alla realizzazione e al collaudo delle opere di urbanizzazione). Parte ricorrente aveva, altresì, richiesto una pronuncia ex art. 2932 c.c. nei confronti del Comune e dei controinteressati, per il trasferimento al Comune, previo frazionamento, delle aree occupate dalle opere di urbanizzazione, come identificate nei progetti del piano di lottizzazione e nella concessione edilizia n. 78/87 di data 9 dicembre 1987, per la parte di interesse nel lotto dei controinteressati, allo scopo di realizzare la viabilità di accesso al lotto della ricorrente.
Già in quell’occasione, la ricorrente sosteneva che il Comune avesse rinunciato ad acquisire quale area a standard la porzione sud-ovest del lotto 6, che consentirebbe l’accesso al lotto 5, perché tutti i lottizzanti, modificando la convenzione urbanistica, avrebbero qualificato i sottoservizi passanti per il lotto 6 come allacciamenti privati, facendo venire meno l’obbligo di trasferimento dell’area. Essa, dunque, affermava che la striscia di terreno libero sul lato sud-ovest del lotto 6 avrebbe dovuto essere acquisita al patrimonio del Comune come area a standard in esecuzione della convenzione urbanistica e la mancata previsione di ciò avrebbe determinato l’illegittimità dei titoli edilizi rilasciati ai controinteressati nel 1992 e nel 1994.
La sentenza ha negato la esistenza dell’obbligo di cessione delle aree individuate dalla ricorrente come destinate ai sottoservizi, dando atto di come la convenzione imponesse la cessione delle sole aree destinate a strade e parcheggi di lottizzazione e, conseguentemente, ha respinto anche l’azione ex art. 2932.
Tutto ciò evidenzia come le questioni proposte con il ricorso in esame incorrano per buona parte nella violazione del divieto derivante dall’operare del principio del ne bis in idem.
Non è così con riferimento alla prima censura del ricorso introduttivo, correlata all’illegittimo rilascio del titolo impugnato, in quanto ciò sarebbe intervenuto dopo il perfezionamento del silenzio diniego. La doglianza non merita, però, positivo apprezzamento. Come chiarito nella recente sentenza del Consiglio di Stato n. 5251/2021, “il decorso del termine di 60 giorni per la decisione sulla domanda di accertamento di conformità, pur dando vita a un'ipotesi di silenzio significativo, non consuma il potere dell'amministrazione di provvedere sull'istanza di sanatoria”.
Ne deriva che legittimamente il Comune ha esercitato il potere sollecitato con l’istanza di accertamento di conformità, ancorché fosse già decorso il termine finale per la conclusione del procedimento e non può ravvisarsi alcuna contraddittorietà tra provvedimenti, dal momento che il formarsi di quello di segno negativo che conseguirebbe all’inutile decorso del termine procedimentale è di fatto escluso dalla scelta dell’Amministrazione di pronunciarsi anche dopo la scadenza del termine stesso.
Peraltro, poiché la richiesta di accertamento di conformità che ha condotto al provvedimento impugnato aveva a oggetto modeste modifiche alla copertura, alle tramezzature interne ed ai prospetti del capannone, pienamente sanabili e non interferenti con altre e distinte problematiche, risulta del tutto privo di significato il fatto che nel permesso di costruire non sia stata rappresentata l’abitazione (non interessata dalle difformità di cui è stata chiesta la sanatoria), né le opere di urbanizzazione rispetto a cui non è stata richiesta alcuna sanatoria.
La prima doglianza non può, quindi, trovare positivo apprezzamento.
Con la seconda censura, parte ricorrente imputa al Comune la mancata rilevazione di una lottizzazione abusiva, quale conseguenza dell’asserita traslazione dell’edificio. In disparte ogni considerazione connessa al rapporto tra chiesto (al Comune) e pronunciato (in relazione alla domanda di sanatoria) di cui si dirà nel prosieguo, essa si appalesa infondata. Come anche di recente chiarito dal Consiglio di Stato, nella sentenza 7530 del 2019, la fattispecie lottizzatoria può manifestarsi innanzitutto nella veste “materiale”, attraverso l’avvio non autorizzato di opere finalizzate alla trasformazione urbanistica di terreni in zona non adeguatamente urbanizzata in violazione della disciplina a quest’ultima impartita dalla legislazione e dagli strumenti pianificatori: siffatti interventi devono risultare globalmente apprezzabili in termini di trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, di aggravio del relativo carico insediativo e, soprattutto, di pregiudizio per la potestà programmatoria attribuita all’amministrazione; devono, cioè, valutarsi alla luce della ratio del citato art. 30 del D.P.R. n. 380 del 2001, il cui bene giuridico tutelato risiede nella necessità di salvaguardare detta potestà programmatoria, nonché la connessa funzione di controllo, posta a garanzia dell'ordinata pianificazione urbanistica, del corretto uso del territorio e della sostenibilità dell’espansione abitativa in rapporto agli standard apprestabili (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 6 giugno 2018, n. 3416).
L’illecito assume invece le sembianze della. lottizzazione “cartolare”, quando tale trasformazione viene predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche, quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l’ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (c.f.r. Consiglio di Stato Sez. II, 20 maggio 2019, n. 3215): ai fini dell’accertamento della sussistenza di una lottizzazione abusiva cartolare non è peraltro sufficiente il mero riscontro del frazionamento del terreno collegato a plurime vendite, ma è richiesta anche l’acquisizione di un sufficiente quadro indiziario dal quale sia oggettivamente possibile desumere, in maniera non equivoca, la destinazione a scopo di edificazione perseguito mediante gli atti posti in essere dalle parti. (c.f.r. Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 novembre 2015, n. 5108).
La mera traslazione del posizionamento di un edificio espressamente previsto dalla pianificazione generale e di dettaglio in zona completamente urbanizzata non può, quindi, in alcun modo integrare un’ipotesi di lottizzazione abusiva, ma, al più, di variazione essenziale ai sensi dell’art. 32 del DPR 380/2001, che, alla lettera c) richiama proprio la “localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza” ovvero, considerato che la norma regionale non contiene analogo richiamo nella definizione di quelle che debbono essere considerate variazioni essenziali, una “difformità parziale”.
Peraltro del tutto inammissibili, in quanto tardive, risultano essere le considerazioni in ordine al fatto che “l’azzonamento previsto dal PRG approvato nel 1991 (e successivo all’approvazione del PL, suo convenzionamento ed esecuzione), era completamente difforme dalle previsioni contenute nel piano di lottizzazione approvato” (così il penultimo capoverso di pag. 9 del ricorso). Posto che la sanatoria avversata attiene ad opere accessorie, rispetto all’edificio realizzato da trent’anni, l’atto impugnato non ha alcun effetto sanante della localizzazione dello stesso che potrebbe in qualche modo rimettere in termini la ricorrente per proporre censure che avrebbero dovuto essere formulate al più tardi entro sessanta giorni dalla pubblicazione all’albo degli atti con cui è stato approvato il piano attuativo o, quantomeno, dalla realizzazione dell’edificio che ha palesato quella collocazione che solo oggi parte ricorrente denuncia come non conforme.
La sig.ra Maccarinelli ha, quindi, dedotto l’illegittimità del provvedimento impugnato in ragione del fatto che “il Comune avrebbe impropriamente suddiviso l’accertamento di conformità in due parti, adottando due diversi provvedimenti”.
In primo luogo. va dato atto che l’adozione di due diversi provvedimenti di sanatoria è conseguenza del fatto che sono state presentate due diverse e distinte domande.
Parte ricorrente, peraltro, non ha fornito alcun principio di prova del fatto che, se unitamente considerate tutte le opere oggetto di sanatoria, il provvedimento conclusivo dei procedimenti avrebbe dovuto essere di segno negativo. Essa non individua i motivi per cui una valutazione complessiva, come quella auspicata, avrebbe dovuto indurre il Comune ad escludere la sanabilità.
Del tutto inconferente è, infine, la puntualizzazione circa il fatto che non sarebbe stata valutata la presenza dell’abitazione nello stesso compendio che vede l’insediamento dell’edificio adibito a deposito oggetto degli interventi di cui è stata chiesta la sanatoria e che è stato interessato in via esclusiva dalle opere difformi rispetto alla concessione edilizia. Non è dato comprendere, infatti, a che fine il Comune avrebbe dovuto considerare la presenza della casa di civile abitazione, posto che non è stato evidenziato alcun specifico collegamento tra quest’ultima e le opere da sanare.
Né miglior sorte può essere riservata alla censura individuata con il numero 2.3., in quanto il Comune risulta aver puntualmente accertato la conformità delle opere per cui è chiesta la sanatoria sia rispetto allo strumento urbanistico vigente al momento della loro realizzazione, che rispetto a quello vigente al momento del rilascio dell’impugnato permesso di costruire. Il riferimento alla difformità delle opere di cui è chiesta la sanatoria rispetto alla originaria concessione edilizia rappresenta il mero richiamo al presupposto stesso dell’avvio del procedimento per l’accertamento della conformità e cioè, per l’appunto, che sussistano opere che siano state realizzate senza essere state previste o in totale o parziale difformità rispetto a quelle assentite. Risulta, invece, priva di ogni riscontro l’affermazione ripetuta anche nella memoria di replica secondo cui il Comune avrebbe “verificato la doppia conformità non già con riferimento alle norme dello strumento vigenti oggi e all’epoca dei fatti (PRG e PL) ma all’ultima concessione edilizia quasi che la stessa avesse valenza di variante allo strumento medesimo”.
Parte ricorrente, peraltro, deduce la mancanza dei presupposti della conformità urbanistica indugiando su profili che risultano riconducibili alla già sviscerata (nella sentenza 256/21) questione attinente ai sottoservizi e alla presenza di un traliccio, che non ha attinenza con specifici problemi di funzionamento degli stessi, ma è introdotta in giudizio al fine di rafforzare la tesi secondo cui il permesso di costruire in sanatoria sarebbe illegittimo in quanto non avrebbe imposto la cessione dell’area necessaria alla realizzazione di quel collegamento con via Pieve cui la ricorrente aspira.
Tale prospettazione è stata già rigettata con la suddetta sentenza, che ha evidenziato come la previsione di una strada di lottizzazione non implichi necessariamente che la stessa debba servire tutti i lottizzanti e, comunque, la cristallizzazione della convenzione urbanistica esclude che il Comune possa successivamente intervenire per “rimediare ai disagi delle proprietà rimaste intercluse utilizzando i poteri regolatori in materia viabilistica.” (così la citata sentenza n. 256/91).
E’ chiaro, dunque, come i numerosi motivi di ricorso (punti da 2.4 a 2.7, del ricorso introduttivo, in cui, si sostiene, in sintesi, che l’omessa rappresentazione dei sottoservizi comporterebbe l’illegittimità del permesso in sanatoria anche in considerazione del fatto che esso è stato concesso senza richiedere il trasferimento al Comune della proprietà o il loro asservimento a uso pubblico) dedotti nel ricorso introduttivo e riproposti nel ricorso per motivi aggiunti) correlati alla pretesa illegittima mancata rappresentazione delle opere di urbanizzazione violi il principio del ne bis in idem.
In ogni caso, parte ricorrente non ha fornito alcun principio di prova che tutto quanto confusamente e, a tratti in modo difficilmente intellegibile, dedotto in relazione alla mancata rappresentazione negli elaborati progettuali delle opere di urbanizzazione relative ai sottoservizi abbia una qualche refluenza sulla possibilità di sanare le difformità dai titoli edilizi oggetto della richiesta di sanatoria accolta con il provvedimento impugnato. Ne deriva che le censure, prima ancora che inammissibili, sono infondate.
Quanto alla lamentata, mancata, considerazione della destinazione delle opere all’implicita sanatoria di un duplice cambio di destinazione d’uso, va rilevato come sul punto si sia formato il giudicato che esclude che l’edificio in questione sia adibito a un uso diverso da quello di deposito. Come accertato in via definitiva con la sentenza del Consiglio di Stato n. 3810/21, il provvedimento adottato dal Comune proprio al fine di far cessare ogni diverso utilizzo dell’immobile era privo di fondamento in quanto è stato ripristinato l’utilizzo assentito. Né parte ricorrente produce alcun principio di prova del fatto che allo stato attuale sia in essere una diversa destinazione d’uso.
In ogni caso le opere realizzate, da un lato non paiono tali da essere necessariamente collegate allo scopo di adibire l’immobile a un uso diverso da quello consentito, dall’altro la sanatoria concessa se consente la permanenza delle opere non legittima un diverso utilizzo del deposito.
Proprio in ragione di ciò il profilo di illegittimità che è stato indicato con il numero 5, è palesemente inammissibile, in quanto in alcun modo il provvedimento censurato assente un cambiamento di destinazione d’uso e, quindi, la fattispecie non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 33 delle NTA, che disciplina proprio le conseguenze della scelta di imprimere all’immobile una destinazione diversa da quella in essere.
Quanto alla dedotta violazione della normativa antincendi, la censura risulta essere del tutto inconferente, dal momento che la sanatoria delle opere in questione non è subordinata ad alcun accertamento attinente la normativa anticindendi.
Parimenti inammissibile è la censura riferita a un’asserita irregolarità sul piano dell’impatto acustico che, ancora una volta, non è in alcun modo collegata alle possibilità di sanare le opere oggetto della richiesta di accertamento di conformità (a prescindere dal fatto che la Provincia di Brescia ha rilasciato una regolare AUA nel 2020).
Così respinto il ricorso, le spese del giudizio seguono l’ordinaria regola della soccombenza, fatta salva la loro compensazione con riferimento all’Amministrazione statale, la cui costituzione è stata meramente formale.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida, a favore dell’Amministrazione resistente e della controinteressata, in misura pari a euro 3.000,00 (tremila/00), ciascuna, per un totale di euro 6.000,00 (seimila/00) oltre ad accessori di legge, se dovuti.
Compensa le spese del giudizio nei confronti del Ministero degli Interni.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Brescia nella camera di consiglio del giorno 16 dicembre 2021 con l'intervento dei magistrati:
Bernardo Massari, Presidente
Mauro Pedron, Consigliere
Mara Bertagnolli, Consigliere, Estensore