Cass. Sez. III n. 12661 del 2 aprile 2025 (UP 13 feb 2024)
Pres. Ramacci Est. Galanti Ric. Farebella
Urbanistica.Attività edilizia libera

La particolare disciplina dell’attività edilizia libera non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle categorie menzionate da tale disposizione, siano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici. L’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, consente la realizzazione delle opere ivi indicate, in regime di attività edilizia libera, solo «nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio» di cui al d.lgs. n. 42 del 2004.  Dunque, il regime dell’attività edilizia libera, ovvero non soggetto ad alcun titolo abilitativo, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle tipologie di tale disposizione, siano in contrasto con le previsioni indicate nell’incipit della stessa.

PREMESSO IN FATTO 

1. Con sentenza del 19/03/2024, la Corte di appello di Salerno confermava la sentenza del Tribunale di Salerno del 10/11/2023, che aveva condannato Luigi Farabella alla pena mesi 4 di arresto e 25.000,00 euro di ammenda in relazione alle contravvenzioni di cui agli articoli 44, lett. c), d.P.R. 380/2001 (capo 1), 181, comma 1, d. lgs. 42/2004 (capo 2), 734 cod. pen. (capo 3) e 93-95 d.P.R. 380/2001 (capo 4).

2. Avverso tale sentenza propone ricorso il Farabella.
2.1. Con il primo motivo di ricorso lamenta violazione dell’articolo 649 cod. proc. pen., in quanto per i medesimi fatti, sia pure diversamente rubricato, l’imputato era già stato giudicato giusta notizia di reato del 2015. Trattasi, infatti, dei medesimi ampliamenti di preesistenze.
A ciò consegue, in tutta evidenza, la prescrizione dei reati contestati, in quanto commessi nel 2015.
2.2. Con il secondo motivo, lamenta violazione dell’articolo 131-bis cod. pen. in relazione all’articolo 6, comma 1, lettera e-bis), d.P.R. 380/2001.
La struttura lignea installata è urbanisticamente inconsistente, non avendo determinato alcun carico urbanistico; si tratta di interventi minori e provvisori rientranti nella c.d. «edilizia libera», peraltro in corso di smontaggio all’atto del controllo in ragione della loro natura stagionale.
 Inoltre, vi è stato parere favorevole alla sanatoria paesaggistica da parte della Commissione locale per il paesaggio del comune di Battipaglia.
2.3. Con il terzo motivo lamenta vizio di motivazione in relazione alla valutazione del materiale probatorio costituito dalle dichiarazioni dei testi in relazione alla consistenza degli ampliamenti, nonché alla sospensione dell’ordinanza di riduzione in pristino.
I testi riferiscono di occupazione arbitraria dell’intero suolo demaniale, laddove in tutta evidenza si tratta di “innovazioni”.
Del tutto illogica poi è la sentenza laddove ritiene che la parte non abbia soddisfatto l’onere probatorio, posto che tale onere incombe sull’accusa.
 
RITENUTO IN DIRITTO

1. Il ricorso è inammissibile.

2. Il primo motivo è inammissibile in quanto meramente reiterativo di doglianze già motivatamente disattese dai giudici del merito.
E’ infatti inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 2, n. 19411 del 12/3/2019, Furlan, non massimata e Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217).
2.1. Nel caso in esame il ricorrente prospetta un caso di possibile ne bis in idem processuale.
Come noto, con la sentenza n. 200 del 21/07/2016, la Corte costituzionale – nel dichiarare illegittimo l'art. 649 cod. proc. pen. nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale - ha ridefinito il principio del ne bis in idem processuale, affermando il criterio dell'idem factum e non dell'idem legale ai fini della valutazione della medesimezza del fatto storico oggetto di nuovo giudizio. 
Successivamente, le Sezioni Unite della Corte (Sez. U. n. 20664 del 23/02/2017, Stalla) hanno messo in evidenza la «necessità di una comparazione concreta e complessiva delle fattispecie con particolare distinzione - quanto alla verifica del presupposto processuale di cui all'art. 649 cod. proc. pen. e del suo corrispondente convenzionale dell'art. 4 Prot. 7 CEDU - al fatto oggetto di contestazione e, quanto all'individuazione dell'unitarietà della fattispecie contestata, agli elementi costitutivi della stessa, caratterizzati come sempre dalla correlazione azione - evento - elemento psicologico, e dalla loro concreta attribuzione, attraverso il capo di imputazione, alla persona sottoposta a giudizio».
Occorre pertanto verificare, alla luce dei principi sopra espressi, se ci si trovi o meno di fronte alla medesima fattispecie contestata, avuto riguardo agli elementi costitutivi della stessa (azione, evento, elemento psicologico).
2.2. Nel caso di specie, la risposta non può che essere negativa.
In proposito, la Corte territoriale ha evidenziato come, nel precedente procedimento, la violazione contestata fosse quella di cui all’articolo 1161 cod. nav., che, in tutta evidenza, sanziona una condotta diversa (chi, arbitrariamente, occupa uno spazio del demanio marittimo o aeronautico o delle zone portuali della navigazione interna, ne impedisce l’uso pubblico o vi fa innovazioni non autorizzate), salva – in via meramente astratta - l’ipotesi delle «innovazioni» non autorizzate, in relazione alle quali tuttavia questa Corte ha già avuto modo di affermare (Sez. 3, n. 5461 del 04/12/2013, dep. 2014, Caldaroni, Rv. 258692 – 01; Sez. 3, n. 22068 del 28/03/2019, Gabrielli, n.m.) che «in materia edilizia, per le opere eseguite da privati in aree del demanio marittimo sono necessari sia l'autorizzazione demaniale che il permesso di costruire (art. 8 d.P.R. n. 380 del 2001), assolvendo i due provvedimenti a diverse finalità di tutela in quanto la prima è diretta a salvaguardare gli interessi pubblici connessi al demanio marittimo, mentre il secondo ha la funzione di consentire all'ente locale di esercitare il controllo urbanistico del territorio». 
Va pertanto esclusa, posta la diversità di bene giuridico tutelato e di procedimentalizzazione del regime di conformazione dell’attività privata, quella «identità» di fatto richiesta dalla norma, analogamente a quanto avviene per l’illecito urbanistico rispetto a quello paesaggistico, in cui la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare (ord. n. 439 del 2007) che «i reati paesistici ed ambientali tutelano il paesaggio e l’ambiente e cioè dei beni materiali, mentre i reati edilizi tutelano il rispetto di un bene astratto, e cioè la disciplina amministrativa dell’uso del territorio. Pertanto, pur avendo entrambi i reati la natura di reati di pericolo (avendo il legislatore in ambo i casi ritenuto necessario anticipare al massimo livello possibile la soglia di tutela degli interessi), la diversità degli oggetti “finali” protetti dai due reati giustifica discipline sanzionatorie e fattispecie estintive differenziate».
2.3. A ciò va aggiunto che la Corte di appello evidenzia - a pag. 5 - come gli ampliamenti contestati nel presente procedimento siano diversi e successivi rispetto a quelli del primo, essendosi passati dalla realizzazione di una tettoia lignea a pianta rettangolare a una sola falda di mq. 175 situata nella parte antistante il blocco servizi lato mare, ad una tettoria lignea di mq. 87 alta 2,40 e ampliamento di preesistente tettoia antistante il blocco servizi sino a raggiungere la superficie di mq. 310.
In proposito, questa Corte ha affermato che «la preclusione del ne bis in idem opera soltanto con riferimento alla condotta posta in essere nel periodo oggetto di contestazione nei capi di imputazione e non riguarda, invece, l'eventuale protrazione o ripresa della condotta in un periodo successivo, rispetto alla quale rimane impregiudicata l'azione penale e la qualificazione conseguente del fatto» (Sez. 3, n. 9988 del 19/12/2019, dep. 2020, La Pietra, Rv. 278534 - 01; Sez. 3, n. 19354 del 21/04/2015, Alfiero, Rv. 263514 - 01).
Pertanto, quando anche fosse – e non lo è – stato presente il requisito della identità di fatto «in astratto», il principio del ne bis in idem non potrebbe trovare applicazione per assenza di tale requisito «in concreto».
La doglianza, che non si confronta in modo critico con la sentenza impugnata, è quindi generica e inammissibile.

3. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
Il ricorrente radica la sua doglianza sulla particolare tenuità del fatto sulla «irrilevanza urbanistica» dei manufatti, che sarebbero costituiti da opere precarie e temporanee.
3.1. In base all'articolo 3, comma 1, lettera e.5) del d.P.R. n. 380 del 2001, è qualificabile come nuova costruzione «l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”; il successivo articolo 6, comma 1, lettera e-bis), del medesimo articolato normativo, include, invece, nell'attività edilizia libera “le opere stagionali e quelle dirette a soddisfare obiettive esigenze, contingenti e temporanee, purché destinate ad essere immediatamente rimosse al cessare della temporanea necessità e, comunque, entro un termine non superiore a centottanta giorni comprensivo dei tempi di allestimento e smontaggio del manufatto, previa comunicazione di avvio dei lavori all'amministrazione comunale”; da tali previsioni la giurisprudenza ha desunto la nozione di opera precaria, non soggetta a titolo abilitativo.
In particolare, si è affermato che «in ordine ai requisiti che deve avere un'opera edilizia per essere considerata precaria, possono essere ipotizzati in astratto due criteri discretivi: 1) criterio «strutturale», in virtù del quale è precario ciò che non è stabilmente infisso al suolo; 2) il criterio «funzionale», in virtù del quale è precario ciò che è destinato a soddisfare un'esigenza temporanea. La giurisprudenza è concorde nel senso che per individuare la natura precaria di un'opera si debba seguire non il criterio strutturale, ma il criterio funzionale, per cui un'opera può anche non essere stabilmente infissa al suolo, ma se essa presenta la caratteristica di essere realizzata per soddisfare esigenze non temporanee, non può beneficiare del regime delle opere precarie».
Questa Corte ritiene (v. da ultimo Sez. 3, n. 18266 del 13/04/2023, Martella, n.m.) che per definire precario un immobile, tanto da non richiedere il rilascio di un titolo abilitativo, è necessario ravvisare l'obiettiva e intrinseca destinazione a un uso temporaneo per specifiche esigenze contingenti, non rilevando che esso sia realizzato con materiali non abitualmente utilizzati per costruzioni stabili (così anche Sez. 3, n. 5821 del 15/01/2019, Dule, Rv. 275697, relativa a fattispecie in cui la Corte ha escluso la natura precaria di una platea in conglomerato cementizio avente una superfice di circa 100 metri quadrati, con tramezzature perimetrali in laterizio di metri 25 di lunghezza in quanto denotante una futura stabile destinazione; conf. Sez. 3, n. 38473 del 31/05/2019, Bossone, Rv. 277837; Sez. 3, n. 380 del 17/10/2019, dep. 2020, Lauro, Rv. 278277; Sez. 3, n. 36552 del 15/06/2022, Crugliano, Rv. 283590).
La giustizia amministrativa, dal canto suo, ha precisato che «la precarietà dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, ai sensi dell'art. 3, comma 1, lettera e. 5, D.P.R. n. 380 del 2001, postula infatti un uso specifico e temporalmente delimitato del bene e non ammette che lo stesso possa essere finalizzato al soddisfacimento di esigenze (non eccezionali e contingenti, ma) permanenti nel tempo. Non possono, infatti, essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un'utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante» (Consiglio di Stato, Sez. 6, n. 5977 del 05/07/2024).
Ora, prescindendo dalla intrinseca contraddittorietà della prospettazione difensiva, in cui da un lato si afferma la non necessarietà del permesso di costruire (in ragione della natura delle opere e del loro carattere precario), mentre dall’altro si dà atto della presenza di un parere favorevole al rilascio della sanatoria paesaggistica (che presuppone l’abuso), il Collegio rileva che non può tacciarsi di illogicità la sentenza laddove evidenzia che la sussistenza di due distinti procedimenti relativi a ampliamenti abusivi accertati nel 2015 e nel 2018, di dimensioni non certo modeste, esclude la natura «precaria» e «temporanea» dei manufatti stessi (pag. 6-7, laddove si evidenzia che lo smontaggio al termine della stagione balneare già realizza l’illecito urbanistico).
Né, del resto, come evidenziato in sentenza, l’imputato ha allegato l’avvenuto rilascio del provvedimento di sanatoria paesaggistica (v. pag. 7), ciò che rende del tutto priva di rilievo la presenza del parere favorevole della Commissione Locale Paesaggistica del Comune di Battipaglia.
3.2. In ogni caso, il Collegio evidenzia come, nel caso oggetto del presente scrutinio, non possa essere invocata la natura delle opere come rientranti nella categoria della c.d. «edilizia libera».
Come è stato anche di recente ribadito da questa Sezione, infatti (Sez. 3, n. 2384 del 10/10/2024, dep. 2025, Martucci), la particolare disciplina dell’attività edilizia libera non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle categorie menzionate da tale disposizione, siano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici. L’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, consente la realizzazione delle opere ivi indicate, in regime di attività edilizia libera, solo «nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio» di cui al d.lgs. n. 42 del 2004. 
Dunque, il regime dell’attività edilizia libera, ovvero non soggetto ad alcun titolo abilitativo, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle tipologie di tale disposizione, siano in contrasto con le previsioni indicate nell’incipit della stessa.
Nel caso di specie, pertanto, la presenza della contravvenzione di cui all’articolo 181 d. lgs. 42/2004 – tuttora non sanata - esclude in radice la possibilità di usufruire del regime di «irrilevanza urbanistica» di cui all’articolo 6 d.P.R. 380/2001.

4. Il terzo motivo è inammissibile in quanto sollecita a questa Corte una rivalutazione del compendio probatorio evidentemente preclusa in sede di legittimità e propone, in ogni caso, censure motivazionali che parimenti non possono trovare ingresso in questa sede, consistendo nella differente comparazione delle risultanze istruttorie effettuate concordemente dai due giudici del merito.
Ed infatti, il giudice di legittimità non può rivalutare le fonti di prova, in quanto tale attività è rimessa esclusivamente alla competenza dei giudici di merito. Pertanto, il ricorso per cassazione è inammissibile quando si fonda su motivi che postulano una non consentita rivalutazione delle prove testimoniali, in quanto ciò esula dalle attribuzioni del giudice di legittimità, il quale deve limitarsi a verificare la correttezza giuridica e la logicità della motivazione adottata dai giudici di merito (Sez. 6, n. 43139 del 19/09/2019, Sessa, n.m.). 
Il sindacato di legittimità va infatti sollecitato sul «prodotto dell’ingegno» e non sul puro e semplice «materiale probatorio» (e men che meno su singoli «frammenti» di esso) e, pertanto, una volta indicati gli elementi probatori, il giudice di legittimità deve chiarire la ragione e sulla base di quali elementi sia stata elaborata una determinata ipotesi costruttiva e per quale ragione ne siano state scartate altre (Sez. 5, n. 34149 del 11/06/2019, E., Rv. 276566 – 01; Sez. 5, n. 35816 del 18/06/2018, Blasi, n.m.; Sez. 5, n. 44992 del 09/10/2012, Aprovitola, Rv. 253774 - 01).
Nel caso in esame, alla luce delle considerazioni espresse nei paragrafi che precedono, i giudici del merito hanno in tutta evidenza fatto buon governo deli principi di cui sopra, e la censura è pertanto manifestamente infondata.

5. Quanto alla dedotta violazione del canone dell’onus probandi, la doglianza è del tutto inconsistente, essendosi i giudici limitati a evidenziare che alcun effetto estintivo può attribuirsi ad un parere endoprocedimentale, e che l’allegazione di un provvedimento di sanatoria incombe su chi in ipotesi, ne chiede l’applicazione, in base al principio, costantemente affermato da questa Corte, della c.d. «vicinanza della prova» (Sez. 2, n. 6734 del 30/01/2020, Bruzzese, Rv. 278373 - 01).
Questa Corte (Sez. 2, n. 43387 del 08/10/2019, Novizio, Rv. 277997 – 04; Sez. 4, n. 51331 del 13/09/2018, S., Rv. 274052 - 01) ritiene infatti, con principio che il Collegio condivide e ribadisce, che all’imputato non si chiede di allegare o provare un fatto negativo, bensì di indicare specifiche circostanze positive e concrete, contrarie a quelle provate dalla pubblica accusa, con indicazione, quindi, dei dati fattuali che contraddicono le conclusioni alle quali sono pervenuti i Giudici.
Va peraltro rimarcato che, nel caso di specie, la Corte di appello ha accertato la realizzazione di manufatti comportanti un aumento di superficie utile (una tettoria lignea di mq. 87 alta 2,40 e ampliamento di preesistente tettoia antistante il blocco servizi sino a raggiungere la superficie di mq. 310), circostanza che esclude a priori la possibilità di ricorrere alla c.d. «sanatoria paesaggistica» di cui all’articolo 167, comma 4, d. lgs. 42/2004, limitata alla ipotesi in cui, attraverso l’abuso, non vi sia stata creazione di superfici o volumi (come invece pacificamente occorso nel caso di specie).
Poiché l'autorizzazione paesaggistica, secondo l'art. 146, comma 4, del d.lgs. 42 del 2004, costituisce un atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio, lo stesso permesso di costruire resta subordinato al rilascio dell'autorizzazione paesaggistica la quale, però, sempre secondo la norma richiamata, non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi, tranne nei casi dei cd. «abusi minori», tassativamente individuati dall'art. 167, commi 4 e 5, d.lgs. n. 42 del 2004, ipotesi però non ricorrente nel caso concreto. 
Tale preclusione, considerato che l'autorizzazione paesaggistica è presupposto per il rilascio del permesso di costruire, impedisce di conseguenza anche la sanatoria urbanistica ai sensi dell'art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 544 del 01/12/2022, dep. 2023, Sciortino, n.m.).
Pertanto, in tema di sanatoria ex art. 36 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, di opere realizzate in area vincolata, il rilascio postumo del permesso di costruire, in assenza di legittima autorizzazione paesaggistica, non ha efficacia sanante neanche in relazione al solo profilo urbanistico dell'intervento già realizzato (v. Sez. 3, n. 5750 del 02/02/2023, PMT, Rv. 284314 – 01).
Pertanto, sia la eventuale sanatoria paesaggistica (ove mai concessa) che quella urbanistica, dovrebbero certamente ritenersi illegittime, con la conseguente assenza di un (valido) titolo edilizio sopravvenuto (cfr. Sez.3, n. 30016 del 14/7/2011, D'Urso, Rv. 251023).

6. La conclusione di cui sopra non muta in riferimento all’istituto dell’«accertamento di conformità nelle ipotesi di parziali difformità e di variazioni essenziali» di cui all’articolo 36-bis del d.P.R. 380/2001, introdotto dal d.l. n. 69/2024 (convertito con modificazioni dalla l. n. 105 del 2024) ed entrato in vigore il 30 maggio 2024, la cui applicazione non risulta peraltro neppure richiesta dal ricorrente, ma di cui va in ogni caso esclusa l’applicabilità, non rinvenendosi nel testo del d.l. n. 69/2024 alcuna disposizione transitoria intesa a consentire l’applicazione in via retroattiva della nuova disciplina alle istanze presentate prima della sua entrata in vigore, sicché, in difetto di un’espressa statuizione di retroattività, non può che trovare applicazione la regola generale sancita dall’art. 11 disp. prel. c.c. (v., in proposito, Consiglio di Stato, Sez. 2, sent. nn. 1394 del 2025 e 10076 del 2024, nonché la citata Corte costituzionale n. 125 del 2024, par. 3.4).

7. Del tutto inconferente rispetto al presente procedimento risulta poi la deduzione secondo cui gli ampliamenti abusivi costituirebbero mere «innovazioni», posta la differenza, vista al par. 2, tra l’illecito urbanistico e quello demaniale, cui è riferita (art. 1161) tale locuzione e che non risulta contestato nell’odierno procedimento.

8. Il ricorso, in conclusione, non può che essere dichiarato inammissibile.
Alla declaratoria dell’inammissibilità consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento. Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, che il Collegio ritiene di fissare, equitativamente, in euro 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 13/02/2025.