Consiglio di Stato Sez. II n. 6121 del 9 settembre 2019
Ambiente in genere.Limiti alla prosecuzione dell’attività di cava in Campania
Nella Regione Campania la prosecuzione dell’attività di cava avvenuta ope legis in virtù dell’art. 36, l. reg. 13 dicembre 1985, n. 54, non avrebbe potuto di certo continuare, in assenza di un provvedimento formale, a tempo indeterminato ed oltre il termine massimo dei venti anni stabilito, invece, dalla legge per le ditte regolarmente autorizzate (segnalazione Avv. M. Balletta)
Pubblicato il 09/09/201910/09/2019
N. 06121/2019REG.PROV.COLL.
N. 07890/2012 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7890 del 2012, proposto da
Regione Campania, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Angelo Marzocchella, con il quale elettivamente domicilia in Roma alla via Poli n. 29;
contro
ECLA s.a.s. di Letizia Alfonso, in persona dell’amministratore p.t., sig. Alfonso Letizia e dell’amministratore giudiziario avv. Luca Catalano, rappresentata e difesa dall’avv. Demetrio Fenucciu, con il quale elettivamente domiciliano in Roma al viale Vaticano n. 48;
De Angelis Claudio, Miraglia Francesco, Calignano Giovanni, Palazzo Bernardo, Alvi Gaetano, Calignano Lucio, Comparone Gennaro, Tamburo Carmine, Roma Giuseppe, Martucci Maria, Luongo Antonio, Mucchio Vincenzo, Letizia Giuseppina, Sorrentino Ciro, rappresentati e difesi dall’avv. Giovanni Riccardi, con il quale elettivamente domiciliano in Roma al viale Vaticano n. 48;
Scaldone Alfonso, De Angelis Mauro, Valentino Domenico, Mazzucco Adriano, Rea Amelio, Fuscaino Salvatore, Gritto Pasquale, Sorgente Salvatore, Crimaco Vincenzo, Raimondo Tommaso, Filona Giuseppe, Di Chiara Luigi, Buondono Antonio, Veneziane Mario, Comparone Nunzio, Gazzella Michele, Riccardone Giulio, Natale Antonio, Piccirillo Antonio, Massimo Angelo, Parzanese Pasqualino, non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza n. 2533 del 29 maggio 2012 del T.A.R. Campania, Napoli, sez. lV, resa nel giudizio r.g. 2808/08, promosso per l’annullamento, quanto al ricorso principale, del decreto del Dirigente del Genio civile di Caserta prot. 0374154 del 2 maggio 2008, recante l’ordine di sospensione dei lavori estrattivi nella cava di Falciano del Massico gestita dalla ricorrente, dell’atto prot. 2008.0386294 del 6 maggio 2008, recante l’irrogazione della conseguente sanzione amministrativa, e del verbale di sopralluogo n. 10/2008 del 24 aprile 2008; quanto al primo ricorso per motivi aggiunti, del preavviso di rigetto del progetto di coltivazione di cui all’art. 36 L R. n. 54/1985 ai sensi dell’art. 10 bis L. n. 241/1990 di cui alla nota prot. 2008.0529455 del 19 giugno 2008 e dell’atto prot. 2008.0642221 del 22 luglio 2008, di concessione di 120 giorni per presentare rilievi topografici e di sospensione, per lo stesso periodo, dell’attività di cava; quanto al secondo ricorso per motivi aggiunti, del decreto del Dirigente del Genio civile di Caserta n. 554154 del 10 dicembre 2008, di rigetto dell’istanza di coltivazione ex art. 36 della L. R. n. 54/1985 relativa alla cava suddetta
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della ECLA s.a.s. di Letizia Alfonso e dei sigg. De Angelis Claudio, Miraglia Francesco, Calignano Giovanni, Palazzo Bernardo, Alvi Gaetano, Calignano Lucio, Comparone Gennaro, Tamburo Carmine, Roma Giuseppe, Martucci Maria, Luongo Antonio, Mucchio Vincenzo, Letizia Giuseppina, Sorrentino Ciro;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 luglio 2019 il Cons. Francesco Guarracino e uditi per le parti l’avv. Rosa Panariello, su delega dell’avv. Angelo Marzochella, per la parte appellante e l’avv. Ludovico Visone, su delega degli avvocati Demetrio Fenucciu e Giovanni Riccardi, per la parte appellata;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Napoli, la ECLA s.a.s. di Letizia Alfonso impugnava il decreto del 2 maggio 2008, prot. n. 374154, del Dirigente della Giunta regionale della Campania preposto al Settore provinciale del Genio civile di Caserta, recante l’ordine di sospensione dei lavori estrattivi nella cava gestita dalla ricorrente in località Cesque del Comune di Falciano del Massico (CE) in quanto svolti con autorizzazione scaduta, ed il provvedimento d’irrogazione della conseguente sanzione amministrativa adottato in data 6 maggio 2008, prot. n. 386294, dal medesimo Dirigente.
Gravava inoltre, con motivi aggiunti, la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza del 7 gennaio 1986 di autorizzazione alla prosecuzione dell’attività di cava ai sensi dell’art. 36 della L.R. n. 54/1985, emessa con atto del 19 giugno 2008, prot. n. 29455, ed il provvedimento del 22 luglio 2008, prot. n. 642221, con cui l’amministrazione, nel concederle un termine di 120 giorni per presentare rilievi topografici del sito, le aveva ordinato di sospendere l’attività per lo stesso periodo, nonché, con un secondo ricorso per motivi aggiunti, il provvedimento di rigetto definitivo dell’istanza di prosecuzione, adottato con decreto dirigenziale n. 55 del 10 dicembre 2008, prot. n. 554154.
All’esito del giudizio, in cui intervenivano ad adiuvandum alcuni dipendenti della società ricorrente, il T.A.R. partenopeo, con sentenza n. 2533 del 29 maggio 2012, accoglieva il ricorso introduttivo ed il secondo ricorso per motivi aggiunti ed annullava, per l’effetto, i provvedimenti con essi impugnati, mentre dichiarava in parte inammissibile e per il resto improcedibile il primo ricorso per motivi aggiunti.
Con ricorso in appello la Regione Campania ha chiesto la riforma della sentenza di primo grado in relazione alla dedotta erroneità della pronuncia di annullamento del provvedimento di sospensione, prot. n. 374154 del 2 maggio 2008, e del provvedimento di rigetto dell'istanza di prosecuzione, n. 55 del 10 dicembre 2008.
Costituitosi il contraddittorio con la costituzione della società appellata e degli altri soggetti in epigrafe, che hanno prodotto memorie, alla camera di consiglio del 14 dicembre 2012, fissata per l’esame della domanda cautelare di sospensione dell’esecutività della sentenza appellata, la causa è stata rinviata al merito su concorde richiesta delle parti ed alla pubblica udienza del 16 luglio 2019 è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. - I sigg. Roma Giuseppe, Letizia Giuseppina e Sorrentino Ciro, costituitisi nel presente grado del giudizio unitamente agli altri dipendenti del gruppo Letizia con memoria depositata il 13 dicembre 2012 per resistere all’appello, non figurano tra gli interventori ad opponendum nei cui confronti è stata pronunciata la sentenza di primo grado e, di conseguenza, notificato l’atto di appello.
La relativa questione di rito (cfr. art. 97 c.p.a.) non è stata eccepita od altrimenti sottoposta al contraddittorio delle parti, ma, essendo irrilevante ai fini della definizione nel merito del giudizio, il quale, pendente oramai da diversi anni, richiede la più celere definizione, se ne può prescindere per esigenze di economia processuale in applicazione del principio della ragione più liquida, che consente, appunto, di prescindere da incombenti inutili (ex aliis, C.d.S., Ad.Plen., 28 settembre 2018, n. 15), ed in considerazione del fatto che l’obbligo di cui al terzo comma dell’art. 73 c.p.a. concerne i soli casi in cui il giudice ritenga di porre a fondamento della sua decisione la questione rilevata d’ufficio, diversamente dal caso in esame.
2. – Nel merito l’appello è fondato.
3. – Il decreto dirigenziale del 2 maggio 2008, prot. n. 374154, impugnato col ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, aveva ordinato la sospensione dei lavori estrattivi nella cava gestita dalla società appellata in località Cesque del Comune di Falciano del Massico (CE) sul presupposto che l’attività estrattiva fosse ormai divenuta abusiva a seguito della scadenza della relativa autorizzazione.
Secondo quanto rappresentato nel provvedimento, infatti, la società aveva svolto attività estrattiva in virtù di un’autorizzazione, ancorché non formalizzata, scaturente dalle norme transitorie dell'art. 36 della legge regionale del 13 dicembre 1985, n. 54; tuttavia, tutte le autorizzazioni all'attività estrattiva, comprese quelle ope legis, ai sensi dell'art. 11 della L.R. n. 54/1985 non avrebbero potuto essere rilasciate per un periodo superiore ai venti anni; le autorizzazioni alla prosecuzione dell'attività estrattiva, rilasciate ai sensi dell'art. 36 della L.R. n. 54/1985, erano state prorogate, ai sensi dell’art. 16 della L.R. n. 15/2005, fino al 30 giugno 2006 ed in virtù di quanto previsto dalle Norme di Attuazione del Piano Regionale delle Attività Estrattive (P.R.A.E.), approvato con ordinanza commissariale n. 12 del 7 giugno 2006 e poi annullato dal T.A.R. Campania, avrebbero perso efficacia alla data del 31 marzo 2007; conseguentemente, dagli accertamenti eseguiti in data 24 aprile 2008 era risultata, nella cava in questione, un’attività estrattiva in atto con autorizzazione scaduta.
Nell’annullare il decreto, il T.A.R. ha ritenuto, in sintesi, che:
(i) il titolo abilitativo conseguito in via provvisoria ex art. 36 L.R. n. 54/1985 con la presentazione dell’istanza di prosecuzione dell’attività di cava del 7 gennaio 1986 non avrebbe potuto dirsi scaduto il 7 gennaio 2006 per decorso del ventennio, poiché l’ultimo comma dell’art. 11, relativo alla scadenza dell’autorizzazione rilasciata ex novo, non sarebbe stato applicabile, neppure per analogia, nella prima fase della disciplina transitoria di cui al richiamato art. 36, nella quale l’attività poteva procedere in forza della denuncia d’attività presentata nel previgente regime e della istanza di autorizzazione alla prosecuzione, non ancora esitata; in questa fase, infatti, manca un provvedimento autorizzatorio cui annettere una data scadenza, tanto più che la decadenza è stata pronunciata per essere decorso di un ventennio dalla presentazione di un’istanza di prosecuzione in esito della quale l’Amministrazione avrebbe dovuto, sussistendone le condizioni, rilasciare l’autorizzazione richiesta (§§ 1.3 e s. della sentenza appellata);
(ii) dalla legittima prosecuzione dell’attività in forza dell’istanza predetta la ditta interessata non potrebbe poi dirsi decaduta il 31 marzo 2007, in asserita applicazione dell’art. 89, comma XVI, delle Norme tecniche di attuazione del Piano regionale delle attività estrattive, trattandosi di una disposizione, mossa da una logica transitoria nella more della completa applicazione dello strumento di programmazione costituito dal PRAE, estranea sia alle cave con autorizzazione scaduta, sia ai giacimenti trovatisi nel “limbo” costituito dal periodo intermedio fra la presentazione dell’istanza di prosecuzione ed il rilascio del titolo autorizzatorio previsto dall’art. 36 L.R. n. 54/1985 (sentenza appellata, §§ 2 e ss.);
(iii) l’intervenuto annullamento giurisdizionale del Piano regionale delle attività estrattive (pronunciato in primo grado) non costituirebbe impedimento allo svolgimento delle attività estrattive, per l’impossibilità, nel caso in esame, di ravvisare una autorizzazione scaduta in capo alla ditta interessata (sentenza appellata, § 3).
4. – Il capo della sentenza di primo grado che, con le argomentazioni sopra riassunte, ha accolto la domanda di annullamento del decreto di sospensione dell’attività estrattiva del 2 maggio 2008 (e del provvedimento di irrogazione della conseguente sanzione amministrativa del 6 maggio 2008) è oggetto di critica del primo motivo di appello.
Secondo la Regione appellante la prosecuzione dell’attività di cava avvenuta ope legis in virtù dell’art. 36 L.R. n. 54/1985, contrariamente alla tesi sposata dal T.A.R., non avrebbe potuto di certo continuare, in assenza di un provvedimento formale, a tempo indeterminato ed oltre il termine massimo dei venti anni stabilito, invece, dalla legge per le ditte regolarmente autorizzate, osservando, al riguardo, che la stessa L.R. n. 54/1985 avrebbe prescritto, alla lettera f) dell’art. 8, che nella domanda di prosecuzione (ex art. 36) fosse indicato il periodo di tempo per il quale veniva richiesta l'autorizzazione e che l’appellata, nell'istanza presentata il 3 luglio 1986 (non il 7 gennaio di quell’anno), aveva indicato un tempo di anni venti entro il quale, in prosecuzione (senza soluzione di continuità), intendeva portare a conclusione l'attività.
Del resto, l’art. 16 della L.R. n. 15 dell’11 agosto 2005, prorogando fino alla data del 30 giugno 2006 anche le attività estrattive svolte in regime transitorio, avrebbe indirettamente chiarito che anche per le cave per le quali non era stato ancora emanato il titolo definitivo il titolo abilitativo (conseguente alla presentazione dell’istanza) sarebbe scaduto, essendo trascorsi venti anni dall’entrata in vigore della legge.
5. – La tesi dell’appellante merita condivisione.
6. – La legge regionale della Campania del 13 dicembre 1985, n. 54, in materia di coltivazione di cave e torbiere, nel subordinare ad autorizzazione o concessione regionale la coltivazione dei giacimenti, ha previsto, all'art. 36, in via transitoria, la possibilità di proseguire le coltivazioni in atto alla data della sua entrata in vigore, previa presentazione di apposita domanda debitamente documentata, purché dette coltivazioni fossero state a suo tempo denunciate ai sensi dell'art. 28 del D.P.R. 9 aprile 1959, n. 128, e sul presupposto della continuità soggettiva ed oggettiva del soggetto imprenditore e del giacimento (C.d.S., sez. VI, 25 marzo 1999, n. 321).
Si è rilevato in giurisprudenza che «[s]econdo l'esegesi letterale e logica del comma 1 dell'art. 36, non sembra dubbio che unico titolo di legittimazione alla prosecuzione è la presentazione tempestiva della relativa domanda: tanto che solo nel caso in cui la domanda non sia presentata nel termine prescritto la coltivazione deve cessare e, se prosegue, è soggetta a una sanzione amministrativa pecuniaria, nonché — qualora vi sia alterazione dell'ambiente — all'obbligo di ripristino o di ricomposizione ambientale (comma 2 dell'art. 36, che richiama l'art. 28)» (Cass. pen., SS.UU., 17 dicembre 2001, n. 30).
L’articolo difetta di una previsione sugli effetti del silenzio serbato dall’amministrazione sulla domanda e, in ogni caso, sulla durata del regime transitorio, alimentando l’ipotesi suggestiva che la coltivazione delle cave legittimamente in esercizio alla data di entrata in vigore della legge possa proseguire anche sine die, almeno sino a che l'autorità regionale non neghi l'autorizzazione richiesta.
Si tratterebbe, tuttavia, di un esito paradossale, contrario alla natura sicuramente transeunte del regime in questione (qualificato transitorio già nella rubrica della norma) ed irrazionale nell’implicare, col fatto che per le coltivazioni in regime transitorio non vi sarebbe alcuna autorizzazione che potrebbe scadere, che solo i nuovi autorizzati sarebbero sottoposti sicuramente all’ordinario termine massimo ventennale; oltre che in contrasto coi superiori principi di rango comunitario e costituzionale richiamati nella giurisprudenza della Corte costituzionale di cui appresso si dirà.
E per vero un tale, abnorme, esito è avversato, sul piano sistematico, dal richiamo operato dal medesimo art. 36, per la presentazione della domanda di proseguimento della coltivazione delle cave in atto alla data dell'8 gennaio 1986, all’articolo che disciplina la procedura ordinaria per l'autorizzazione di nuove cave (cfr. art. 36, comma 1: «La coltivazione delle cave in atto alla data dell'8 gennaio 1986, per le quali, a norma dell'articolo 28 del DPR 9 aprile 1959, n. 128, è stata presentata denuncia al Comune e alla Regione Campania, potrà essere proseguita, purché, entro sei mesi dalla stessa data, l'esercente abbia presentato domanda di proseguimento, con la procedura e documentazione prevista dall'articolo 8 della presente legge ed adempia agli obblighi previsti dagli articoli 6 e 18 della presente legge»).
Quest’ultimo, infatti, impone che nella domanda sia indicato il periodo di tempo per il quale viene richiesta l’autorizzazione (art. 8, comma 1, lett. f), di modo che non può dubitarsi che, in definitiva, anche le coltivazioni in atto (per le quali è prescritta identica domanda) devono essere soggette ad un termine - il quale, in difetto di diversa previsione, non può essere che quello massimo ordinario, comune a tutte le altre - e che la mancata definizione della domanda di autorizzazione non può costituire una causa od un espediente tale da vanificare tale imprescindibile regola.
7. - A chiarire definitivamente la volontà del legislatore regionale è, comunque, l’art. 16 della legge regionale 11 agosto 2005, n. 15 (legge finanziaria regionale per l’anno 2005).
La disposizione stabilisce che «[n]elle more dell’approvazione del Piano regionale attività estrattive le attività estrattive in regime transitorio e regolarmente autorizzate di cui alla legge regionale 13 dicembre 1985, n. 54, e successive modificazioni, sono prorogate al 30 giugno 2006. La proroga è applicabile alle attività autorizzate e legittimamente esercitate e la prosecuzione deve avvenire nel rispetto delle leggi e dei progetti approvati, sussistendo le condizioni di fattibilità, attuabilità e legittimità dei progetti stessi».
Essa riguarda indistintamente tutte le attività estrattive legittimamente proseguite in regime transitorio ai sensi della L.R. n. 54/1985 e, prorogandole ex lege fino alla data del 30 giugno 2006 (sei mesi oltre il ventennio dall’entrata in vigore della L.R. n. 54/1985), altrettanto indistintamente ne presuppone la scadenza anteriore, confermando la tesi dell’applicabilità (anche) ad esse del termine ventennale e, comunque, manifestando la inequivoca volontà legislativa di chiudere quell’esperienza transitoria alla data del 30 giugno 2006.
In precedenza l’art. 32 della legge regionale 26 luglio 2002, n. 15 (legge finanziaria regionale per l’anno 2002), aveva già stabilito che «[a] far data dall’entrata in vigore della presente legge, è fatto divieto di ogni tipo di rinnovo o nuova autorizzazione alle attività estrattive sull’intero territorio regionale fino alla approvazione del Piano regionale delle attività estrattive - PRAE».
8. - Quest’ultimo, approvato con ordinanza del Commissario ad acta n. 11 del 7 giugno 2006 e rettificato con ordinanza commissariale n. 12 del 6 luglio 2006, ha infine previsto, all'art. 89, comma 16, delle NTA, che «[l]e autorizzazioni rilasciate ai sensi dell’art. 36 della L.R. 54/1985 e s.m.i., comprese quelle già prorogate al 30 giugno 2006 ai sensi dell’art. 16 della L.R. 11 agosto 2005, n. 15, perdono efficacia alla data del 31 marzo 2007».
La previsione dell’art. 89 è perentoria e vale a smentire anche la tesi difensiva (pag. 7 della memoria ECLA) secondo la quale il fatto che lo stesso PRAE avesse previsto, all’art. 27 delle NTA, che entro il termine di sei mesi dalla sua pubblicazione nel Bollettino ufficiale regionale occorresse presentare, ai fini della prosecuzione della coltivazione delle cave nelle aree di crisi, un nuovo progetto, a pena di sospensione della coltivazione e di decadenza dal diritto all’eventuale ampliamento della superficie estrattiva, importasse una ulteriore proroga destinata indefinitamente a prolungarsi fino al rilascio del titolo autorizzativo disciplinato dal PRAE, anche se il relativo procedimento non si fosse concluso entro il 31 marzo 2007.
Il ritardo dell’amministrazione nella definizione dei procedimenti autorizzativi pendenti non modifica questa realtà, tanto che, alcuni mesi dopo i fatti per cui è causa, il legislatore regionale ha adottato nuove disposizioni di proroga (L.R. 6 novembre 2008, n. 14, “Norma urgente in materia di prosecuzione delle attività estrattive”), peraltro successivamente dichiarate incostituzionali (Corte Cost. n. 67 del 2010, che, nel censurare sistemi di proroga automatica delle autorizzazioni rilasciate in assenza di procedure di VIA o, comunque, in assenza di VIA, in ipotesi già più volte rinnovate, per contrasto con l’effetto utile della direttiva 85/337/CEE e l’art. 117, commi 1 e 2, lett. s, Cost., non ha ritenuto possibile che, eludendo in via legislativa l’esigenza di un controllo ad tempus sulla permanenza delle condizioni, oggettive e soggettive, di legittimazione in relazione alle modifiche subite dal territorio e dall’ambiente nel corso del tempo, si mantenesse inalterato lo status quo sostanzialmente sine die).
9. – Ne segue che alla data del provvedimento impugnato, adottato il 2 maggio 2008, l’attività estrattiva già esercitata in regime transitorio dalla ditta appellata non godeva più di alcun regime di proroga, né risulta che fosse stata oggetto di nuovi provvedimenti autorizzativi che ne avessero legittimato ancora il proseguimento, nel modo accaduto, invece, come rappresentato dagli originari cointeressati, per altre aziende (coi decreti dirigenziali di autorizzazione elencati a pag. 3 ss. della memoria del 13 dicembre 2012).
10. – Non vale a dimostrare il contrario la tesi propugnata dagli originari cointeressati, secondo cui il termine sarebbe stato prorogato ancor oltre il 31 marzo 2007 e sino al rilascio dell'autorizzazione in ossequio al PRAE ovvero fino all'effettivo completamento del progetto che sarebbe stato assentito ex art. 36 L.R. n. 54/1985.
Essa si basa sulla direttiva regionale n. 0516733 del 7 giugno 2007, che, sostenendo l’assenza di fondamento normativo del termine del 31 marzo 2007 stabilito dal PRAE, non lo ritiene perentorio, perché legato alla concreta possibilità di pervenire al rilascio, entro lo stesso, delle nuove autorizzazioni, ed afferma che, alla luce della normativa vigente, nessuna attività di cava può ritenersi conclusa, qualsivoglia provvedimento venga assunto, senza che si sia provveduto agli obbligatori provvedimenti di ricomposizione ambientale: il che acquisterebbe rilievo nel caso in esame, in quanto, all’epoca dei fatti, l’istruttoria del progetto presentato dalla ECLA a mente del PRAE nel 2006 non era stata conclusa ed i lavori estrattivi proseguiti ex art. 36 della legge regionale n. 54/1985 non ancora terminati.
Si tratta di una tesi infondata, trattandosi di un semplice atto di indirizzo adottato, ai sensi dell’art. 38 bis, co. 4, della L.R. n. 54/1985, dal competente Settore regionale nei confronti dei dirigenti dei Settori provinciali del Genio Civile, ai quali solo spettava l’adozione dei provvedimenti autorizzativi qualora delegati dal presidente della Giunta regionale ai sensi dello stesso art. 38-bis; la competenza del Settore regionale, in base a quella norma, resta limitata alla sola emanazione di direttive, oltre che all’attuazione delle altre disposizioni previste dalla stessa legge, salva la possibilità di esercitare il potere sostitutivo già spettante al presidente della Giunta Regionale nell'ipotesi di inattività dei dirigenti dei Settori provinciali.
Ne resta, di conseguenza, escluso che quella direttiva, emanata per uniformare l’azione amministrativa dei dirigenti provinciali, possa interpretarsi come una disposizione di proroga generalizzata ed automatica delle attività di coltivazione in atto, indipendentemente dalle determinazioni assunte per ciascun caso dai dirigenti provinciali con provvedimenti amministrativi puntuali.
Può aggiungersi, per opportuna completezza, che nella giurisprudenza di primo grado è rimasto acclarato che la direttiva in questione, come pure la successiva direttiva n. 0631058 del 12 luglio 2007 del medesimo Settore regionale, «è [stata] superata dalla Direttiva n. 405263 del 10.05.2010 […] emanata dal Settore Cave della Giunta Regionale della Campania, la quale ha stabilito che "nessuna disposizione del P.R.A.E. può essere interpretata nel senso di consentire l’esercizio o la prosecuzione di attività estrattive in mancanza di specifica autorizzazione (o concessione) in corso di validità, dal momento che tale interpretazione risulterebbe in contrasto con l'articolo 4 della L.R. 54/1985" e precisa "... ogni precedente direttiva che risulti in contrasto con quanto sopra rappresentato deve intendersi conseguentemente rettificata; ciò vale, in particolare, per le direttive emanate da questo Settore con prot. 516733/2007 e con prot. 631058/2007, in part. per il punto 4)”» (TAR Campania, Napoli, sez. IV, 25 settembre 2014, n. 5022; l’art. 4, co. 3, della L.R. 54/1985 stabilisce che «[l]'autorizzazione e la concessione costituiscono gli unici titoli per la coltivazione del giacimento»).
11. – L’appello è fondato anche relativamente all’impugnazione del capo della sentenza di primo grado che, in accoglimento dei secondi motivi aggiunti, ha annullato il decreto dirigenziale, n. 55 del 10 dicembre 2008, di rigetto dell’istanza di prosecuzione presentata ai sensi dell’art. 36 della L.R. n. 54/86.
12. – Il decreto era stato adottato sulla scorta di tre concorrenti ragioni di diniego, sinteticamente individuate già nell’oggetto del provvedimento nell’indisponibilità - siccome appresa in occupazione temporanea dal Corpo Forestale dello Stato - della particella 1 del foglio 87 (che, interessando una superficie di mq 465.000 su una superficie totale dell’area di cava pari a mq 500.000, avrebbe reso inattuabile il progetto presentato), nella coltivazione difforme dal progetto presentato (risultando lavorazioni non conformi al medesimo) e nel mancato inizio delle operazioni di recupero ambientale (che doveva essere contestuale alla coltivazione della cava).
13. – Il Giudice di primo grado ha annullato il decreto ritenendo, in primo luogo (§ 6.2.1), che la disponibilità giuridica dell’intera area in capo all’istante fosse stata dimostrata, senza soluzione di continuità dalla data di presentazione dell’istanza di prosecuzione in poi, dai contratti di affitto stipulati con i proprietari (contratto d’affitto di durata novennale dell’8 gennaio 1978, registrato il 18 gennaio 1978; contratto d’affitto di durata novennale del 22 dicembre 1988, registrato il 9 gennaio 1989; contratto d’affitto di durata ventennale del 19 dicembre 2006, registrato l’11 gennaio 2007); e, in secondo luogo, che la prova della disponibilità materiale della stessa, nonostante nell’anno 1954 fosse stata presa in carico dal Corpo Forestale dello Stato per lavori di sistemazione idrogeologica, discendesse dal fatto che il 29 gennaio 2003 si era provveduto a riconsegnarla materialmente ai proprietari (pag. 14, § 6.2.2: «Invero, nello stesso provvedimento impugnato si dà atto che in data 29 gennaio 2003 la Regione aveva provveduto alla riconsegna materiale delle aree ai proprietari signori Santoro. Peraltro, in accoglimento della relativa censura, si deve ritenere che tale disponibilità materiale sussistesse anche all’epoca della presentazione dell’istanza di prosecuzione (7 gennaio 1986), atteso che non è posta in dubbio la continuità dell’attività di cava dal 1986 in avanti; senza dire che, ove tale continuità fosse mancata, sarebbero ben difficilmente spiegabili i successivi contratti d’affitto di cui si è dato conto in precedenza. Tanto basta all’accoglimento delle censure relative alla pretesa indisponibilità dell’area di cava da parte della ricorrente»).
Su questa base il T.A.R. ha concluso per la fondatezza anche della doglianza riguardante l’asserita inattuabilità del progetto di coltivazione, per l’erroneità del presupposto della ritenuta indisponibilità delle suddette aree (§ 6.2.4).
14. – Con il secondo motivo di appello la Regione critica questo capo della sentenza sia per non aver tenuto conto dell’esistenza delle altre due autonome motivazioni addotte a fondamento del rigetto dell’istanza (quella relativa alla coltivazione della cava difforme dal progetto e quella legata al mancato inizio del recupero ambientale), sia per l’erroneità dell’assunto della piena disponibilità delle aree in capo alla ditta istante.
15. – Il motivo è fondato.
16. - Il Giudice di primo grado, difatti, non si è pronunciato sulla legittimità delle due ulteriori ragioni poste a fondamento del provvedimento di diniego e, prima ancora, è incorso in errore nel valutare la questione della disponibilità dell’area di cava.
17. - A quest’ultimo riguardo occorre prendere le mosse dalle circostanze di fatto rappresentate nel decreto del dirigente regionale sulla scorta di quanto evidenziato in una determinazione del 21 maggio 2008 della Amministrazione provinciale di Caserta.
18. - L’Amministrazione provinciale aveva infatti evidenziato, da un lato, che «il Corpo Forestale dello Stato in data 01.08.1954, con verbale n. 12 prendeva in possesso i terreni di proprietà Santoro Carmine, Antimo e Rocco fu Giuseppe per un’estensione di Ha 46.50.00 distinto in catasto al foglio 87, part. 1 del Comune di Falciano del Massico per la sistemazione idraulico-forestale del bacino Monte Massico, versante Volturno», e, da altro lato, che «questo Settore, Servizio Foreste, con determinazione dirigenziale n. 11/T del 29.01.2003 riconsegnava, tra l’altro, ai legittimi proprietari eredi Santoro, i terreni tenuti in occupazione temporanea per lavori di riforestazione e bonifica montana (L.R. 11/96 art. 20), riportati al foglio 87, part. 1 del Comune di Falciano del Massico».
Nelle controdeduzioni prodotte a seguito della comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (con memoria procedimentale denominata “atto di significazione e contestuale riscontro alla nota n. 0821703 del 6.10.2008”), la ECLA aveva sostenuto che la particella 1, “per come riconosciuto dalla stessa Provincia di Caserta”, non era mai stata occupata e fatta oggetto di opera alcuna di miglioramento boschivo, che comunque l’occupazione era cessata nell’agosto 1964 a mente dell’art. 77 del R.D. n. 3267/1923 e che sul punto si era già espresso il T.A.R. Campania con ordinanza n. 2603 del 21 settembre 2006, sospendendo il provvedimento della Provincia.
Nella memoria difensiva prodotta nel presente grado di giudizio la società torna sulla questione sostenendo testualmente (a pag. 10) che: «Sul punto all’epoca dell’azione dell’atto regionale impugnato il TAR si era già pronunciato con l’ordinanza n. 2603/2006, richiamata in premessa, con la quale, nel sospendere la determinazione provinciale ha rimarcato, in particolare, la <<lunga durata (quasi cinquanta anni) del possesso in capo ai proprietari dei terreni>>. Non è dato intendere come l’atto provinciale, sospeso dal TAR con provvedimento che rimarca proprio la disponibilità dell’area di capo ai proprietari (danti causa della società ricorrente), possa essere invocato dalla regione per dimostrare che nel 1986 l’area per cui è causa non era nella disponibilità della Ecla. E’ vero infatti il contrario in quanto l’area in questione – oggetto peraltro di uno svincolo idrogeologico già del 1987 (!) – nella disponibilità dei proprietari da decenni, è stata concessa in fitto alla ricorrente nel 1978!».
Insiste, quindi, sul fatto che l’art. 77 del R.D. n. 3267/1923 stabilisce che i provvedimenti di apprensione delle aree per interventi di miglioramento idraulico hanno una durata massima di anni dieci.
19. - Si tratta di argomentazioni suggestive, ma prive di reale consistenza.
20. - Manca, anzitutto, l’accertamento giudiziale del possesso ininterrotto dei terreni da quasi cinquant’anni che la società appellata vorrebbe imputare al T.A.R., tenuto conto che quella invocata è una pronuncia cautelare, emessa dunque con cognizione sommaria e senza motivare peraltro quell’affermazione, e che la stessa ha perso ogni efficacia a seguito della dichiarazione di perenzione del relativo ricorso (avvenuta con decreto decisorio del presidente della Sezione III del T.A.R. Campania, n. 3804 dell’11 dicembre 2005).
Non è esatto, inoltre, che la Provincia di Caserta avrebbe riconosciuto nel suo provvedimento che la particella non era mai stata occupata, essendo vero il contrario (sia in quanto l’atto richiama il verbale n. 12 del 1954 di presa di possesso da parte del Corpo Forestale dello Stato per la sistemazione idraulico-forestale del bacino Monte Massico, versante Volturno, sia in quanto esso, dando atto della riconsegna nel 2003 dei terreni tenuti in occupazione temporanea per lavori di riforestazione e bonifica montana, ne presuppone la sua precedente materiale apprensione).
Il fatto che il 1° agosto 1954, con apposito verbale, il Corpo Forestale dello Stato avesse preso in possesso, per un’estensione di 46,50 ettari, l’area censita in catasto al foglio 87, part. 1, del Comune di Falciano del Massico per la sistemazione idraulico-forestale del bacino Monte Massico, versante Volturno, dunque per la esecuzione delle opere previste e regolate dal Capo I (Sistemazione idraulico-forestale dei bacini montani) del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3267 (Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani), comportava l’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 50 e 53 del regio decreto cit., per cui ai proprietari sarebbe spettata un’indennità decorrente dalla data della presa di possesso dei terreni da parte dell'Amministrazione dello Stato e questi sarebbero dovuti essere riconsegnati, una volta rinsaldati o rimboschiti e collaudati i lavori, ai loro proprietari, a meno che gli stessi non intendessero rinunciare alla riconsegna e il Ministero competente non avesse proceduto al loro acquisto.
Ebbene, l’appellante non deduce che la riconsegna dell’area sia mai avvenuta in ossequio e in conformità alle disposizioni appena richiamate, ponendo termine al possesso dei terreni da parte dell’Amministrazione, ma invoca l’applicazione del successivo art. 77, collocato nel Capo II (Rimboschimento e rinsaldamento di terreni vincolati) del regio decreto, che concerne, viceversa, la sospensione del godimento, ovvero la occupazione temporanea, dei terreni nudi destinati a pascolo al fine del loro inerbamento e rinsaldamento, cioè fattispecie diversa, e che, comunque, non disciplina la riconsegna materiale dei terreni eventualmente occupati.
Se, dunque, i proprietari sono ritornati nel possesso della particella soltanto a seguito della riconsegna di cui alla determinazione dirigenziale del 29 gennaio 2003 della Provincia di Caserta, che ne aveva evidentemente assunto la disponibilità con la delega di funzioni per le opere di sistemazione idraulico-forestali e di difesa del suolo effettuata dalla Regione Campania alle Amministrazioni provinciali con la legge regionale del 7 maggio 1996, n. 11, è chiaro che fino a quella data non ne avevano la disponibilità giuridica necessaria per affittarlo affinché l’affittuario potesse legittimamente installarvi un impianto per l’estrazione e la lavorazione di pietra calcarea, come si legge al punto a) del contratto novennale di affitto stipulato in data 8 gennaio 1978.
Ne consegue che, quando ha presentato la domanda di proseguimento della coltivazione della cava in data 3 luglio 1986, la ECLA operava in un’area che, per la maggior parte corrispondente alla particella 1, era ancora nella disponibilità dell’amministrazione pubblica.
Diversamente da quanto ritenuto in primo grado, non rileva in contrario che l’ECLA ne avesse la disponibilità materiale, dato che, come già detto, perché l’occupazione dell’area da parte della pubblica amministrazione cessasse era necessario, alla stregua delle norme richiamate, un atto di riconsegna del bene al proprietario, che, nella specie, non è provato sia avvenuto prima del 2003.
Ciò a prescindere dal fatto che la stessa società appellata rappresenta che l’area era stata oggetto di svincolo idrogeologico soltanto nel 1987, l’anno dopo la presentazione dell’istanza, circostanza peraltro non rilevata nell’atto impugnato.
In conclusione, l'art. 36 della L.R. n. 54/1985, nel consentire la prosecuzione delle coltivazioni già esercitate legittimamente al momento della sua entrata in vigore, ne preclude l’autorizzazione qualora l’istante versi, a quella data, in condizione di non legittimo esercizio della cava medesima, sicché, non essendo dimostrato, nel caso in esame, che i proprietari fossero già stati reimmessi, all’epoca, nel possesso dell’area, occupata dall’amministrazione per finalità di sistemazione idraulico-forestale, correttamente nel decreto impugnato si assume, a fondamento del rigetto dell’istanza, l’assenza del presupposto per autorizzare la prosecuzione di quella attività.
21. - Ciò detto in relazione alla prima delle ragioni che autonomamente reggono, ciascuna, la determinazione impugnata, l’esito del giudizio ne resta definito e, dunque, non occorre soffermarsi a vagliare le censure, non esaminate in primo grado, che investono le altre due motivazioni del rigetto, né il terzo ed ultimo motivo di appello teso a denunciare l’erroneità dell’annullamento del decreto in relazione alla corretta applicazione del PRAE, con cui la Regione sostiene che lo stato dei luoghi non consentisse la realizzazione del recupero ambientale e la stessa ulteriore estrazione del materiale di cava.
22. - Per tutte queste ragioni l’appello deve essere accolto e per l’effetto, in parziale riforma della sentenza appellata, devono essere respinti il ricorso introduttivo ed il secondo ricorso per motivi aggiunti del primo grado del giudizio.
23. – Le spese del doppio grado del giudizio sono poste ordinariamente a carico della società soccombente, nella misura liquidata in dispositivo, mentre possono essere compensate nei confronti delle altre parti, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c. nella formulazione applicabile ratione temporis, ricorrendone giusti motivi in relazione alla qualità degli interessi difesi dalle stesse parti, intervenute a difesa della propria situazione occupazionale.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in parziale riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso introduttivo ed il secondo ricorso per motivi aggiunti del primo grado del giudizio.
Condanna la ECLA s.a.s. di Letizia Alfonso al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio in favore della Regione Campania, che liquida nella somma complessiva di € 5.000,00 (cinquemila/00), oltre accessori di legge, e le compensa nei confronti delle altre parti.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 luglio 2019 con l'intervento dei magistrati:
Gabriele Carlotti, Presidente
Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere
Giancarlo Luttazi, Consigliere
Giovanni Sabbato, Consigliere
Francesco Guarracino, Consigliere, Estensore