Cass. Sez. III n.41828 del 7 novembre 2008 (Ud. 30 set. 2008)
Pres. De Maio Est. Fiale Ric. Petri ed altri
Danno Ambientale. Nozione e nuova disciplina

Il contenuto stesso del danno ambientale viene a coincidere con la nozione non di danno patito bensì di donno provocato ed il danno ingiusto da risarcire si pone in modo indifferente rispetto alla produzione di danni-conseguenze, essendo sufficiente per la sua configurazione la lesione in sé di quell\'interesse ampio e diffuso alla salvaguardia ambientale, secondo contenuti e dimensioni fissati da norme e provvedimenti. Il legislatore, invero, in tema di pregiudizio ai valori ambientali, ha inteso prevedere un ristoro quanto più anticipato possibile rispetto al verificarsi delle conseguenze dannose, che presenterebbero situazioni di irreversibilità. Per integrare il fatto illecito, che obbliga al risarcimento del danno, non è necessario che l\'ambiente in tutto o in parte venga alterato, deteriorato o distrutto, ma è sufficiente una condotta sia pure soltanto colposa "in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge", che l\'art. 18 della legge n. 349/1986 specificamente riconosceva idonea a compromettere l\'ambiente quale fatto ingiusto implicante una lesione presunta del valore giuridico tutelato. Il D.Lgs. n. 152/2006 (art. 318) ha espressamente abrogato (ad eccezione del comma 5) l\'art. 18 della legge n. 349/1986; deve però rilevarsi al riguardo [anche con riferimento alla questione della attuale legittimazione degli enti territoriali minori] che, ai sensi dell\'art. 303, comma l - lett. t), del D.Lgs. n. 152/2006, il legislatore, conformemente alle indicazioni della direttiva 2004/35/CE, ha escluso espressamente ogni possibilità di applicazione retroattiva delle disposizioni di nuova introduzione costituenti la parte sesta dello stesso D.Lgs. n. 152/2006.

Il Tribunale monocratico di Grosseto, con sentenza del 6.10.2006:
a) affermava la responsabilità penale di Petri Loris e Martino Francesco in ordine al reato di cui:
-- all’art. 51, comma 4, D.Lgs. n. 22/1997 [poiché — il primo quale rappresentante legale della srl “Civitella Paganico 2000” (società pubblica soggetta al controllo del Comune), che gestiva la discarica comunale di Civitella Paganico, ed il secondo quale direttore tecnico della medesima discarica — non osservavano le prescrizioni impartite con la determina dirigenziale dì autorizzazione 5.9.2002 della Provincia di Grosseto, omettendo specificamente: di procedere alla copertura giornaliera dei rifiuti; di effettuare la captazione del biogas in tutti i moduli della discarica; di procedere al rinverdimento dei moduli esauriti — acc. in Civitella Paganico, loc. Cannicci, dal maggio 2002 fino al 24.2.2004]
e condannava ciascuna alla pena di curo 1.292,00 di ammenda, interamente condonata per entrambi;
b) condannava Petri, Martino e la responsabile civile s.r.l. “Civitella Paganico 2000” al risarcimento solidale dei danni in favore delle costituite parti civili Provincia di Grosseto e W.W.F. (World Wide Found for Nature) — Italia (quest’ultima costituita in sostituzione del Comune di Civitella Paganico).
Avverso tale sentenza hanno proposto separati ricorsi: i difensori di entrambi i condannati, Francesco Martino personalmente, nonché il difensore del responsabile civile.
Con motivi sostanzialmente comuni è stato eccepito, sotto i profili della violazione di legge e del vizio dì motivazione:
-- la trasgressione del principio del “ne bis in idem” posto dall’art. 649 c,p.p., poiché entrambi gli imputati erano stati già condannati — per varie irregolarità nella gestione della discarica di Cannicci e per inosservanze identiche a quelle oggetto della condanna impugnata — con decreti penali del 30.12.2002, divenuti esecutivi nel marzo del 2003 per mancata opposizione;
-- la violazione dell’art. 162 bis cod. pen. in ordine al mancato accoglimento della richiesta di oblazione formulata dalla difesa del Martino;
-- la insussistenza del reato per la mancata e non corretta valutazione integrale delle testimonianze e dei documenti acquisiti al dibattimento. In particolare:
- i moduli in cui avvenivano gli sversamenti giornalieri sarebbero stati sempre e quotidianamente coperti con teloni e tale modalità attuativa dovrebbe considerarsi legittima, poiché la prescritta utilizzazione di terreno per le operazioni di copertura non sarebbe stata praticabile nelle scarpate bagnate (come da testimonianza resa dal funzionario dell’ARPAT Alberto Costa);
- il modulo 1 della discarica — realizzato da gestore diverso dal Martino ed ormai esaurito — essendo oggetto di operazione di bonifica, non avrebbe potuto essere interessato da un impianto di captazione del biogas; gli altri moduli sarebbero stati tutti dotati di un impianto siffatto, ad eccezione di quello contraddistinto dal n. 4.2, ove l’attrezzatura non sarebbe stata installabile, perché esso era “ancora in coltivazione nel 2003”;
- il modulo 1 “era già stato chiuso quando l’ingegnere Martino era stato assunto alla direzione della discarica”; esso era interessato da un inerbimento naturale già nel 2001 ma era stato poi riutilizzato, in forza di ordinanze di emergenza, nel periodo 2001- 2002; per gli altri moduli non più in coltivazione, inoltre, l’inerbimento non era stato completato, “dal momento che si profilava l’entrata in vigore del D.Lgs. 36/2003 sulle discariche, che avrebbe imposto anche per essi il rifacimento integrale dello strato di copertura, e il loro inerbimento avrebbe rappresentato un inutile spreco di denaro pubblico”;
-- la insussistenza di qualsiasi prova del “danno” asseritamente subito dalle parti civili.
Il difensore del Martino, con memoria depositata il 10.3.2008, ha ulteriormente illustrato la doglianza riferita alla carenza della configurabilità di qualsiasi danno in pregiudizio delle parti civili, prospettando altresì la intervenuta prescrizione del reato.
Il patrono della parte civile W.W.F. - Italia ha contestato con memoria dell’11.2.2008 tutte le eccezioni svolte nei ricorsi.

MOTIVI DELLA DECISIONE
I ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, perché manifestamente infondati.
1. Il principio del “ne bis in idem”, posto dall’art 649 c.p.p., impedisce al giudice di procedere contro la stessa persona “per il medesimo fatto” sul quale si è formato il giudicato e, ai fini di tale preclusione, la identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona [vedi Cass., Sez. Unite, 28.9.2005, n. 34655].
Esattamente, nella specie, il giudice del merito ha escluso che vi sia completa identità, anche cronologica e materiale, tra tutti gli elementi dei fatti già giudicati con i decreti penali del 30.12.2002 e quelli attribuiti nel nuovo procedimento alle stesse persone, verificatisi dal maggio 2002 e fino al 24.2.2004, cioè successivamente al periodo temporale indicato nelle contestazioni anteriori (riguardanti omissioni protrattesi “fino al settembre 2001”).
I fatti costituenti oggetto dei decreti penali, inoltre, non si riferivano all’incompleta ottemperanza alle prescrizioni imposte con l’autorizzazione provinciale del 5.9.2002 (non ancora emanata all’epoca del loro accertamento) bensì soltanto all’inosservanza di precedenti atti autorizzativi del 7.4.1998 e del 20.1.1999.
2. Quanto alla mancata ammissione all’oblazione, deve rilevarsi che agli imputati era stato originariamente contestato — nel procedimento in esame — oltre al reato di cui all’art. 51, comma 4, D.Lgs. n. 22/1997 (per il quale è intervenuta condanna), anche quello di gestione di discarica abusiva di rifiuti speciali diversi dai rifiuti urbani, di cui all’art. 51, 3° comma, dello stesso D.Lgs. (contravvenzione dalla quale essi sono stati assolti per difetto dell’elemento soggettivo).
La difesa del Martino, nella fase preliminare all’apertura del dibattimento, aveva formulato richiesta di oblazione per i ipotesi in cui questa fosse divenuta ammissibile per la diversa qualificazione del reato ovvero per la modifica del capo di imputazione: tale richiesta era stata reiterata nel corso del dibattimento ma ritenuta dal Tribunale inammissibile “non venendosi in ipotesi di modificazione della contestazione nè di diversa qualificazione giuridica dalle quali scaturisca una fattispecie contravvenzionale oblabile, bensì di riconoscimento della colpevolezza per uno solo dei due capi in rubrica (ancorché dì per sé singolarmente oblabile)”.
La motivazione anzidetta è errata nella parte in cui ha considerato “oblabile” il reato per cui è intervenuta condanna, perché non soltanto il reato di discarica abusiva ma anche il reato di inosservanza delle prescrizioni contenute in un provvedimento che autorizza la gestione di una discarica e ne fissa le modalità gestorie - sanzionato dall’art. 51, comma 4, D.Lgs, n. 22/1997 in correlazione con il precedente 3° comma — è punito con pena congiunta e, quindi, non può essere ammesso ad oblazione ai sensi dell’art. 162 bis cod. pen.
Erroneamente il Tribunale di Grosseto ha inflitto, nella specie, la sola pena pecuniaria ed il PM. non ha ritenuto di dolersi di tale applicazione di pena illegittima, comunque favorevole agli imputati.
3. In ordine alle eccezioni riferite alla ricostruzione della vicenda ed alla valutazione degli elementi di prova raccolti al dibattimento, deve darsi atto che la motivazione della sentenza impugnata appare esauriente e corrispondente alle premesse fattuali acquisite in atti, in quanto essa esamina tutti gli elementi decisivi a disposizione e fornisce risposte coerenti alle obiezioni della difesa.
Le censure concernenti asserite carenze argomentative sui singoli passaggi della ricostruzione dei fatti e dell’attribuzione degli stessi alla persona dell’imputato non sono proponibili nel giudizio di legittimità, quando la struttura razionale della decisione sia sorretta, come nella specie, da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e il ricorrente si limiti sostanzialmente a sollecitare la rilettura del quadro probatorio e, con essa, il riesame nel merito della sentenza impugnata.
4. Non meritano censura le statuizioni risarcitorie in favore delle parti civili Provincia di Grosseto e W.W.F. - Italia (quest’ultima costituita in sostituzione del Comune di Civitella Paganico), tenuto conto che il giudice del merito ha ravvisato, nella specie, con razionale accertamento di fatto, la sussistenza di “danno ambientale” ex art. 18 della legge 8.7. 1986, n. 349.
La Corte Costituzionale — nella sentenza n. 641 del 1987 — conferisce al danno ambientale una rilevanza patrimoniale indiretta ed avverte che “risulta superata la considerazione secondo cui il diritto al risarcimento del danno sorge solo a seguito della perdita finanziaria contabile nel bilancio dell’ente pubblico, cioè della lesione del patrimonio dell’ente, non incidendosi su un bene appartenente allo Stato ... La legittimazione ad agire, che è attribuita allo Stato ed agli enti minori, non trova fondamento nel fatto che essi hanno affrontato spese per riparare il danno, o nel fatto che essi abbiano subito una perdita economica ma nella loro funzione a tutela della collettività e delle comunità nel proprio ambito territoriale e degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio che ad essi fanno capo”.
Lo schema di azione adottato — riconducibile al paradigma dell’art. 2043 cod. civ. — porta “ad identificare il danno risarcibile come perdita subita, indipendentemente sia dal costo della rimessione in pristino, peraltro non sempre possibile, sia dalla diminuzione delle risorse finanziarie dello Stato e degli enti minori”.
Dalle anzidette argomentazioni della Corte Costituzionale, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha desunto che il contenuto stesso del danno ambientale viene a coincidere con la nozione non di danno patito bensì di danno provocato ed il danno ingiusto da risarcire si pone in modo indifferente rispetto alla produzione di danni - conseguenze, essendo sufficiente per la sua configurazione la lesione in sé di quell’interesse ampio e diffuso alla salvaguardia ambientale, secondo contenuti e dimensioni fissati da norme e provvedimenti. Il legislatore, invero, in tema di pregiudizio ai valori ambientali, ha inteso prevedere un ristoro quanto più anticipato possibile rispetto al verificarsi delle conseguenze dannose, che presenterebbero situazioni di irreversibilità.
Per integrare il fatto illecito, che obbliga al risarcimento del danno, non è necessario che l’ambiente in tutto o in parte venga alterato, deteriorato o distrutto, ma è sufficiente una condotta sia pure soltanto colposa “in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge”, che l’art. 18 della legge n. 349/1986 specificamente riconosceva idonea a compromettere l’ambiente quale fatto ingiusto implicante una lesione presunta del valore giuridico tutelato [per più ampie argomentazioni vedi Cass., Sez. III, 6.3.2007, Antonini ed altri].
Il D.lgs. n. 152/2006 (art. 318) ha espressamente abrogato (ad eccezione del comma 5) l’art. 18 della legge n. 349/1986; deve però rilevarsi al riguardo [anche con riferimento alla questione della attuale legittimazione degli enti territoriali minori] che, ai sensi dell’art. 303, comma I - lett. f), del D.Lgs. n. 152/2006, il legislatore, conformemente alle indicazioni della direttiva 2004/35/CE, ha escluso espressamente ogni possibilità di applicazione retroattiva delle disposizioni di nuova introduzione costituenti la parte sesta dello stesso D.Lgs. n. 152/2006.
5. I ricorsi, per tutte le argomentazioni svolte dianzi, vanno dichiarati inammissibili e, poiché la inammissibilità non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione, non può tenersi conto di eventuali cause di estinzione del reato intervenute successivamente alla pronuncia della decisione impugnata (vedi Cass., Sez. Unite, 21.12.2000, n. 32, ric. De Luca).
6. Tenuto conto della sentenza 13.6.2000, n. 186 della Corte Costituzionale e rilevato che, nella specie, non sussistono elementi per ritenere che “le parti abbiano proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria della inammissibilità medesima segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., l’onere solidale delle spese del procedimento nonché, per ciascun ricorrente, quello del versamento di una somma., in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 1.000,00.
I ricorrenti devono essere altresì condannati in solido alla rifusione delle spese del grado in favore della costituita parte civile WWF - Italia, che vengono liquidate in complessivi euro 1.500,00 per onorario, oltre accessori di legge.