Sez. 3, Sentenza n. 46746 del 21/10/2004 Ud. (dep. 02/12/2004 ) Rv. 231306
Presidente: Dell'Anno P. Estensore: Squassoni C. Relatore: Squassoni C. Imputato: P.C. e
Resp. civile in proc. Morra. P.M. Izzo G. (Diff.)
(Rigetta, App. Torino, 10 Dicembre 2003)
PARTE CIVILE (Cod. proc. pen. 1988) - ENTI A ASSOCIAZIONI RAPPRESENTATIVI - Reati di danno ambientale - Associazioni ecologiste - Costituzione di parte civile - Ammissibilità - Condizioni.
Massima (Fonte CED Cassazione)
Le associazioni ecologiste sono legittimate alla costituzione di parte civile nei procedimenti per reati che offendono l'ambiente, anche se non riconosciute ai sensi dell'art. 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349, a condizione che abbiano direttamente subito un danno di natura patrimoniale (come può avvenire per i costi di attività finalizzate a prevenire il pregiudizio ambientale) o non patrimoniale (che può connettersi al discredito derivante dalla frustrazione dei fini istituzionali), e non si atteggino semplicemente a soggetti portatori di un interesse diffuso. (In motivazione la Corte ha rilevato come, affinchè una associazione possa ritenersi titolare di un proprio diritto soggettivo, sia necessario che la tutela dell'ambiente costituisca il suo essenziale fine statutario, che sia radicata sul territorio anche mediante sedi locali, che rappresenti un gruppo significativo di consociati e che abbia dato prova della continuità e della rilevanza del suo contributo alla difesa dell'ambiente).
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. DELL'ANNO Paolino - Presidente - del 21/10/2004
Dott. ONORATO Pierluigi - Consigliere - SENTENZA
Dott. TARDINO Vincenzo - Consigliere - N. 1991
Dott. SQUASSONI Claudia - Consigliere - REGISTRO GENERALE
Dott. FRANCO Amedeo - Consigliere - N. 14376/2004
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Arvin Meritor Suspension System s.r.l. Comitato spontaneo S. Fedele. Avverso la sentenza 10.12.2003 della Corte di Appello di Torino. visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso;
Udita in Pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. SQUASSONI;
udito il Pubblico Ministero nella persona del Dott. IZZO Gioacchino che ha concluso per il rigetto del ricorso del responsabile civile e l'annullamento della sentenza con rinvio relativamente al ricorso del Comitato S. Felice.
Uditi i difensori Avv. Guadalupi Stefano e Avv. Pasta Alberto. MOTIVI DELLA DECISIONE
Il fatto posto alla base del processo consiste nella rottura di una tubazione interrata di aduzione delle acque cromatiche dello stabilimento della società Arvin che ha determinato la fuoriuscita, protratta nel tempo (dal giugno del 1999 al marzo 2000), del cromo nelle falde del sottosuolo di un intero quartiere (S. Fedele) di Asti distante centinaia di metri dall'insediamento produttivo. Per tale episodio, Morra Luigi Angelo, nella sua qualità di responsabile del servizio per la tutela dell'ambiente dall'inquinamento della società Arvin, è stato tratto a giudizio del Tribunale di Asti per rispondere del reato previsto dall'art. 51 c. 2 D.Lvo 22/1997; in esito al dibattimento, i Giudici hanno ritenuto l'imputato responsabile della contravvenzione ascrittagli, l'hanno condannato alla pena di giustizia ed, in solido con la Arvin, al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, nei confronti delle parti civili a ciascuna delle quali hanno assegnato una provvisionale di euro diecimila. La sentenza del primo Giudice è stata impugnata dal responsabile civile, dalle parti civili e dall'imputato che, al dibattimento di secondo grado, ha concordato con l'Accusa la pena con rinuncia ai motivi di impugnazione escluso quello concernente le statuizioni civili; la Corte territoriale, con la sentenza in epigrafe precisata, ha determinato per l'imputato la pena nella misura richiesta, ha eliminato le statuizioni relative al Comitato spontaneo S. Fedele, ha riliquidato le spese di primo grado nei confronti delle parti civili (per le quali la somma assegnata come provvisionale è stata liquidata a titolo di ristoro dei danni morali) confermando nel resto la prima decisione.
Per l'annullamento della sentenza, ricorrono in Cassazione il responsabile civile ed il Comitato S. Fedele.
Il primo deduce difetto di motivazione e violazione di legge rilevando erronea applicazione dell'art. 86 c.p.p. in quanto le prove assunte prima della sua citazione nel processo, che erano idonee a pregiudicare la posizione dell'imputato, giustificano sua estromissione.
La censura è meritevole di accoglimento e tale conclusione, per il suo carattere assorbente, esonera il Collegio dal prendere in esame le residue deduzioni del ricorrente.
Deve, innanzi tutto, precisarsi che la Corte territoriale non ha accolto la domanda di estromissione del responsabile civile sotto il profilo che non era motivata e per il rilievo che l'unico elemento probatorio acquisito senza il contraddittorio della Arvin - e destinato ad entrare nel fascicolo del dibattimento - fosse costituito dalle analisi delle acque dalle quali si desumeva che l'inquinamento provenisse dallo insediamento produttivo dell'imputato; dal momento che tale circostanza non è mai stata posta discussione dal responsabile civile, costui non aveva subito in concreto un nocumento alla sua difesa per le prove raccolte in sua assenza.
Il Collegio non condivide tale esegesi della norma.
Con la richiesta di esclusione, il responsabile civile, che non sia intervenuto volontariamente, può contestare la legitimatio ad causam o ad processum o l'inosservanza delle formalità previste dalla legge oppure rilevare l'acquisizione di elementi probatori, avvenuta senza il suo contraddittorio, a lui pregiudizievoli in relazione a quanto previsto dagli artt. 651, 654 c.p.p..
In merito alla ultima ipotesi, la legge consente al responsabile civile, al momento della ed discovery, di valutare la consistenza delle prove già acquisite e decidere se rimanere nel processo, assoggettandosi al regime degli effetti extrapenali della sentenza, ovvero domandare di essere escluso.
La chiara formulazione dell'art. 86 c. 3 c.p.p. esplicita che, qualunque siano le ragioni della richiesta, la stessa deve essere sorretta da motivazione la cui carenza, tuttavia, non è stata prevista dal Legislatore come causa di inammissibilità della domanda; tale disciplina è coerente con la possibilità che l'esclusione sia disposta di ufficio.
Nel caso concreto, la richiesta di estromissione era giustificata dalla esistenza di una analisi irripetibile effettuata nel corso delle indagini preliminari che costituiva elemento di prova a carico dell'imputato e, di conseguenza, della Arvin; tale motivazione del responsabile civile era sufficiente per ottenere la sua estromissione dal processo. Invero l'elemento probatorio raccolto era inserito nel fascicolo del dibattimento e, pertanto, veicolava di diritto nel novero delle prove utilizzabili ai fini decisori; in tale contesto, il Giudice avrebbe dovuto verificare solo la esistenza fisica dell'atto non ripetibile e non anche la esistenza di un concreto pregiudizio derivante dallo stesso alla strategia difensiva del responsabile civile.
Ciò in quanto, in presenza di una domanda di estromissione, al Giudice non resta affidata alcuna verifica sul nocumento arrecato al responsabile civile per effetto della citazione che, se consentita, gli permetterebbe una indebita ed anticipata ponderazione della valenza probatoria degli atti acquisiti.
Una tale valutazione può essere compiuta solo a dibattimento concluso mentre la questione relativa alla estromissione del responsabile civile deve essere proposta prima dell'espletamento delle formalità di apertura del dibattimento e decisa dal Giudice senza ritardo (art. 86 c. 3 c.p.p.); in questa fase processuale, è possibile solo la constatazione della esistenza di elementi potenzialmente pregiudizievoli, al fine che rileva, senza la possibilità di effettuare un giudizio prognostico sul valore probatorio sugli stessi. Per le esposte considerazioni, il Collegio annulla senza rinvio la gravata sentenza nel punto relativo alla condanna del responsabile civile che estromette dal processo. Prima di affrontare le censure del Comitato S. Fedele necessitano alcune puntualizzazioni.
Il principio indiscusso che tutte le associazioni o organizzazioni, riconosciute o non, possono costituirsi parte civile, qualora abbiano subito una lesione di un diritto soggettivo (o anche di un interesse giuridicamente rilevante secondo la sentenza delle Sezioni Unite civili n. 500 del 1999) del sodalizio dalla azione criminosa, viene da alcuni disconosciuto alle associazioni ecologiche, in relazione al danno ambientale, per il disposto dell'art. 18 L. 349/1986. Questo articolo stabilisce, tra l'altro, che l'azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, è promossa dallo Stato nonché dagli enti territoriali sui quali incidono i beni oggetto del fatto lesivo e che le associazioni, individuate a sensi dell'art. 13 stessa legge, possono intervenire nel giudizio. Per taluni la facoltà di intervento consente alle associazioni solo l'ingresso nel processo alle condizioni e con i limiti di cui agli artt. 91 ss c.p.p.; tale tesi è sostenuta con riferimento al testo letterale della norma, ai lavori preparatori da cui emergerebbe una volontà del Legislatore in tale senso, ed all'art. 212 delle norme di coordinamento al codice di procedura vigente secondo il quale - quando le leggi o i decreti consentono la costituzione di parte civile al di fuori delle ipotesi indicate nell'art. 74 c.p.p. - è permesso solo l'intervento nei limiti di cui agli artt. 91 ss c.p.p. (Cass. Sez. 4, 17.12.1988, n. 12659 imp. Zorzi; Sez. 3, 23.6.1994 n. 7572, imp Galletti).
Il Collegio non ritiene esatta le lettura restrittiva della norma ed esclude una legittimazione, a titolo esclusivo, dello Stato e degli enti territoriali alla costituzione di parte civile in base all'art. 18 L. 348/1986.
La norma ha introdotto una nuova figura di azione ed ha considerato il danno ambientale nella sua dimensione pubblica tipicizzando, appunto, una fattispecie di illecito a carattere pubblicistico quale lesione del diritto - dovere delle istituzioni centrali e periferiche con specifiche competenze ambientali.
Da quanto detto, risulta chiaro che le associazioni non possono costituirsi parte civile al fine di chiedere la liquidazione del danno ambientale di natura pubblica che, in termini monetari, va operata a favore dello Stato e, secondo taluni, anche degli altri enti territoriali, non essendo concepibile una corresponsione di questo tipo di risarcimento a favore di organismi privati. Il rilievo che lo Stato, il Comune e la Regione - in virtù del loro rapporto di immedesimazione con il territorio - sono considerati massimi enti esponenziali della collettività ed accentrano la titolarità del ristoro del danno pubblico allo ambiente non priva altri soggetti della legittimazione diretta a rivolgersi al Giudice penale per la tutela di altri diritti patrimoniali o personali compresi nel degrado ambientale: l'art. 18 citato integra e non esclude i principi generali in materia del risarcimento del danno e di costituzione di parte civile.
Ora il nocumento in oggetto ha dimensioni diversificate. La Corte Costituzionale, con sentenza 641/1987, ha rilevato che l'ambiente è "bene primario ed assoluto" e la sua protezione è "elemento determinante per la qualità della vita", "non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, bensì esprime l'esigenza di un habitat naturale nel quale l'uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini"; in tale modo, la Consulta ha riconosciuto che il danno ambientale può recare lesione alla posizione giuridica dei singoli.
La giurisprudenza di legittimità è andata oltre questo principio è ed ha rilevato che il danno ambientale presenta, oltre a quella pubblica, una dimensione personale e sociale quale lesione del diritto fondamentale all'ambiente salubre di ogni uomo e delle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità; il danno in oggetto, in quanto lesivo di un bene di rilevanza costituzionale, quanto meno indiretta, reca una offesa alla persona umana nella sua sfera individuale e sociale. Tale rilievo porta alla conclusione che la legittimazione a costituirsi parte civile per danno ambientale non spetta solo ai soggetti pubblici, in nome dell'ambiente come interesse pubblico, ma anche alle persone singole o associate in nome dell'ambiente come diritto fondamentale di ogni uomo. Di conseguenza la legittimazione in oggetto spetta anche alle associazioni ecologiche quando hanno subito dal reato una lesione di un diritto di natura patrimoniale (ad esempio, per i costi sostenuti nello svolgimento della attività dirette ad impedire pregiudizio al territorio o per la propaganda) o non patrimoniale (ad esempio, attinente alla personalità del sodalizio per il discredito derivante dal mancato raggiungimento dei fini istituzionali che potrebbe indurre gli associati a privare l'ente del loro sostegno personale e finanziario). Sulla possibilità delle associazioni ambientaliste a costituirsi parte civile, nel caso in esame, si è pronunciata la prevalente giurisprudenza di legittimità sia pure con differenti motivazioni (V. Sez. 6^ 10.1.1990, n 59 imp. Monticela; Sez. 3 26.2.1990, n. 2603 imp Contento; Sez. 3 11.4.1992 n 4487 imp. Ginatta; Sez. 3 13.11.1992 n. 10956 imp. Serlenga; Sez. 3 21.5.1993 5230 imp. Tessarolo; Sez. 3 28.10.1993 n. 9727 imp. Benericetti; Sez. 3 19.1.1994 n. 439 imp Mattiuzzi; Sez. 3 6.4.1996 n. 3503 imp. Russo;
Sez. 3 19.11.1996 n. 9837 imp Locatelli; Sez. 3 26.9.1996 n. 8699 imp. Perotti; Sez. 3 10.6.2002 n. 22539 imp. Kiss Gunter). A questo punto, si impone una precisazione: non sono legittimati a costituirsi parte civile gli enti e le associazioni quando l'interesse perseguito sia quello genericamente inteso all'ambiente o, comunque, un interesse che, per essere caratterizzato da un mero collegamento con l'interesse pubblico, resta diffuso e, come tale, non proprio del sodalizio e non risarcibile.
Quando, invece, l'interesse alla tutela dell'ambiente non rimane una categoria astratta, ma si concretizza in una realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo, esso cessa di essere comune alla generalità dei consociati.
In questo caso, possono costituirsi parte civile le associazioni che sono centri di tutela e di imputazione dell'interesse collettivo all'ambiente che, in tale modo, cessa di essere diffuso e diviene soggettivizzato e personificato.
Perché una associazione si possa considerare ente esponenziale della collettività, in cui si trova il bene oggetto della protezione, necessita che abbia come fine statutario essenziale la tutela dell'ambiente che diviene la ragione dell'ente, sia radicata sul territorio anche attraverso sedi locali, sia rappresentativa di un gruppo significativo di consociati, abbia dato prova di continuità della sua azione e rilevanza del suo contributo a difesa del territorio.
A tali condizioni le associazioni ecologostiche sono legittimate alla azione per la difesa del proprio diritto soggettivo alla tutela dell'interesse collettivo alla salubrità dell'ambiente. Applicando tali principi al caso concreto, si deve rilevare che la conclusione dei Giudici di merito non è censurabile. Il Comitato S. Fedele non ha nel suo statuto come fine primario la protezione dello ambiente, che prevede in modo generico insieme al conseguimento di altri scopi e, pertanto, l'interesse in oggetto non è elemento costitutivo del sodalizio; inoltre non ha dato prova di avere svolto a livello sociale attività a tutela dell'ambiente, è insediato su territorio minino ed agisce non per la tutela dell'interesse collettivo alla salubrità del territorio, ma in nome proprio e di un numero esiguo di consociati alcuni dei quali già costituiti, uti singuli, come parti civili. Per le esposte considerazioni, la Corte rigetta il ricorso con le conseguenze di legge.
P.Q.M.
La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata nel capo relativo alla condanna del responsabile civile Arvin Meritor Suspension Systems che estromette dal processo; rigetta il ricorso della parte civile Comitato spontaneo San Fedele che condanna alla rifusione delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2004.
Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2004