Il
procedimento di realizzazione di un impianto di
smaltimento o recupero di rifiuti nel D. Lgs 22/1997.
di
Mario Pisano
La gestione dei rifiuti è un’attività di pubblico interesse rispetto alla quale i comportamenti degli individui non possono essere liberi ma devono sottostare ad obblighi e limiti imposti dal legislatore. Ai sensi dell’art. 27 del D. Lgs 22/1997, i soggetti che intendono realizzare nuovi impianti di smaltimento o di recupero di rifiuti, anche pericolosi, devono presentare apposita domanda alla Regione competente per territorio, allegando il progetto definitivo dell'impianto e la documentazione tecnica prevista per la realizzazione del progetto stesso dalle disposizioni vigenti in materia urbanistica, di tutela ambientale, di salute e di sicurezza sul lavoro, e di igiene pubblica.
Gli impianti di recupero e smaltimento vanno tenuti distinti dagli impianti nei quali viene effettuata la raccolta differenziata dei rifiuti. Lo smaltimento, secondo l’art. 6 citato del D. Lgs 22/1997, consta in operazioni che concernono il trattamento finale o conclusivo dei rifiuti. Il recupero, sempre secondo la stessa norma, consiste in operazioni che si traducono in una nuova utilizzazione dei rifiuti o nella loro rigenerazione o nel loro “riciclo”. La raccolta differenziata è il raggruppamento dei rifiuti urbani in frazioni merceologiche omogenee. La raccolta e la separazione dei rifiuti, non si atteggiano mai come attività di recupero dei rifiuti stessi. Ne deriva che non sussiste la necessità di seguire la procedura di valutazione di impatto ambientale per la realizzazione di un impianto destinato esclusivamente alla attività di raccolta differenziata dei rifiuti[1].
Qualora sia
necessaria la valutazione di impatto ambientale sulle opere da
eseguire, all’istanza
è allegata anche la comunicazione del progetto
all’autorità competente a
esprimersi sulla VIA e il termine richiesto per autorizzare la
realizzazione
degli impianti di smaltimento e recupero rifiuti viene sospeso fino
alla
pronuncia sulla compatibilità ambientale delle opere. In tal
caso non potrà non
seguirsi allora la specifica disciplina di cui all’art. 5 del
DPR 12.4.96[2].
La procedura che abbiamo
descritto, si applica anche quando
si debba effettuare una variante sostanziale
in corso d’esercizio, che renda gli impianti da
modificare incompatibili
con l’autorizzazione rilasciata.
Il ricorso alla VIA, secondo la giurisprudenza[3], è sempre necessario anche qualora vengano apportate ad un impianto di smaltimento o recupero innovazioni così radicali, tali da formare un atto nuovo rispetto all'originario progetto, in mancanza della preventiva valutazione della sua incidenza sui valori ambientali mediante apposita procedura di VIA.
A giudizio della giurisprudenza[4], la sopravvenienza di una variante sostanziale ad una piattaforma produttiva, non permette all’amministrazione di rinnovare rebus sic stantibus l’autorizzazione in scadenza, trovando applicazione l’art. 27 comma 8 del D. Lgs. 22/97 il quale accomuna l’ipotesi dell’autorizzazione di nuovi impianti di smaltimento o di recupero di rifiuti, anche pericolosi, a quella della realizzazione di varianti sostanziali in corso d’esercizio, che comportino modifiche a seguito delle quali gli impianti non siano più conformi all’autorizzazione originariamente rilasciata. In un’ipotesi del genere, e cioè quando gli interventi su di un impianto di smaltimento o recupero già esistente, e per il quale è previsto il ricorso a VIA, integrino una reale conversione dell’impianto stesso, risulta evidente secondo la giurisprudenza,[5] la necessità di compiere una nuova valutazione di impatto ambientale.
La giurisprudenza[6] richiede la sottoposizione a valutazione di impatto ambientale anche del progetto di massima di un impianto di smaltimento o recupero di rifiuti che, seppur in una fase successiva, preveda la destinazione di una sua parte quale area di smaltimento di rifiuti pericolosi. Ciò poiché, a giudizio della giurisprudenza, la valutazione di impatto ambientale deve consentire una valutazione anticipata dell'opera in tutta la sua complessità ed in tutte le sue implicazioni, anche se successive.
Ove si tratti di realizzare un nuovo
impianto di
smaltimento o di recupero di rifiuti, senza necessità di
sottoporre l'opera
alla V. I. A., è sufficiente la presentazione di apposita
domanda alla regione
competente per territorio. In tal caso la partecipazione alla procedura
di
approvazione del progetto degli enti locali interessati avviene
nell'ambito di
un’apposita conferenza di servizi, da istituirsi nel termine
di trenta giorni
dal ricevimento della domanda, alla
quale prendono parte i responsabili degli uffici regionali competenti,
i
rappresentanti degli Enti locali interessati nonché il
richiedente
l’autorizzazione o un suo rappresentante.
Lo schema adottato dal legislatore è quello della conferenza istruttoria che viene istituita allo scopo di mettere in atto un’ indagine sui vari interessi pubblici implicati nell’ambito di un procedimento amministrativo, confacente non solo al bisogno di sveltire i tempi del procedimento ma anche alla possibilità di riconoscere il dialogo quale mezzo appropriato a potenziare la collaborazione in vista di obiettivi comuni, confinando l’attività degli enti locali alla sola partecipazione istruttoria, senza alcun potere deliberativo o costitutivo del provvedimento finale (approvazione del progetto ed autorizzazione alla realizzazione dell'impianto), in modo che, esaminate le differenti preferenze particolari, rimanesse poi all'ente Regione, quale amministratore dell'interesse generale, l’ azione di collegamento delle esigenze locali contrastanti. Il D. Lgs. 22/1997 non fissa requisiti speciali alla manifestazione di volontà se non quello per cui essa debba essere espressa dai "rappresentanti" degli enti locali coinvolti. L’espressione “rappresentanti” si contrappone a quella di “responsabili” degli uffici regionali competenti. Quest’ultima si riferisce certamente all'apparato amministrativo-gestionale, mentre la prima non esclude che, in forza dell’autonomia dell’ente locale e del conseguente potere di darsi norme statutarie e regolamentari, il soggetto legittimato a rappresentare l'interesse dell'ente locale e a formulare le “conclusioni” di cui al comma 5 dell’art. 27, possa essere anche un organo di governo dell'ente esponenziale ovvero un altro soggetto. L'art. 107, D. Lgs. 267/2000, che riguarda le "Funzioni e responsabilità della dirigenza", non attribuisce in via esclusiva ai dirigenti degli uffici degli Enti locali il potere di intervenire in sede di conferenza di servizi, salvo che tale funzione sia ad essi riconosciuta"dallo statuto e dai regolamenti o, in base a questi, delegati dal sindaco". Pertanto, le conclusioni formulate ai sensi del comma 5 dell’art. 27, vanno intese quali "atto di indirizzo", riservate alle attribuzioni degli organi di governo dell’Ente locale[7] e non alla dirigenza[8].
Alla Conferenza di servizi di cui all’art. 27, devono prendere parte anche i rappresentanti dei Comuni limitrofi e confinanti con il territorio del Comune nel quale si intende autorizzare la realizzazione dell’impianto di smaltimento o recupero. La comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 241/1990 va notificata anche ad essi, dal momento che l’articolo citato offre un canone interpretativo generale che impone di coinvolgere nel procedimento, oltre che i soggetti nei confronti dei quali il provvedimento produce effetti, anche quelli facilmente individuabili che potrebbero riceverne pregiudizio ( ad esempio i Comuni limitrofi a quello nel quale si intende realizzare l’impianto). Pertanto una Conferenza di Servizi alla quale non siano stati convocati tutti i Comuni potenzialmente interessati alla realizzazione dell'opera deve ritenersi illegittima[9].
Tornando alla disciplina positiva del procedimento di autorizzazione, entro novanta giorni dalla sua convocazione, la conferenza trasmette le proprie conclusioni alla Giunta regionale. La Regione approva il progetto e autorizza la realizzazione dell’impianto entro trenta giorni dalla ricezione delle conclusione della conferenza di servizi. L’approvazione sostituisce visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali, provinciali e comunali. L’approvazione stessa costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico comunale, e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indefettibilità dei lavori. E’ opportuno rammentare che le aree destinate ad allocare impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti devono, di norma, essere reperite nelle zone destinate dal piano regolatore a zone industriali. Secondo la giurisprudenza, ogni qualvolta si privilegi una diversa localizzazione, trattandosi di eccezione ad una regola di portata generale, la scelta di provvedere in variante deve essere congruamente motivata dando atto della impossibilità (ed indicandone le ragioni) di localizzare il previsto intervento edilizio in aree contraddistinte da vocazione industriale per effetto della programmazione urbanistica generale, segnatamente quando la scelta della variante interferisca con un’area di particolare pregio ambientale[10].
Dobbiamo chiederci quale si ala posizione del Comune all’interno del procedimento autorizzativi quando vango indetta la conferenza di servizi, e cioè se l’Ente locale possa essere inquadrato come soggetto contro – interessato rispetto all’interesse del soggetto nei confronti del quale sia stato disposto il diniego della domanda di autorizzazione.
Secondo la giurisprudenza[11], la determinazione di volontà conclusiva del procedimento in questione, immediatamente incidente sugli interessi pubblici e privati coinvolti - in una parola, il provvedimento – è riferibile esclusivamente all’organo normativamente competente, il quale, secondo la previsione di legge, non è neppure strettamente vincolato dal parere reso dalla conferenza: questa, almeno in materia, non costituisce un organo collegiale con funzioni decisorie, dove le singole manifestazioni di scienza e volontà si fondono, ma soltanto uno strumento procedimentale di emersione e comparazione di interessi pubblici, quale strumento di collaborazione e di accelerazione del procedimento. Ne consegue allora, anzitutto, che parte resistente nei giudizi proposti avverso la decisione di negare l’autorizzazione, è soltanto l’organo che ha emesso il provvedimento, e non le autorità intervenute alla conferenza di servizi, le quali vi svolgono una funzione meramente consultiva, sicchè non è possibile imputare loro l’atto finale del procedimento. Da questo punto di vista, chi ha preso parte alla conferenza di servizi attivata ai sensi dell’art. 27, non assume la veste di parte resistente necessaria, qualora il provvedimento finale di diniego all’autorizzazione venga impugnato. Questi stessi soggetti non rivestono neanche la posizione di contro - interessati neppure se abbiano esposto un parere negativo. Ciò sarebbe concepibile qualora il provvedimento amministrativo gravato attribuisca immediatamente al terzo una posizione giuridica personale e diretta di vantaggio, nel senso cioè che l’attribuzione di quella posizione costituisce in tutto o in parte funzione del provvedimento. Il provvedimento con il quale si nega l’autorizzazione a realizzare un impianto di recupero, in sé, non attribuisce alcuna utilità immediata e diretta a favore del Comune, anzitutto con riguardo alla sua partecipazione alla predetta conferenza, in cui pure ad esempio abbia espresso parere sfavorevole. I comuni non assumono la posizione di contro - interessati neppure se abbiano esposto un parere negativo, poiché la loro partecipazione è finalizzata alla miglior tutela dell’interesse pubblico di cui è portatrice l’autorità emanante e non già alla tutela di un interesse diverso e personale degli stessi[12]. La giurisprudenza perviene alla medesima conclusione anche quando si qualifichi lo stesso Comune come soggetto esponenziale degli interessi ambientali correlati al proprio territorio, poiché, anche in tale veste, non sarebbe possibile ravvisare quale utilità lo individuerebbe come titolare d’un interesse qualificato alla conservazione del provvedimento impugnato, né l’eventuale annullamento dello stesso provvedimento negativo determinerebbe di per sé all’Ente alcun pregiudizio. La giurisprudenza al massimo riconosce all’autorità che abbia svolto una funzione consultiva l’interesse semplice alla mera conservazione dell’atto emanato in conformità al suo parere[13].
Con riguardo alla possibilità per il Comune di impugnare le decisioni mediante le quali la Giunta regionale rilascia il provvedimento autorizzativo, quando in sede di conferenza di servizi abbia espresso parere negativo, la giurisprudenza[14] ritiene che la partecipazione del sindaco alla conferenza di servizi ex art. 27 del d. lgs. n. 22 del 1997 non esclude la legittimazione ad impugnare il provvedimento terminale del procedimento. Detta conferenza ha infatti solo compiti istruttori e non decisori, come emerge dal 3° comma, per il quale la conferenza, operata la valutazione dei progetti e acquisiti tutti gli elementi di valutazione del progetto con le esigenze ambientali e territoriali, compresa la valutazione di compatibilità ambientale, “trasmette le proprie conclusioni con i relativi atti alla giunta regionale (nella specie alla Giunta provinciale)”, per l’approvazione dei progetti stessi. In ogni caso, il soggetto dissenziente alla conferenza dei servizi trova nel ricorso giurisdizionale lo strumento per la tutela degli interessi che assume lesi dal provvedimento emanato in base alle risultanze della conferenza. Gli enti partecipanti alla detta conferenza non consumano i loro poteri in tale sede, ma conservano comunque la facoltà di opporsi giudizialmente a decisioni ritenute lesive degli interessi di cui sono portatori. In tal modo, un Comune che pur avendo partecipato alla conferenza dei servizi dissenta dalle scelte finali della Regione, è legittimato a contestarle in via giurisdizionale sia per ragioni di carattere formale, sia sostanziale, in quanto, a giudizio di detta giurisprudenza, l'aver espresso il parere in seno alla conferenza di servizi non incide sulla legittimazione del ricorso, bensì sull'ammissibilità dei singoli motivi di ricorso, anche perché ben potrebbero sopravvenire motivi nuovi tali da indurre l'Ente a motivatamente dissolvere ciò cui prima aveva consentito[15].
Non sono mancate in passato soluzioni di segno opposto. Un’altra parte della giurisprudenza, infatti, ha stabilito che, partecipando al procedimento previsto per contemperare esigenze e prospettive diversificate in funzione dell'unitario interesse ad una corretta localizzazione e realizzazione degli impianti di smaltimento, l'ente locale minore ha concorso alla cura dell'interesse pubblico, e la sola circostanza che il suo punto di vista sia rimasto soccombente non lo colloca tra i soggetti lesi dal provvedimento finale. Rispetto a quest' ultimo, il Comune è rimasto amministrazione attiva, e per ciò stesso non può invocare dal giudice amministrativo la tutela del suo interesse che pretende leso dal provvedimento alla cui assunzione ha concorso. Questa stessa giurisprudenza ha specificato che il rapporto fra Comuni partecipanti alla conferenza di servizi e Regione non è un rapporto intersoggettivo ove sia configurabile una soggezione alla decisione finale, nel senso che si possa ravvisare quella necessaria alterità fra amministrazione deliberante e destinatario del provvedimento che è richiesta perché, dalla contrapposizione fra esercizio del potere da un lato ed interesse personale ed individuale dall'altro, emerga spazio per un ricorso giurisdizionale amministrativo[16].
Analoga frammentazione
giurisprudenziale, la si scorge
anche con
riferimento al tema della
legittimazione ad causam delle
associazioni ambientaliste. Dalla lettura delle soluzioni offerte in
giurisprudenza, sembra veramente impossibile trovare parametri univoci
di
riferimento[17].
Secondo una parte della giurisprudenza, alle associazioni ambientaliste sarebbe consentito agire in giudizio a salvaguardia degli interessi diffusi in materia ambientale a una duplice condizione:
- che si tratti di associazione riconosciuta con apposito decreto ministeriale, in primis;
- che quindi l'interesse ambientale in concreto tutelato non sia generico, ma sia fondato sull'individuazione di una tutela derivante da una fonte normativa di primo livello, che consenta di identificare i beni degni di particolare protezione senza alcuna incertezza[18].
Un’altra
parte della
giurisprudenza, riconosce pacificamente legittimazione ad agire delle
associazioni che hanno come fine statutario la protezione dell'ambiente, a prescindere dal fatto
che si tratti o meno
di associazione riconosciuta o di articolazione territoriale di
associazione
nazionale, poiché il criterio del riconoscimento
ministeriale, introdotto dalla
L. n. 349 del 1986, non
ha inteso
affatto sostituirsi ai criteri precedentemente elaborati dalla
giurisprudenza
in materia di legittimazione processuale per la tutela degli interessi
diffusi.
A tale riguardo, secondo questa giurisprudenza, rimangono pienamente
validi ed
operanti i precedenti criteri, ed in particolare quello del fine
statutario di
protezione ambientale, la cui verifica è affidata, caso per
caso, al giudice. Dovendosi
riconoscere, pertanto, legittimazione ad agire a
tutela dell'ambiente anche alle associazioni regionali che abbiano
quale fine
statutario la protezione dell'ambiente nella zona oggetto di tutela,
anche se
non ricomprese nell'elenco delle associazioni riconosciute dall'art. 13
l. n.
349 dell'8 luglio 1986, poiché tale norma ha creato un
ulteriore criterio di
legittimazione che si è aggiunto, e non sostituito, a quelli
in precedenza
elaborati dalla giurisprudenza[19]
e sempre che lo statuto conferisca anche alle
articolazioni periferiche
il potere di agire in giudizio e di rappresentare anche processualmente
l'ente, o il giudice
accerti un forte collegamento tra la
zona interessata dal provvedimento impugnato
e le finalità statutarie dell'associazione locale[20].
Significativa
è una recente sentenza del TAR Liguria[21],
che, in materia di
legittimazione delle associazioni ambientaliste ad impugnare le
Conferenze di
servizi decisorie del Ministero in tema di bonifiche, ha
riconosciuto in capo a un ente privato, pur
non compreso tra le associazioni individuate ai sensi
dell’art. 13
della L. 349/1986, la legittimazione a ricorrere in giudizio,
indipendentemente
dalla sua specifica natura giuridica, determinando quali sono le
condizioni
legittimanti l’azione:
a)
il perseguimento in modo non
occasionale di
obiettivi di tutela
ambientale;
b)
un
adeguato grado di stabilità;
c)
un sufficiente livello di
rappresentatività;
d)
un area
di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il
bene a fruizione
collettiva che si assume leso.
Ciò, in forza del principio della
sussidiarietà orizzontale ( art. 3, comma 5 del D. LGS. n.
267/2000), elevato a
rango di principio ordinamentale con la recente modifica del Titolo V della Costituzione (v.
art. 118, ultimo
comma, legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), ribadito
dall’art. 7, comma
1 della legge 5 giugno 2003, n. 131, per il quale, il parametro di
riparto di
funzione tra ente istituzionale e privati è nel senso che i
pubblici poteri
devono agire preferenzialmente tramite il coinvolgimento diretto dei
singoli e
dei gruppi sociali liberamente costituiti, in quanto chiamati in prima
persona
a cogestire la funzione amministrativa secondo il principio
costituzionale
della sussidiarietà orizzontale.
In verità, nonostante alcune pronunce, è invece condivisa e tuttora prevalente l'opinione per cui le singole sezioni e branche territoriali delle varie associazioni, ancorché riconosciute, non siano legittimate in sede amministrativa[22].
[1] Consiglio di Stato, Sez. V, 17/2/2004 n. 609
[2] TAR Abruzzi,
26-11-2002 n. 712
[3]
T.A.R. Piemonte, Sez. II, 30 novembre 2001, n.
2213
[4]
Tar Lombardia Brescia, sent. n. 836 del
9/6/2003
[5]
Tar
Lombardia Brescia n.
304 11 aprile 2005
[6]
T.A.R. Lombardia Milano, Sez. I, 27 gennaio
1998, n. 97
[7] TAR Puglia, Lecce. , 21 Dicembre 2000, n. 2949 sez. II
[8]
Sulla natura della
conferenza di servizi ex art. 27 D.Lgs.
22/1997, v.
Serenella Beltrame – “La partecipazione del Comune alla
conferenza di servizi, ex
art.
27 D.Lgs. 22/1997: profili strutturali e funzionali” in Riv. giur.
ambiente 2001, 2, 652
[9]
Consiglio di Stato Sezioni V Sentenza n. 3451
del 28 maggio 2004
[10] TAR CALABRIA, Catanzaro, Sez. I - 7 giugno
2004, n. 1384
[11]
T.A.R. VENETO, Sezione III - 5 maggio 2004,
sentenza n. 1353
[12]
Consiglio di Stato, IV, 28 novembre 1994, n.
968
[13]
C.d.S., V, 2 marzo 1999, n. 211
[14]
CONSIGLIO DI
STATO, Sez. V - 20
febbraio 2006 sentenza n. 695
[15]
T.A.R. Veneto, Venezia, 24 luglio 1996, cit.; nello stesso senso vedi T.A.R.
Veneto, Venezia, 21
febbraio 1996, n. 218
[16]
T.A.R. Piemonte, Sez.
II, 7
ottobre 1991
[17]
A.Maestroni,
La
legittimazione delle associazioni
ambientaliste all'impugnazione di atti urbanistici con valenza
ambientale: il
contrasto interno al Consiglio di Stato e il criterio dello stabile
collegamento come fonte di legittimazione attiva di associazioni e
privati, Riv. giur. ambiente
2002
[18] Consiglio di Stato , 11 Luglio 2001, n. 3878 sez. IV
[19] Consiglio Stato, sez. VI, 26 luglio 2001, n. 4123
[20] Cons. Stato, 17 marzo 2000, Sez. VI, n. 1414
[21]
TAR Liguria, Sez.
I, 18 marzo
2004, Sent. 267
[22]
T.A.R.
Lombardia, Brescia, 30 ottobre
1989, n. 995;T.A.R. Emilia Romagna, Sez. I, 18 febbraio 1993, n. 57;
T.A.R.
Calabria, Catanzaro, 14 giugno 1988, n. 266;
Consiglio di
Stato Sez. V sent. 5136 del 17
luglio 2004.
A.Maestroni,
La
legittimazione delle associazioni ambientaliste all'impugnazione di
atti
urbanistici con valenza ambientale: il contrasto interno al Consiglio
di Stato
e il criterio dello stabile collegamento come fonte di legittimazione
attiva di
associazioni e privati, Riv.
giur. ambiente 2002