Cass. Sez. III n. 11617 del 20 marzo 2024 (CC 6 mar 2024)
Pres. Ramacci Est. Galanti Ric. Ventrone 
Ecodelitti.Profitto e sequestro a fine di confisca nel delitto di cui all'art. 452-quaterdecies c.p.

La nozione di profitto del reato di cui all’articolo 452-quaterdecies cod. pen. non può essere ridotta al solo «utile netto», dovendosi invece ritenere, in conformità con la natura «riequilibratrice» di tale confisca (ed a differenza di quella dello «strumento del reato»), riferita a tutto ciò che consegue in via immediata e diretta al reato, senza considerare gli eventuali costi sostenuti, la cui detrazione sottrarrebbe il colpevole al rischio economico del reato.  In tema di sequestro finalizzato alla confisca del profitto del delitto di cui all’articolo 452-quaterdecies cod. pen., ove la natura della fattispecie concreta e dei rapporti economici ad essa sottostanti non consenta d’individuare la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente, o la sua esatta quantificazione, il sequestro preventivo deve essere disposto per l’intero importo del profitto nei confronti di ciascuno, pur senza alcuna duplicazione e nel rispetto dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti.


RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 19/09/2023, il Tribunale del riesame di Potenza rigettava l’appello proposto dalla difesa dell’imputato avverso il provvedimento con cui il GIP di Potenza, in data 05/06/2023, aveva rigettato l’istanza di revoca del sequestro preventivo di € 250.232,80, disposto dal Tribunale di Potenza in relazione all’articolo 452-quaterdecies cod. pen., aggravato dagli articoli 112 e 416-bis.1 cod. pen.. 
In particolare, il Ventrone Lazzaro, quale socio della Veca Sud srl, incaricata del trasporto di rifiuti, era imputato di avere illecitamente trasportato per il successivo smaltimento illecito, rifiuti provenienti dalle attività di cartiera e fanghi di depurazione.

2. Avverso l’ordinanza propone ricorso per cassazione l’imputato.
2.1. Con il primo motivo, lamenta violazione dell’articolo 321 cod. proc. pen. e motivazione apparente in ordine al fumus commissi delicti con riferimento alle risultanze probatorie del p.p. n. 5695/2014 R.G.N.R. della D.D.A. di Firenze ed ai provvedimenti adottati dal GIP di Firenze nei mesi di settembre e ottobre 2016.
Evidenzia il ricorrente come il presente procedimento costituisca lo stralcio di uno dei tre filoni in cui originariamente si articolava il procedimento toscano, scaturito ed iscritto in epoca successiva rispetto ai precedenti (marzo 2016) e non oggetto di ordinanza applicativa da parte del GIP di Firenze nel settembre 2016.
La “separazione” dei vari filoni si ebbe solamente in sede di udienza preliminare, quando il GUP trasferì a Potenza il presente filone accogliendo l’eccezione di incompetenza avanzata dalla Difesa.
Lamenta, ancora, il ricorrente, la contraddittorietà della motivazione, che da un lato sostiene la tesi della “autonomia” dei vari procedimenti, e dall’altro, ritiene la rilevanza delle prove dell’un filone sugli altri in ragione della loro connessione logica e processuale.
Il GIP di Firenze si esprimeva in senso liberatorio con riferimento alla responsabilità del trasportatore, da escludersi quando non emerge (come nel caso di specie) ictu oculi la consapevolezza di trasportare rifiuti che per natura fossero totalmente diversi da quelli che aveva accettato.
2.2. Con il secondo motivo, censura la ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all’articolo 416-bis.1 cod. pen., in relazione al quale si lamenta il «travisamento della complessiva vicenda giudiziaria».
Il GIP fiorentino, in riferimento ai filoni rimessi alla sua cognizione, ma con valutazione evidentemente a carattere “trasversale”, ebbe infatti a ritenere non sussistente la circostanza aggravante di cui all’articolo 461-bis.1 cod. pen., in quanto la presunta “contiguità” della VECA SUD srl con famiglie camorriste (clan dei Casalesi) era risalente (così come le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, utilizzate anche nel presente filone) e precedente all’ingresso del Ventrone nella compagine sociale.
Gli elementi posti all’attenzione del giudice potentino sono esattamente gli stessi sottoposti all’attenzione del giudice toscano; la contestazione è la stessa; finanche la lista testi depositata dal pubblico ministero è identica.
Ulteriormente viziata è la motivazione con cui si attribuisce rilevanza alle dichiarazioni dei pentiti.
2.3. Con il terzo motivo, lamenta violazione dell’articolo 193 d. lgs. 152/2006, in riferimento alla responsabilità del trasportatore, nei termini dianzi evidenziati al punto 2.1.
Contesta, il ricorrente, la lettura fornita dal Tribunale del riesame della conversazione n. 2723 del 27710/2014, interlocutore Del Carlo Matteo, citata a pag. 10 dell’ordinanza.
Evidenzia come nel caso di specie, usando l’ordinaria diligenza, richiesta dalla normativa in materia di rifiuti, non sarebbe stato possibile valutare la difformità trai rifiuti trasportati e quelli che potevano trovare destino negli impianti di trattamento.
2.4. Con il quarto motivo, lamenta violazione dell’articolo 321 cod. proc. pen. in riferimento alla quantificazione del profitto. 
Evidenzia in proposito:
    I. che erra il Tribunale del riesame a ritenere che i dati forniti dalla difesa sul quantum di rifiuti trasportati nei periodi in contestazione fosse confuso;
II. come non sia corretto procedere alla quantificazione dello stesso in riferimento al ricavo “lordo”, dovendosi invece depurare tale dato delle spese sostenute (ricavo “netto”), pena l’impoverimento dell’imputato rispetto alla fase ante delictum. 
Lo stesso GIP potentino ebbe ad evidenziare come non fosse possibile, in relazione al filone in parola, quantificare il profitto conseguito, essendo impossibile stabilire a quale parte dei profitti abbia materialmente concorso.
III. che il provvedimento non dà conto del rispetto del principio di «proporzionalità», che sottende tutte le misure ablative.
2.5. Con il quinto motivo censura violazione di legge sul requisito del periculum in mora. La doglianza è articolata in diversi punti:
I. l’ordinanza è immotivata in riferimento alla liquidazione delle polizze, in cui i giudici leggono una volontà di sottrarre il bene a terzi, laddove la volontà dell’imputato era quello di salvaguardare il patrimonio della società, in ciò risultando la motivazione palesemente illogica e contrastante con le emergenze di fatto, che testimoniano che la società, fino alla liquidazione, non ha mai avuto pendenze insolute.
Censura anche la (asseritamente) indebita equiparazione operata dal Tribunale del riesame tra Eurovita e lo Stato, da cui dedurre la volontà espoliativa, trattandosi in un caso un rapporto inter privatos, nell’altro con lo Stato.
II.  Contesta poi l’ordinanza laddove nella operazione di liquidazione delle polizze vede una volontà di rendere liquido il patrimonio della società, avendo l’imputato fatto richiesta all’istituto di credito di fargli conoscere le migliori opportunità di preservare e reinvestire il quantum liquidato.
III. Con l’ultimo profilo si contesta la ordinanza laddove ritiene che la capienza del Ventrone fosse meramente “potenziale”, in quanto frutto della futura liquidazione della polizza, avendo il Ventrone nella sua disponibilità l’importo di circa 1.250.000 euro, non oggetto di sequestro penale.

3. In data 29 febbraio 2024, gli Avv. Sergio Spagnolo del Foro di Milano e  Fabio Celli del Foro di Pistoia, quali difensori di fiducia del signor Lazzaro Ventrone, depositavano memoria di replica alle conclusioni del P.G., in cui insistevano per l’accoglimento del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO 
 
    1. Il ricorso è inammissibile.

2. Preliminarmente, il Collegio evidenzia come, a mente dell’art. 325 cod. proc. pen., il sindacato del giudice di legittimità avverso provvedimenti cautelari reali è consentito soltanto per motivi attinenti alla violazione di legge nella cui nozione rientrano, oltre agli errores in iudicando o in procedendo, anche i vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza, come tale apparente e, pertanto, inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal Giudice (Sez. 6, n. 6589 del 10/01/2013, Gabriele, Rv. 254893; Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009, Bosi, Rv. 245093).
Sono, conseguentemente, inammissibili tutti i motivi che, direttamente o sotto l’ombrello della violazione di legge o della assenza o mera apparenza della motivazione, intendono censurare la tenuta logica del provvedimento impugnato (come si vedrà meglio in appresso).

3. Ciò premesso, il primo motivo di ricorso, che concerne il fumus commissi delicti, è inammissibile sotto diversi profili.
3.1. In primo luogo, esso è inammissibile in quanto la questione del fumus boni juris è preclusa dall’avvenuto esercizio dell’azione penale.
Come correttamente evidenziato dal Procuratore generale, il Collegio evidenzia che il procedimento penale in ordine al quale è stato disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca si trova attualmente in fase dibattimentale, anche con riferimento alla posizione del Ventrone (perciò imputato), con tutte le conseguenze in termini di effettività dell’accertamento del fumus boni iuris contestato. Ed infatti, questa Corte ritiene (Sez. 3, n. 35715 del 17/09/2020, Riccardi, Rv. 280694 – 03) che, in tema di riesame del provvedimento che dispone il sequestro preventivo, «l'emissione del decreto di rinvio a giudizio o del decreto che dispone il giudizio immediato preclude la proponibilità della questione relativa alla sussistenza del fumus commissi delicti, essendovi, in tali casi, una preventiva verifica giurisdizionale sulla consistenza del fondamento dell'accusa».
 3.2. In secondo luogo, il motivo è inammissibile avendo l’odierno ricorrente rinunciato al proposto riesame.
Sul punto, se è vero che le Sezioni Unite della Corte (Sez. U, n. 46201 del 31/05/2018, Edil Noemi Group srl, Rv. 274092 – 01) hanno ritenuto che «la mancata tempestiva proposizione, da parte dell’interessato, della richiesta di riesame avverso il provvedimento applicativo di una misura cautelare reale non ne preclude la revoca per la mancanza delle condizioni di applicabilità, neanche in assenza di fatti sopravvenuti; ne consegue che è ammissibile l’appello cautelare avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di revoca, non potendosi attribuire alla mancata attivazione del riesame la valenza di una rinuncia all’impugnazione», tuttavia è stato successivamente precisato (Sez. 2, n. 12364 del 13/01/2023, Botter, Rv. 284475 – 01) che «la rinuncia al riesame proposto avverso il provvedimento di sequestro preventivo preclude la possibilità di svolgere, attraverso l’appello, censure attinenti ai presupposti genetici della misura». 
Ed infatti, in tale circostanza, la Corte ha precisato (con motivazione che il Collegio condivide e ribadisce) che il concetto di rinuncia all’impugnazione equivale sostanzialmente ad un nolo contendere sulla censura a proposito dei presupposti genetici della misura, proprio perché lo strumento del riesame, attesa la sua natura integralmente devolutiva, equivale all’attivazione di un meccanismo che tende ad un controllo giurisdizionale di tipo «pieno» proprio su quei presupposti. 
Ne consegue che la rinunzia a quello specifico rimedio non può non ridondare sulla preclusione a riproporre censure attinenti a quei presupposti genetici la cui sussistenza deve dunque ritenersi preclusa. 
Si tratta, in sostanza, di una «abdicazione» al tipico rimedio processuale intervenuta dopo la sua attivazione.
3.3. Il ricorso è, altresì, inammissibile in quanto contesta non già la «esistenza» di una motivazione, bensì la sua mera «apparenza», di fatto insussistente in presenza di un percorso motivazionale relativo alla nozione di «alterità» (o meno) dei due procedimenti, tutt’altro che apparente o mancante, ma che al contrario risulta conforme alla giurisprudenza della Corte (Sez. 3, n. 43193 del 03/05/2018, Lazzi, Rv. 273944 - 01), secondo cui, in tema di revoca delle misure cautelari, non può costituire «elemento nuovo», idoneo a rimuovere l’effetto preclusivo provocato dal c.d. «giudicato cautelare», neppure la «riunione» (neppure esistente nel caso di specie), nella fase delle indagini preliminari, del procedimento in cui è stata adottata la misura con quello in cui è intervenuta la una decisione della Corte che muta indirizzo giurisprudenziale, posta la natura meramente organizzativa del provvedimento di riunione, privo di qualsiasi stabilità e significatività ai fini del mutamento del quadro accusatorio.
Il motivo è quindi, per tutti i motivi anzidetti, inammissibile.

4. Il secondo motivo è del pari inammissibile per le ragioni enunciate al paragrafo 3.3, che precede.
A pag. 7 dell’ordinanza impugnata, i giudici precisano che nel presente procedimento è stato contestato al Ventrone un reato non oggetto del vaglio del GIP di Firenze, per cui l’aggravante dell’agevolazione mafiosa non può essere elisa sulla base delle sue considerazioni.
Anche in questo caso, il ricorrente contesta una motivazione esistente, e non apparente; inoltre, anche la sussistenza dell’aggravante non può essere rimessa in discussione per effetto della rinuncia al ricorso, come visto al paragrafo che precede.
Il Collegio aggiunge che, in ogni caso, il ricorrente non ha interesse a coltivare tale motivo, posto che la confisca del profitto è obbligatoria per il delitto di cui all’articolo 452-quaterdecies, indipendentemente dalla sussistenza o meno dell’aggravante di cui all’articolo 416-bis.1 cod. pen.. 
Il motivo è quindi inammissibile anche sotto il profilo della carenza di interesse.

5. Il terzo motivo è doppiamente inammissibile.
5.1. In primo luogo, ancora una volta la censura contesta, apertis verbis, la motivazione offerta dai giudici del riesame, lamentando persino una scorretta valutazione del contenuto di una intercettazione telefonica, e tenta di rimettere in discussione il fumus commissi delicti, stavolta sotto il profilo dell’elemento psicologico del reato, risultando di talchè doppiamente inammissibile.
5.2. Inoltre, questa Corte (Sez. 3, n. 13363 del 28/02/2012, Brambilla, n.m.) ha in via generale chiarito che  dall’esame degli artt. 188, 193 e ss. del d.lgs n. 152/2006 emerge che tutti i soggetti che intervengono nel circuito della gestione dei rifiuti, sono responsabili non solo della regolarità delle operazioni da essi stessi posti in essere, ma anche di quelle dei soggetti che precedono o seguono il loro intervento mediante l’accertamento della conformità dei rifiuti a quanto dichiarato dal produttore o dal trasportatore, sia pure tramite la verifica della regolarità degli appositi formulari, nonché´ la verifica del possesso delle prescritte autorizzazioni da parte del soggetto al quale i rifiuti sono conferiti per il successivo smaltimento.
Vero è che l’art. 193, così come modificato dal d.lgs. n. 116/2020, comma 17, stabilisce che «nella compilazione del formulario di identificazione, ogni operatore è responsabile delle informazioni inserite e sottoscritte nella parte di propria competenza. Il trasportatore non è responsabile per quanto indicato nel formulario di identificazione dal produttore o dal detentore dei rifiuti e per le eventuali difformità tra la descrizione dei rifiuti e la loro effettiva natura e consistenza, fatta eccezione per le difformità riscontrabili in base alla comune diligenza»; tuttavia, nel caso di specie, a fronte di analoga censura proposta con il riesame, il Tribunale potentino argomenta la correità del Ventrone non già sulla base di argomentazioni di diritto, bensì alla luce del tenore di alcune conversazioni intercettate (pag. 10 ordinanza), elemento non suscettibile di rivalutazione in sede di legittimità.
Il motivo è pertanto inammissibile.

6. Il quarto motivo, che si articola in diverse sotto-censure, è in parte inammissibile e in parte manifestamente infondato.
6.1. Il primo profilo di doglianza contesta la motivazione offerta dall’ordinanza impugnata, ed è pertanto inammissibile per quanto sopra evidenziato.
6.2. Il secondo profilo di doglianza è manifestamente infondato. 
La Corte ha osservato (Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Impianti, Rv. 239924 – 01) che il termine «confisca» è utilizzato, nelle varie fattispecie in cui è inserito, in maniera meramente enunciativa, assumendo quindi un’ampia «latitudine semantica», da colmare in via interpretativa (in dottrina si parla, infatti, di nozione «polisemica»).
Né, tanto meno, la normativa contiene una specificazione del tipo di profitto, in termini di «profitto lordo» o «profitto netto», concetti, questi, sui quali s’incentra la doglianza del ricorrente.
La dottrina, dal canto suo, ritiene che la nozione di «profitto confiscabile» debba essere determinata con riferimento alle differenti forme di confisca presenti nel nostro ordinamento, salvo poi circoscriverla ulteriormente in considerazione della precipua funzione di politica criminale perseguita dalla specifica forma di confisca in considerazione.
L’opinione largamente dominante ritiene che la confisca del profitto del reato, piuttosto che perseguire una finalità repressiva, risponde ad una finalità di «compensazione» o di «riequilibrio» dell’ordine economico violato, riportando la situazione patrimoniale del reo nelle condizioni in cui si trovava prima della consumazione del reato, e così impedendo al medesimo di godere del frutto della sua attività, in base al principio fondamentale che il crimine non rappresenta in uno Stato di diritto un legittimo titolo di acquisto di beni.
Tale opinione è stata confermata da questa Corte nella sua massima composizione (Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264436), la quale ha chiarito che il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell’illecito e la relativa confisca «ha la finalità di ripristinare lo status quo ante così da sterilizzare, in funzione essenzialmente preventiva, tutte le utilità che il reato, a prescindere dalle relative forme e dal relativo titolo, può aver prodotto in capo al suo autore».
La pronuncia è stata resa in riferimento alla confisca di cui all’articolo 19 d. lgs. 231/2001, ma la Corte ritiene che, proprio perché ciò che deve essere confiscato è il «profitto del reato» in generale, non vi è alcuna ragione che giustifichi, in relazione agli enti, l’adozione di una nozione di profitto di reato diversa da quella di cui all’art. 240 c.p. (v. Sez. 2, Ord. n. 4018 del 23/01/2008, Fisia Impianti).
In entrambi i casi, infatti, l’obiettivo perseguito dal legislatore è quello di privare l’autore del reato dei vantaggi economici che derivano dal reato (Sez. 6, n. 34290 del 17/05/2023, Calvaresi, Rv. 285175 - 01); in tal modo l’ordinamento viene a sottrarre al circuito economico-sociale legale le cose ricollegabili all’attività criminale e, come tali, a vario titolo, potenzialmente criminogene (come osservato in dottrina, la confisca del profitto viene a condurre l’imputato nella «situazione zero»).
Tale funzione «riequilibratrice» dello status quo economico antecedente alla consumazione del reato della confisca del profitto, contrasta con la tesi del profitto – sostenuta dal ricorrente - quale «utile netto». 
La citata sentenza Fisia Impianti ha in proposito precisato che, nel linguaggio penalistico, il termine «profitto» ha assunto sempre un significato oggettivamente più ampio rispetto a quello economico o aziendalistico, non essendo stato mai inteso come espressione di una grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti positive e negative del reddito.
Secondo la Corte, il criterio del «profitto netto» finirebbe per riversare sullo Stato il rischio di esito negativo del reato e consentirebbe al responsabile di sottrarsi al «rischio economico del reato», mettendo a repentaglio l’applicabilità della misura nelle ipotesi di reati «in perdita» (Sez. 2, Ord. n. 4018 del 23/01/2008, Fisia Impianti, cit.).
Da tale osservazione discende la conclusione secondo cui non devono essere detratti dal profitto del reato i costi sostenuti dal reo per la realizzazione dell'attività criminosa, pur intrinsecamente leciti, in quanto, ai fini della determinazione del profitto, non sono utilizzabili parametri valutativi di tipo aziendalistico, come il criterio del profitto netto (Sez. 3, n. 4885 del 04/12/2018, dep. 2019, Salamita società cooperativa a.r.l., Rv. 274851 - 02).
Tale conclusione appare attraversare trasversalmente tutta l’area del diritto penale. 
Questa Corte ha infatti ritenuto (in via meramente esemplificativa):
- in tema di cessione di sostanze stupefacenti, che è profitto del reato la somma ricavata dalla vendita della droga (Sez. 6, n. 6131 del 10/03/1994, Tomasello, Rv. 199714), al lordo di quanto speso per acquistare la droga poi rivenduta; 
- in tema di lottizzazione abusiva, che sono profitto del reato le somme ricavate dalla vendita dei terreni lottizzati abusivamente, senza che vengano in considerazione le spese sostenute per la realizzazione (Sez. 3, n. 1630 del 15/10/1984, Castaldo, Rv. 166552); 
- in materia di insider trading - che aveva dato luogo ad un’operazione di compravendita di azioni da cui erano derivati ricavi di gran lunga superiori a quelli conseguibili attraverso una normale cessione - si è ritenuto legittimo il sequestro per equivalente anche con riferimento al valore corrispondente alle somme trattenute dalle società acquirenti a titolo di «retrocessione» (Sez. 6, n. 24558 del 22/05/2013, Mezzini, Rv. 256812 - 01). 
In tutte le anzidette ipotesi non sono stati ammessi in deduzione, rispetto alla somma da confiscare, i costi sostenuti, a conferma della correttezza della interpretazione sposata dalla Corte, che il Collegio intende ribadire. 
6.3. Tale soluzione ermeneutica trova conferme anche nella normativa sovranazionale.
L’articolo 2 della direttiva 2014/42/UE, relativa a sequestro e confisca (c.d. «seize and freeze»), che trova applicazione negli Stati membri anche per i reati non inclusi nel catalogo di cui all’articolo 3 (v. il 14° considerato, o whereas, secondo cui « occorre che … il concetto di «provento» quale definito nella presente direttiva sia interpretato in modo simile con riferimento ai reati non contemplati dalla presente direttiva), definisce il provento del reato come «proceed» (e non come «profit») consistente in «ogni vantaggio economico derivato, direttamente o indirettamente, da reati».
Esso, prosegue la norma, «può consistere in qualsiasi bene e include ogni successivo reinvestimento o trasformazione di proventi diretti e qualsiasi vantaggio economicamente valutabile», in ciò manifestando una chiara preferenza per un concetto di provento che non sia limitato all’utile netto ma abbia una latitudine più vasta possibile.
6.4. Si deve pertanto concludere nel senso che la nozione di profitto del reato di cui all’articolo 452-quaterdecies cod. pen. non può essere ridotta al solo «utile netto», dovendosi invece ritenere, in conformità con la natura «riequilibratrice» di tale confisca (ed a differenza di quella dello «strumento del reato»), riferita a tutto ciò che consegue in via immediata e diretta al reato, senza considerare gli eventuali costi sostenuti, la cui detrazione sottrarrebbe il colpevole al rischio economico del reato.
6.5. Il ricorrente lamenta, inoltre, la difficoltà, se non l’impossibilità, evidenziata dal GIP fiorentino, di stabilire a quale parte dei profitti abbia materialmente concorso.
La deduzione non coglie nel segno.
Ed infatti, a fronte di un illecito (anche solo «eventualmente») plurisoggettivo deve applicarsi il principio solidaristico che informa la disciplina del concorso nel reato e che implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente. 
Tale conclusione trova giustificazione, a livello dogmatico, ove si osservi che, per la teoria «monistica» cui è ispirata la disciplina del concorso di persone nel reato, ciascun concorrente, la cui attività si sia inserita con efficienza causale nel determinismo produttivo dell’evento, risponde anche degli atti posti in essere dagli altri compartecipi e dell’evento delittuoso nella sua globalità, che viene considerato come l’effetto dell’azione combinata di tutti. 
Principio solidaristico, questo, che si riflette anche come «solidarietà nella pena» (Sez. 2, n. 22073 del 17/03/2023, Fiodigigli, Rv. 284740 - 01) e, si ritiene, nelle misure di sicurezza patrimoniali.
La suddetta tesi è stata recepita dalla giurisprudenza di questa Corte nella citata sentenza Fisia Impianti, secondo cui «nel caso di illecito plurisoggettivo deve applicarsi il principio solidaristico che implica l’imputazione dell’intera azione e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e pertanto, una volta perduta l’individualità storica del profitto illecito, la sua confisca e il sequestro preventivo ad essa finalizzato possono interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato, ma l’espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel “quantum” l’ammontare complessivo dello stesso».
Questa Corte ha anche ritenuto che, in caso di pluralità di indagati, il sequestro preventivo funzionale alla confisca non può eccedere per ciascuno dei concorrenti la misura della quota di profitto del reato a lui attribuibile, sempre che, tuttavia, tale quota sia individuata o risulti chiaramente individuabile. Tuttavia, «ove la natura della fattispecie concreta e dei rapporti economici ad essa sottostanti non consenta d’individuare, allo stato degli atti, la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente o la sua esatta quantificazione, il sequestro preventivo deve essere disposto per l’intero importo del profitto nei confronti di ciascuno, logicamente senza alcuna duplicazione e nel rispetto dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti» (così, testualmente, Sez. U., n. 26654/2008, Fisia Impianti, cit.), logicamente senza alcuna duplicazione e nel rispetto dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti (Sez. 6, n. 6607 del 21/10/2020, dep. 2021, Venuti, Rv. 281046 - 01).
Deve quindi concludersi nel senso che, in tema di sequestro finalizzato alla confisca del profitto del delitto di cui all’articolo 452-quaterdecies cod. pen., ove la natura della fattispecie concreta e dei rapporti economici ad essa sottostanti non consenta d’individuare la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente, o la sua esatta quantificazione, il sequestro preventivo deve essere disposto per l’intero importo del profitto nei confronti di ciascuno, pur senza alcuna duplicazione e nel rispetto dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti.
6.6. Quanto al terzo aspetto censurato, il mancato rispetto del principio di proporzionalità della misura, esso è inammissibile in quanto risulta dedotto solo in Cassazione, non avendo il ricorrente contestato il riepilogo dei motivi di appello operato dal Tribunale del riesame.
Esso, quindi, è inammissibile per tardività ai sensi dell’articolo 606, comma 3, cod. proc. pen..
Ad ogni buon conto, esso è anche manifestamente infondato.
Come evidenziato dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo (sent. 28/06/2018, G.I.E.M. s.r.l. e altri c. Italia), l’articolo 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla CEDU richiede, per qualsiasi ingerenza nella sfera privata (e anche patrimoniale) di un soggetto, un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (Jahn e altri c. Germania [GC], nn. 46720/99, 72203/01 e 72552/01, §§ 83-95, CEDU 2005-VI). 
Questo giusto equilibrio è rotto se la persona interessata deve sostenere un onere eccessivo ed esagerato (Sporrong e Lönnroth sopra citata, §§ 69-74, e Maggio e altri c. Italia, nn. 46286/09, 52851/08, 53727/08, 54486/08 e 56001/08, § 57, 31 maggio 2011).
Nel caso in esame, l’applicazione del principio solidaristico non determina l’apprensione di somme superiori a quelle del complessivo profitto del reato, ciò che lederebbe il principio di proporzionalità, ma determina la mera possibilità di apprensione dell’intero profitto a carico di ciascuno dei concorrenti, nel rispetto dei canoni della solidarietà interna (v., sul punto, anche Sez. 2, n. 47066 del 03/10/2013, Pieracci, Rv. 257968 - 01).

7. Quanto al quinto motivo, i primi due profili di doglianza sono inammissibili in quanto, anche se formalmente volti a contestare il vizio di violazione di legge, sono evidentemente volti a censurare vizi di motivazione, di cui lamentano l’irragionevolezza, l’illogicità, la contraddittorietà con gli atti del procedimento, profili che, come dianzi evidenziato, non sono suscettibili di scrutinio da parte della Corte.
Quanto al terzo profilo, esso è inammissibile per genericità, non confrontandosi con il provvedimento impugnato, secondo cui le somme predette sarebbero costituite dallo svincolo, avvenuto nel mese di aprile 2023, delle polizze in parola, allo stato congelato, e non risultando altri elementi patrimoniali in capo al Ventrone.

8. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. 
Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza «versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 06/03/2024.