Classificazione e caratterizzazione dei rifiuti: quali orientamenti tecnici.

di Roberto MASTRACCI


Classificare e caratterizzare il rifiuto è sempre un operazione delicata e spesso complessa, che se sbagliata comporta una serie di conseguenze sia da un punto di vista civile che penale.
Tale attività compete al produttore del rifiuto che lo deve fare tenendo conto di quanto riportato nell’art. 184 del D.Lgs. 152/06 e s.m.i. e con riferimento al campo di applicazione previsto dall’art. 185.
La classificazione è di tipo giuridico (es. urbano o speciale, pericoloso o non pericoloso).
Poi il rifiuto deve essere caratterizzato per l’attribuzione degli HP nel caso di rifiuto pericoloso, per una ulteriore distinzione nel caso di c.d. voci specchio, ed infine ai fini del suo recupero o del suo smaltimento.

Nel presente articolo non si ripeteranno le considerazioni già fatte nel passato sulle difficoltà operative che a volte si incontrano per classificare un rifiuto e ancor di più per caratterizzarlo.
Si vuole invece prendere spunto dagli orientamenti della Corte di Giustizia Europea nella Sentenza del 28 Marzo 2019 da C-487/17 a C-489/17 e da quanto riportato dalla Commissione Ue nella Comunicazione del 09 Aprile 2018 per avere qualche riferimento in più e di percepire il modus operandi utilizzato a livello europeo.

Preliminarmente è opportuno ricordare che le analisi chimiche sono sempre state necessarie ad individuare l’idoneità del rifiuto ai fini del recupero o dello smaltimento dal D.P.R. 915/82 in poi.
Poi nel periodo di vigenza del suddetto D.P.R. le analisi chimiche servivano anche a classificare il rifiuto speciale o tossico e nocivo.
Con l’introduzione del D.Lgs. 22/97 c.d. Decreto Ronchi, le analisi non servivano più per la classificazione del rifiuto (i pericolosi erano inclusi nell’Allegato D), poi con la Decisione 2000/532/Ce come modificata dalla Decisione 2001/118/Ce, e con l’introduzione dei c.d. codici specchio le analisi chimiche sono tornate ad avere un ruolo determinante nella classificazione dei rifiuti. Saltando anni di polemiche, dubbi interpretativi e correnti di pensiero varie, arriviamo alla sentenza della corte di Giustizia Europea precedentemente richiamata.

Secondo la Corte di Giustizia Europea, con la sentenza del 28 Marzo 2019, il campionamento e l’analisi chimica devono offrire garanzie di efficacia e di rappresentatività.
Il detentore di un rifiuto, pur non essendo obbligato a verificare l’assenza di qualsiasi sostanza pericolosa nel rifiuto in esame, ha tuttavia l’obbligo di ricercare quelle che possano ragionevolmente trovarvisi, e non ha pertanto alcun margine di discrezionalità a tale riguardo. La caratterizzazione e la classificazione va fatta in base ai possibili inquinanti presenti nel rifiuto!

Più che di analisi chimica si tratta di una vera perizia tecnica, così da riuscire a classificare correttamente il rifiuto e ad individuare la destinazione idonea per il rifiuto in esame, ovvero se diretto a recupero o a smaltimento.
Inoltre, facendo riferimento alla rappresentatività del campionamento e dell’analisi chimica, come indicato nella Sentenza della Corte di Giustizia Europea del 28 marzo 2019, si fa riferimento alla dicitura riportata spesso sui certificati d’analisi: “questo rapporto di prova-certificato d’analisi riguarda esclusivamente il solo campione sottoposto ad analisi”. Tale dicitura è in contrasto con quanto indicato dalla Corte di Giustizia Europea, poiché sarebbe come a dire che i suddetti certificati non rappresentano in modo corretto la caratterizzazione del rifiuto ma solo la caratterizzazione del campione analizzato in laboratorio! Il certificato d’analisi deve essere rappresentativo di tutto il rifiuto. Quindi il commento finale riportato sul certificato, nel caso della suddetta dicitura, non può e non deve riferirsi a nessun lotto di rifiuto da recuperare o smaltire.


La Cassazione si era già espressa in passato in merito alla falsità dei certificati d’analisi; in un intervento di Pasquale Fimiani (Sostituto procuratore Generale presso la Corte di Cassazione) – Il falso nella classificazione dei rifiuti – si riporta quanto segue:

    “Al fine di escludere la configurabilità del falso è, quindi, necessario che il certificato dia conto delle ragioni delle scelte effettuate, cioè metta in condizione l’organo di controllo di conoscere il processo logico seguito e gli accertamenti compiuti …. Nella stessa prospettiva, l’analista che riceva il rifiuto con semplice richiesta di redazione di un rapporto di prova, al fine di evitarne la qualifica di falso, deve rappresentare chiaramente la parzialità della ricerca svolta, evitando locuzioni generiche ed equivoche – quali: “in base ai parametri analitici considerati (…), il campione può essere considerato quale (…) ” e “in base a quanto previsto dal decreto (…), la codifica relativa consigliata può essere la seguente (…) ” o “può essere codificato come (…) ” – che potrebbero far intendere, pur senza affermarlo, che egli è a conoscenza dei cicli produttivi e delle relative materie utilizzate ed ha effettuato accertamenti “in loco” con il campionamento dei rifiuti. Tale equivocità determina l’idoneità del documento a trarre in inganno i destinatari dei rifiuti e gli organi di controllo, con conseguente configurabilità del reato di falso.”

Quindi, per poter caratterizzare e classificare il rifiuto, compito fondamentale del produttore è quello di appoggiarsi alla figura del laboratorio d’analisi o a quella del chimico, i quali non devono limitarsi ad un mero pacchetto analitico predefinito ma devono cercare le possibili sostanze pericolose contenute nel rifiuto stesso. Come recita la Corte di Giustizia Europea, il detentore di un rifiuto che può essere classificato con codici speculari, ma la cui composizione non è immediatamente nota, deve, ai fini di tale classificazione, determinare detta composizione e ricercare le sostanze pericolose che possano ragionevolmente trovarvisi onde stabilire se tale rifiuto presenti caratteristiche di pericolo, e a tal fine può utilizzare campionamenti, analisi chimiche e prove previsti dal regolamento n. 440/2008 o qualsiasi altro campionamento, analisi chimica e prova riconosciuti a livello internazionale.
Pertanto l’attività del chimico/laboratorio d’analisi non è solo di tipo analitico ma anche peritale/consulenza.


Già nel 2015, ISPRA fornisce un parere sulla corretta classificazione dei rifiuti, in particolare sui rifiuti c.d. “voci specchio” evidenziando che è in capo al produttore la responsabilità della corretta classificazione del rifiuto prodotto sulla base dell’origine e della composizione dello stesso. I rifiuti a cui potrebbero essere assegnati codici pericolosi e non pericolosi (c.d. voci specchio) devono essere sempre valutati in relazione al loro contenuto di sostanze pericolose pertinenti che se, presenti in determinate concentrazioni, determinano l’attribuzione al rifiuto stesso di una o più caratteristiche di pericolo di cui all’Allegato III alla Direttiva 2008/98/CE.


Per effettuare la classificazione dei propri rifiuti, il produttore deve selezionare i parametri da analizzare partendo dalla conoscenza del processo che ha generato il rifiuto. Deve individuare le sostanze pericolose pertinenti la cui concentrazione deve essere valutata al fine di escludere la pericolosità del proprio rifiuto.
Quanto detto, evidenzia che, al fine di valutare se il rapporto di prova sia esaustivo per una classificazione del rifiuto di che trattasi, è necessario precisare che i referti analitici devono necessariamente essere accompagnati da una relazione tecnica esaustiva che consenta di conoscere le caratteristiche dei rifiuti in ingresso all’impianto, le fasi di processo, i flussi e le caratteristiche dei rifiuti e/o materiali prodotti.
Detta relazione risulta indispensabile per escludere eventuali elementi di pericolosità del rifiuto qualora lo stesso sia identificato da una voce specchio dell’elenco europeo dei rifiuti. Pertanto, classificare il rifiuto utilizzando solo i risultati di referti analitici, riferiti chiaramente ad un numero parziale di parametri, non costituisce un approccio metodologico corretto.

Secondo la Corte di giustizia Europea, il principio di precauzione deve essere interpretato nel senso che, qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di un rifiuto che può essere classificato sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere classificato come rifiuto pericoloso.

In conclusione, se dopo tutte le valutazioni e le ricerche del caso non si ha certezza di cosa contenga il rifiuto, lo stesso nel caso di c.d. voci specchio deve essere classificato e gestito come pericoloso.

pubblicato du Industrieambiente.it. Si ringrazia il dott. R. Mastracci