Consiglio di Stato Sez. III n. 9823 del 9 dicembre 2024
Urbanistica.Incremento del carico urbanistico
L’accertamento del maggior carico urbanistico, che giustifica la necessità del permesso di costruire e la corresponsione dei relativi oneri di urbanizzazione, assolve alla prioritaria funzione di compensare la collettività per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l'area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l'esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti. La nozione di cui si discute è dunque una nozione relazionale, e precisamente differenziale: l’incremento del carico urbanistico si accerta infatti in relazione ad un supposto aumento di esternalità negative, sull’area considerata, conseguente al mutamento di destinazione d’uso, rispetto agli effetti prodotti dalla destinazione precedente.
Pubblicato il 09/12/2024
N. 09823/2024REG.PROV.COLL.
N. 02119/2021 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2119 del 2021, proposto dal Comune di Seregno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giuseppe Franco Ferrari e Vincenzo Andrea Piscopo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Giuseppe Franco Ferrari in Roma, via di Ripetta n. 142;
contro
Associazione Anasr, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Vincenzo Latorraca, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Seconda) n. 2212/2020, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’ Associazione Anasr;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.;
Relatore all'udienza straordinaria del giorno 23 ottobre 2024 il Cons. Giovanni Tulumello, e uditi i procuratori delle parti come da verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con sentenza n. 523/2020 il T.A.R. della Lombardia, sede di Milano, ha accolto il ricorso proposto dall’Associazione ANASR per l’annullamento del provvedimento a firma del Dirigente Area servizi per il territorio, lo sviluppo economico e la cultura del comune di Seregno, prot. 65905, ord. n. 307, notificato il 19 dicembre 2019 avente ad oggetto “ordinanza di ripristino della destinazione d’uso. Immobile ad uso laboratorio artigianale sito in Seregno, via Milano, n. 3, fg. 41, mapp. 67, sub 512, p.t.”.
L’indicata sentenza è stata impugnata con ricorso in appello dal Comune di Seregno.
Si è costituita in giudizio, per resistere al ricorso, l’Associazione ricorrente in primo grado.
Il ricorso in appello è stato trattenuto in decisione all’udienza straordinaria del 23 ottobre 2024.
2. Il contenzioso oggetto della sentenza gravata concerne un immobile sito in Seregno, via Milano n. 3, avente destinazione di “laboratorio artigianale”.
L’Associazione appellata lo aveva acquistato nel luglio 2019, e ivi aveva allestivo il proprio “nuovo centro culturale”, prevedendone l’inaugurazione per il 21 settembre 2019.
Gli Agenti della Polizia Locale di Seregno eseguivano plurimi sopralluoghi presso l’immobile di via Milano, rilevando, in più occasioni, la presenza di adulti e bambini (di età ricompresa tra i 6 ed i 13 anni) dediti all’attività di studio.
Contestualmente, effettuavano alcuni rilievi fotografici constatando l’assenza, all’interno dell’immobile de quo, di qualsivoglia attrezzattura riconducibile ad attività produttiva o artigianale.
In data 18 dicembre 2019, il Dirigente dell’Area servizi per il Territorio del Comune adottava l’ordinanza n. 307, con la quale si contestava un abusivo mutamento di destinazione d’uso in assenza di opere edilizie e, per l’effetto, si intimava il ripristino della destinazione d’uso assentita ex art. 31 d.P.R. 381/2001.
La contestazione del mutamento di destinazione d’uso dell’immobile posta a fondamento di tale provvedimento muove dal rilievo che l’attività ivi svolta sarebbe “sintomatica dello svolgimento dell’attività tipica del centro culturale collegato alla diffusione della religione che l’art. 72 LR 12/2005 ammette solo previo rilascio dell’apposito permesso di costruire, a prescindere da fatto che non siano necessarie opere murarie”.
L’Amministrazione comunale ha inoltre ritenuto che l’afflusso non sporadico di persone accertato dalla Polizia locale comporterebbe un aumento degli standards e, quindi, una diversa rilevanza urbanistica.
3. Come accennato, il T.A.R. della Lombardia, con la sentenza gravata nel presente giudizio, all’esito di una articolata ed approfondita motivazione ha annullato tale provvedimento.
3.1. Il T.A.R. osserva innanzitutto come l’azione amministrativa di governo del territorio concernente diritti di rilievo costituzionale – ivi compresa la libertà religiosa, da intendersi come attività di promozione ed insegnamento del culto – dovesse improntarsi ai principi di proporzionalità ed adeguatezza.
Afferma poi come la libertà religiosa – così come riconosciuta e garantita dall’art. 19 della Costituzione – non tutelasse la sola dimensione metafisica ed individuale del fenomeno religioso, ma salvaguardasse anche la dimensione collettiva di tale libertà, avente per necessario presupposto non uno spazio metafisico bensì uno spazio fisico.
La sentenza osserva come – in relazione al caso di specie – l’azione amministrativa fosse venuta ad incidere su un bene (lo “spazio religioso”) oggetto della libertà costituzionale ivi considerata, trattandosi appunto dell’aspetto presupposto per l’esplicazione della dimensione collettiva e sociale del fenomeno religioso.
Aggiunge, in proposito, come lo “spazio religioso” – da intendersi appunto non solo come circoscritto agli edifici di culto ma esteso anche a qualsiasi altro luogo funzionale all’esercizio, alla promozione e all’insegnamento del culto – non costituisse soltanto un bene preservato da indebite ingerenze dei pubblici poteri ma fosse altresì oggetto di un obbligo positivo della Repubblica, chiamata a rimuovere eventuali ostacoli di ordine economico o sociale, in linea con la previsione di cui all’art. 3, comma 2, Cost.
3.2. Il T.A.R. si sofferma poi sull’individuazione di presupposti e limiti del potere pubblico volto a regolare il c.d. “spazio religioso”.
La sentenza richiama a tal fine i diversi livelli e profili involti nella nozione di “governo del territorio” di cui all’art. 117, comma 3, Cost., relativa a competenze legislative ed amministrative differenziate tra varie istituzioni della Repubblica, identificandosi in tale nozione anche il potere di delimitazione dello spazio religioso.
Si afferma così, al riguardo, come si trattasse di funzione che, osservata sotto il profilo amministrativo, si articolava attraverso i piani distinti della pre-pianificazione (intesa come il confronto preventivo alle decisioni urbanistiche e volta ad un governo “condiviso” del territorio che raccolga, componga e traduca le istanze degli interessati), della pianificazione, e, in ultimo, del potere comunale di controllo e verifica dell’utilizzo del territorio.
Un momento, quest’ultimo, di indubbia centralità, in quanto strumentale alla effettiva declinazione ed attuazione della libertà costituzionale in esame nel suo avvilupparsi con le altre situazioni soggettive che l’ordinamento riconosce e tutela.
3.3. Tanto premesso in termini generali, il T.A.R. ha ritenuto che l’articolo 52, comma 3-bis, della legge regionale della Lombardia n. 12/2005 (che richiede il rilascio del permesso di costruire in caso di mutamento della destinazione d’uso di un immobile finalizzato alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali) – che il Comune di Seregno ha invocato quale base normativa per l’esercizio del potere sfociato nel provvedimento impugnato – dovesse essere interpretato ed applicato non nel senso di ritenere il permesso di costruire necessario in ragione della sola attività religiosa esercitata nell’immobile: in tal caso, infatti, il potere amministrativo non sarebbe più risultato funzionale alle esigenze urbanistiche che legittimano e fondano l’intervento pubblico, ma sarebbe stato esercitato in funzione di controllo dell’attività religiosa, come tale contrario alla regola di cui all’art. 20 Cost.
Pertanto, al fine di ritenere rilevante tale previsione, era necessario che la fattispecie concreta imponesse effettivamente l’attivazione del potere di governo del territorio, ancorato al presupposto dell’incidenza e della rilevanza di una determinata attività sull’assetto territoriale di pertinenza.
In definitiva, doveva ritenersi condizione necessaria per l’operatività della norma e, di conseguenza, del potere amministrativo in esame, il riscontro di un effettivo e sostanziale incremento del carico urbanistico, e non già del mero mutamento c.d. funzionale della destinazione d’uso.
Per tali ragioni, si è ritenuto necessario un puntuale accertamento della situazione fattuale onde evitare che le esigenze urbanistiche astrattamente invocabili potessero divenire il viatico di indebite compromissioni delle libertà riconosciute sia ai singoli che alle formazioni sociali in situazioni nelle quali simili esigenze non fossero concretamente in discussione.
3.4. Di qui la necessità di prendere le mosse dall’accertamento istruttorio che il Comune aveva posto a sostegno del proprio provvedimento.
Sotto questo profilo la sentenza gravata ha rilevato che gli accertamenti compiuti dalla Polizia locale constatassero o la mancanza di attività in corso, o lo svolgimento di attività di studio ma non un effettivo incremento del carico urbanistico.
Ed invero, dalla disamina concreta delle relazioni di servizio, risultava chiara la sussistenza del deficit istruttorio lamentato dal ricorrente, irrilevante essendo la mera attività di promozione del centro svolta sui social media, che in quanto tale esprime un dato meramente potenziale circa un possibile incremento urbanistico e non di un dato reale e concreto.
Del pari, i verbali del 19 ottobre e del 2 e 23 novembre avevano accertato la presenza di alcuni adulti e di bambini intenti in attività di studio.
Anche tale circostanza non poteva, da sola, considerarsi sufficiente per inferire una sicura incidenza sul carico urbanistico.
3.5. Alla stregua di tali considerazioni, il T.A.R. ha tracciato il fondamentale discrimine tra luoghi nei quali si esercita la libertà costituzionale di culto in modo individuale o finanche “occasionalmente” collettivo, ivi comprese attività di studio o formazione religiosa, prive di un impatto urbanistico sul territorio e luoghi di culto collettivo, intimamente connessi alla libertà di riunione di cui all’art. 17 Cost., idonei a generare strutturalmente un carico urbanistico e quindi l’esigenza di standard legittimanti l’esercizio dei poteri di controllo.
Si è così ritenuta irrilevante ai fini urbanistici la circostanza che nella sede dell’associazione fosse stata occasionalmente riscontrata la presenza di “persone raccolte in preghiera” o, comunque, intente all’esercizio di forme partecipative del culto (ivi comprese attività di formazione, educazione o studio).
Accogliendo una diversa interpretazione, sarebbe stata infatti compromessa la dimensione sociale della stessa libertà religiosa individuale, comprensiva anche della partecipazione ai riti e alle varie forme di celebrazione del culto, tra cui appunto l’insegnamento volto ad accrescere la formazione dei giovani credenti e alla complessiva crescita culturale dei membri della comunità.
Richiamando l’unanime indirizzo giurisprudenziale, il TAR ha rilevato come il mutamento non autorizzato di destinazione d’uso, attuato senza opere, comportasse una c.d. variazione essenziale sanzionabile soltanto se ed in quanto incidente sul connesso carico urbanistico, ritenuta sussistente nel caso di afflusso (anche potenziale) generalizzato e periodico di una moltitudine di persone per ragioni di culto.
3.6. La decisione gravata chiarisce poi che la richiamata previsione di cui all’articolo 52, comma 3-bis, l. r. n. 12/2005 rinvenisse il proprio fondamento nell’esigenza di consentire all’Amministrazione comunale di controllare (ex ante) la conformità alla disciplina urbanistica delle strutture che, essendo suscettibili di richiamare un notevole afflusso di persone, comportino un conseguente notevole aggravio di carico urbanistico sul territorio.
In definitiva, si è ritenuto che difettasse – nel caso di specie – “il presupposto eidetico del potere urbanistico”, risultando quindi indebita la compressione delle attività svolte.
Parimenti, il TAR ha rilevato l’irrilevanza della circostanza – enfatizzata negli scritti difensivi finali dell’Amministrazione – relativa alla mancata iscrizione della ricorrente nell’elenco delle Associazione del terzo settore, non potendo quindi beneficiare delle prerogative previste (in materia di compatibilità della destinazione urbanistica) per tali soggetti dall’art. 71 del d.lgs. n. 117/2017.
Sul punto, si osservava come l’iscrizione nel registro anzidetto avesse, salvo particolari ipotesi di iscrizioni, valenza meramente dichiarativa e non costitutiva della qualifica di parte ricorrente come associazione di promozione sociale.
4. Il Comune di Seregno ha impugnato la richiamata sentenza deducendo “Error in iudicando ed erronea, carente e contraddittoria motivazione in punto di: violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 19 Cost., violazione e falsa applicazione della l. r. Lombardia n. 12/2005 con particolare riferimento agli artt. 52, 71 e 72; violazione e falsa applicazione del d.lgs. 117/2017, con particolare riferimento agli artt. 4 e 71; violazione e falsa applicazione del D.P.R. 380/2001 con particolare riferimento agli artt. 23 bis e 31. Erronea e contraddittoria motivazione in punto di: travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, eccesso di potere, sviamento, difetto di istruttoria e di motivazione. Difetto di motivazione”.
4.1. In primo luogo, l’appellante deduce che la motivazione adottata dal primo giudice risulterebbe gravemente contraddittoria, oltre che in aperto contrasto con la lettera dell’art. 52, comma 3-bis, l. r. n. 12/2005.
La disposizione de qua prevede infatti espressamente che “I mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire”.
Contrariamente a quanto sostenuto dal primo giudice, il gravame afferma che tale disposizione non limiti ex se il diritto costituzionale alla libertà di culto ma rimetta all’Amministrazione comunale – nell’esercizio della legittima e doverosa attività di governo del territorio – il compito di verificare preventivamente l’impatto di strutture destinate ad attrare un numero (potenzialmente) rilevante di persone, con evidente impatto urbanistico.
4.2. L’appellante deduce altresì come la motivazione addotta dal T.A.R. risulti carente e contraddittoria anche in punto di “difetto di istruttoria”.
Ed invero, si osserva come – sulla base dei plurimi elementi acquisiti dalla Polizia Locale – sia stato riscontrato l’abusivo mutamento di destinazione d’uso dell’immobile in oggetto in assenza di opere edilizie, appurando che “l’attività ivi svolta e riscontrata è sintomatica dello svolgimento dell’attività tipica di centro culturale collegato alla diffusione della religione”, ammessa – ai sensi dell’art. 52, comma 3-bis, l. r. 12/2005 – solo previo rilascio di apposito permesso di costruire.
Si afferma pertanto che, una volta accertato l’utilizzo dell’immobile quale centro di aggregazione per servizi religiosi, il Comune abbia doverosamente contestato e sanzionato l’abusivo mutamento di destinazione già concretizzatosi in spregio alla disposizione anzidetta.
Si osserva, al riguardo, che il primo giudice avrebbe invece travisato e finanche trascurato la pluralità di elementi su cui il Comune ha basato il proprio accertamento.
La Polizia Locale ha effettuato plurimi interventi e – in più occasioni – ha avuto modo di constatare, presso l’immobile di cui si discute, la presenza di diversi adulti e numerosi bambini in attività di studio.
Contestualmente, gli agenti della Polizia Locale hanno accertato l’assenza di qualsivoglia attrezzattura riconducibile ad attività produttiva e/o artigianale.
Inoltre, le diverse notizie reperite su vari siti internet hanno ulteriormente confermato l’utilizzo non occasionale dell’immobile in oggetto per incontri di carattere religioso, aperti a un numero anche rilevante di persone.
4.3. L’appellante lamenta ancora che la sentenza gravata sarebbe carente, erronea e comunque manifestamente contraddittoria anche in ordine alla presunta applicabilità dell’art. 71 D.lgs. n. 117/2017.
La predetta disposizione ha infatti introdotto una norma di particolare favore per gli “Enti del Terzo Settore”, statuendo che “le sedi degli enti del Terzo settore e i locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali, purché non di tipo produttivo, sono compatibili con tutte le destinazioni d’uso omogenee previste dal decreto del Ministero dei lavori pubblici 2 aprile 1968 n. 1444 e simili, indipendentemente dalla destinazione urbanistica”.
Si osserva, al riguardo, come lettera della norma presupponga espressamente, quale condizione per accedere al regime “agevolato” di cui all’art. 71 cit., l’iscrizione nel registro unico nazionale del Terzo
Settore: con la conseguenza che – difettando nel caso di specie la predetta iscrizione – l’Associazione ANASR non avrebbe potuto legittimamente invocare la disposizione de qua (rilievo, quest’ultimo, che sarebbe stato del tutto pretermesso dal primo giudice).
4.4. Nel quarto punto del ricorso in appello, erroneamente rubricato come quinto, l’appellante deduce infine che il T.A.R. avrebbe omesso di considerare come l’attuale destinazione dell’immobile di Via Milano, oltre ad essere diversa da quella assentita, non sia ammessa dal vigente Piano di Governo del Territorio (PGT).
Ed invero, l’immobile di cui si controverte è collocato in zona classificata dal PGT come “tessuto di espansione” con destinazione “ad uso produttivo”.
Si osserva sul punto come, in forza dell’art. 24 delle norme tecniche di attuazione del vigente PGT del Comune, nell’area in cui ricade l’immobile in esame – qualificata “micro tessuto produttivo” – non siano ammesse funzioni culturali e rappresentative.
Ciò nonostante, l’Associazione ha abusivamente mutato la destinazione d’uso dell’immobile, imprimendo allo stesso una destinazione non ammessa dal predetto Piano.
5. L’Associazione appellata ha resistito al gravame deducendone l’inammissibilità e comunque l’infondatezza nel merito.
6. Ritiene il Collegio che possa prescindersi dall’esame, in via preliminare, delle eccezioni sollevate in rito dalla parte appellata, in ragione della radicale infondatezza, nel merito, del ricorso in appello.
6.1. Va anzitutto rilevato che è pacifico, in punto di fatto, che l’Associazione appellata abbia realizzato un mutamento di destinazione d’uso solo funzionale (id est, non accompagnato dall’esecuzione di alcuna opera) dell’immobile in questione.
Dal che discende l’irrilevanza ai fini che qui interessano dei richiami, tanto nella motivazione del provvedimento comunale impugnato che negli argomenti di difesa dell’amministrazione appellante, al fatto che nel locale in questione non sono stati rinvenuti elementi di arredo o macchinari tali da testimoniare lo svolgimento di attività artigianale.
6.2. Un primo profilo controverso riguarda gli effetti di tale mutamento: se esso abbia comportato, o meno, una apprezzabile o significativa modifica del carico urbanistico nell’area interessata.
Sul punto la decisione gravata è esente dai vizi dedotti con il ricorso in appello: una attenta e serena lettura dei verbali della Polizia Locale posti a fondamento del provvedimento impugnato non può infatti che confermare quanto osservato dal T.A.R. – all’esito di una ricognizione analitica di ciascun verbale - in merito al fatto che “gli accertamenti compiuti dalla Polizia locale constatano o la mancanza di attività in corso (cfr. i verbali del 15 ottobre 2019 e del 9 novembre 2019) o lo svolgimento di attività di studio (cfr. i verbali del 19 ottobre 2019, del 5 novembre 2019 e del 23 novembre 2019)” ma non testimoniano un effettivo incremento del carico urbanistico nei termini sopra indicati”.
Rispetto a tale, obiettivo e fidefacente dato istruttorio i contrari rilievi dell’appellante poggiano su allegazioni in parte non rilevanti, e in parte non ricevibili.
Quanto al primo profilo, la circostanza che le attività ospitate presso la sede dell’Associazione siano state oggetto di pubblicizzazione allo scopo di invitare persone a parteciparvi non è evidentemente di alcun supporto rispetto alla dimostrazione dell’incremento di carico urbanistico, ove non sia stata accompagnata dall’effettivo rilievo di una reale partecipazione massiva conseguente a tali inviti: il che, come detto, non risulta essere avvenuto, posto che le risultanze e documentali obiettive acquisite agli atti lo escludono in modo inequivoco.
Quanto al secondo profilo, l’amministrazione appellante a supporto del gravame ha prodotto nel presente giudizio in data 12 settembre 2024 la Relazione di servizio della Polizia Locale di Seregno del 9 settembre 2024, che attesterebbe come la frequentazione del centro abbia in realtà tratti e caratteristiche da comportare un aumento del carico urbanistico.
Osta all’utilizzabilità di tale produzione – al di là della questione, di natura processuale, sollevata dalla parte appellata in relazione al divieto dei cc.dd. “nova” nel giudizio di appello: art. 104, comma 2, cod. proc. amm. - il rilievo che si tratta di attività istruttorie successive (peraltro, di circa cinque anni) all’adozione del provvedimento della cui legittimità si discute: e come tali del tutto irrilevanti, alla stregua del principio tempus regit actum, posto che detto scrutinio di legittimità va operato sulla base dello stato di fatto e diritto sussistente al momento della sua emanazione.
Il gravame non supera pertanto la coerente e documentata motivazione della sentenza gravata in punto di assenza di un incremento del carico urbanistico.
6.3. Oltre a tale - già dirimente e decisivo - rilievo, il Collegio non può fare a meno di rilevare un vizio logico nella prospettazione della parte appellata.
La giurisprudenza ha chiarito che l’accertamento del maggior carico urbanistico, che giustifica la necessità del permesso di costruire e la corresponsione dei relativi oneri di urbanizzazione, “assolve alla prioritaria funzione di compensare (….) la collettività "per il nuovo ulteriore carico urbanistico che si riversa sulla zona, con la precisazione che per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l'area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l'esigenza di utilizzare più intensamente quelle già esistenti" (v. Cons. Stato, sez.VI, 7 maggio 2015, n. 2294; id., 7 maggio 2018, n. 2694 e 29 agosto 2019, n. 5964 )” (Consiglio di Stato, sez. II, sentenza n. 5297/2022).
La nozione di cui si discute è dunque una nozione relazionale, e precisamente differenziale: l’incremento del carico urbanistico si accerta infatti in relazione ad un supposto aumento di esternalità negative, sull’area considerata, conseguente al mutamento di destinazione d’uso, rispetto agli effetti prodotti dalla destinazione precedente.
Nel caso di specie quest’ultima ha riguardo, come detto, ad un “laboratorio artigianale”: gli argomenti della parte appellante danno per scontato che tale attività ha o avrebbe prodotto un carico urbanistico certamente inferiore rispetto a quello conseguente all’attività dell’associazione appellata, posto che asseriscono la rilevanza differenziale di quelli registrati a seguito del nuovo uso in quanto tale, ma non in rapporto alla precedente (come accertata e documentata, o quanto meno anche solo oggettivamente valutata).
Sul punto il provvedimento impugnato in primo grado si limita ad affermare che “traspare una presenza di frequentatori costante e non sporadica nel tempo e non limitata ai soli membri dell’associazione”: tale motivazione, oltre a risultare contraddetta dalle richiamate risultanze istruttorie, è comunque strutturalmente carente perché esamina uno soltanto dei due termini del rapporto relazionale su cui potrebbe in tesi poggiare un provvedimento di tal fatta.
In altre parole, non è affatto scontato che il mutamento funzionale produca di per sé una variazione del carico urbanistico (specie se non si ha adeguata contezza del dato iniziale di raffronto), e soprattutto che la produca in peius.
Anche la giurisprudenza che ritiene che un mutamento funzionale “tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee” (Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 6562/2018) incida in quanto tale sul carico urbanistico, richiede infatti che il maggiore impatto così presunto sia comunque “da valutare in relazione ai servizi e agli standard ivi esistenti” (ferma restando, comunque, la difficoltà di qualificazione delle destinazioni che qui vengono in considerazione, in relazione alla disciplina portata dall’art. 23-bis del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, nel testo vigente ratione temporis) .
L’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato, nella sentenza n. 22 del 2021, ha espressamente indicato alcuni indici di mutamento del carico urbanistico in elementi non presuntivi, ma differenziali: richiedendo che “l'aumentato carico urbanistico” si manifesti “in termini di riduzione dei servizi pubblici, sovraffollamento, aumento del traffico”.
La sentenza n. 7261/2023 della VI Sezione di questo Consiglio di Stato ha chiarito che “per aumento del carico urbanistico deve intendersi tanto la necessità di dotare l'area di nuove opere di urbanizzazione, quanto l'esigenza di utilizzare più intensamente quelli esistenti” (nello stesso senso sez. II, sentenza n. 235/2022).
La necessità di un simile accertamento, effettivo e in concreto, è stata del resto già affermata in fattispecie identica (“mutamento di destinazione d'uso dell'immobile da produttivo-artigianale a luogo di culto”) da questo Consiglio di Stato, sez. VI, con la sentenza n. 1684 del 2016, che il Collegio condivide, la quale ha tra l’altro posto l’accento sulla necessaria verifica di elementi oggettivi di riscontro del “mutamento del carico urbanistico della zona conseguente all'attività esercitata all'interno del capannone dall'Associazione” (nello stesso senso, sempre nella medesima materia, Consiglio di Stato, sez. VI, ordinanza n. 238/2020).
6.3.1. D’altra parte, sostenere – presuntivamente - che un mutamento categoriale disomogeneo importi di per sé una variazione del carico urbanistico, in assenza di una verifica della stessa (finanche nella sua dimensione incrementativa, o nel suo contrario), vanificherebbe il regime di liceità del mutamento senza opere, che può ritenersi inerente al diritto del proprietario (salvo che sia espressamente vietato dalla disciplina di piano: sul punto, con specifico riferimento al caso di specie, si rinvia all’esame dell’ultimo motivo) in quanto non incida negativamente sugli interessi della collettività ad un ordinato assetto del territorio ai quali è preordinata la disciplina urbanistica (verifica, quest’ultima, da compiersi attraverso un riscontro delle effettive conseguenze sul carico urbanistico, sorretto da adeguato supporto istruttorio e connotato da un non irrazionale confronto relazionale).
La richiamata giurisprudenza sulla liceità del mutamento funzionale che non comporti incremento del carico urbanistico si ispira infatti alla logica di contemperare l’esercizio delle facoltà edificatorie connesse al diritto dominicale, costituzionalmente tutelato, con la tutela degl’interessi pubblici ad un armonico sviluppo territoriale, che nel disegno costituzionale costituisce un limite al ridetto esercizio, proporzionato al corrispondente sacrificio: giacché laddove non venga “realizzata alcuna opera edilizia né alcuna trasformazione rilevante, il mutamento d'uso costituisce espressione della facoltà di godimento, quale concreta proiezione dello ius utenti, spettante al proprietario” (Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza n. 1684 del 2016, cit.).
Nello stesso senso la sentenza n. 3803/2020 ha chiarito che “ai sensi dell'art. 32, comma 1, lett. a), del D.P.R. n. 380 del 2001, il mutamento di destinazione d'uso non autorizzato e attuato (come nella specie) senza opere, dà luogo a una c.d. variazione essenziale sanzionabile, se e in quanto implichi una modifica degli standards previsti dal D.M. 2 aprile 1968, ossia dei carichi urbanistici relativi a ciascuna delle categorie urbanistiche individuate nella fonte normativa statale in cui si ripartisce la c.d. zonizzazione del territorio. In caso contrario, non essendo stata realizzata alcuna opera edilizia né alcuna trasformazione rilevante, il mutamento d'uso costituisce espressione della facoltà di godimento, quale concreta proiezione dello ius utendi, spettante al proprietario o a colui che a titolo a godere del bene”.
Il punto di equilibrio di tale delicato bilanciamento risiede proprio nella valutazione dell’impatto urbanistico del mutamento funzionale: ove si rimuovesse – su di un piano di effettività - tale elemento, dandolo per scontato per il sol fatto di un mutamento categoriale della destinazione, ovvero limitando acriticamente il relativo accertamento asseritamente incrementativo alla (sola) verifica della situazione ex post (priva di rilievo comparativo con le esternalità proprie della originaria destinazione), si finirebbe con il comprimere il diritto di proprietà edilizia in assenza di una giustificata e proporzionale tutela di interessi urbanistici.
Del resto ciò è confermato dalla struttura motivazionale dello stesso provvedimento del Comune di Seregno impugnato in primo grado: che risulta motivato non già in relazione al mero rilievo del cambio di destinazione, bensì con riferimento agli accertamenti della Polizia Locale che, in concreto, avrebbero accertato un consequenziale aumento del carico urbanistico (conclusione peraltro fondatamente esclusa, nel merito, dalla sentenza gravata).
6.4. Una volta acclarato che non risulta accertato che il mutamento funzionale della destinazione d’uso abbia ha prodotto alcun significativo (nei termini sopra precisati) mutamento di carico urbanistico sull’area interessata, si pone il problema del regime della relativa attività e del titolo della stessa.
Essa, com’è noto, in base alla pacifica giurisprudenza che si è poco sopra richiamata, è attività lecita, e non richiede alcun particolare titolo edilizio.
Nella specifica fattispecie dedotta non può avere un diverso rilievo l’applicazione della norma regionale di cui art. 52, comma 3-bis, l. r. Lombardia n. 12/2005, secondo la quale “I mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche non comportanti la realizzazione di opere edilizie, finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali, sono assoggettati a permesso di costruire”.
Questa, infatti, come esattamente colto dal primo giudice, ove interpretata nel senso ritenuto dal Comune appellante, attribuirebbe all’amministrazione un potere di controllo finalizzato in realtà non già alle esigenze urbanistiche, ma all’attività religiosa, in aperto contrasto con l’art. 20 della Costituzione, secondo l’esegesi che di tale disposizione ha reso la Corte costituzionale (in disparte l’ulteriore e concorrente profilo della possibile violazione del riparto di competenze legislative da parte del legislatore regionale).
Il Collegio ritiene preferibile tale interpretazione – peraltro già affermata dal T.A.R. per la Lombardia, sede di Milano, nella sentenza n. 1269 del 2020, passata in autorità di cosa giudicata a seguito della sentenza di questo Consiglio di Stato n. 1379 del 2023 - rispetto a quella più risalente, fatta propria da questo Consiglio di Stato, sez. IV, con la sentenza n. 5778 del 2011.
6.5. Il Comune appellante critica la sentenza gravata affermando che “ la lettera della norma (…) – lungi dall’introdurre indebite limitazioni alle indiscusse libertà di culto – persegue, nell’interesse collettivo, finalità di matrice chiaramente urbanistica. (…..) , il “controllo preventivo” imposto dal Legislatore all’art. 52 comma 3 bis cit. non incide sulle libertà di culto consacrate dall’art. 19 della Costituzione ma risponde all’esigenza di garantire, nell’interesse pubblico, l’idoneità e l’adeguatezza dei luoghi destinati ad attrarre un numero rilevante di persone (con, potenziale, aggravio di carico urbanistico)”.
Una simile prospettazione prova troppo: se, infatti, la finalità della norma regionale in questione fosse quella – urbanistica - di garantire che le attività di culto vengano allocate sul territorio comunale in modo da non produrre un aggravio del carico urbanistico, sarebbe sufficiente che le stesse rimangano soggette al regime ordinariamente previsto per i mutamenti funzionali della destinazione d’uso (come ha infatti statuito il T.A.R.).
In questi termini la ragionevole esigenza di regolare l’insediamento sul territorio dei luoghi di culto non è incompatibile con la libertà di culto costituzionalmente garantita: la frizione, con violazione del parametro costituzionale, si avrebbe invece laddove si pretenderebbe di interpretare tale disposizione nel senso di un regime penalizzante rispetto a quello generale, ordinariamente volto alla (reale ed effettiva) verifica di compatibilità dell’esercizio della proprietà edilizia con gli interessi pubblici sottesi alla pianificazione urbanistica, in relazione al carico urbanistico generato.
Si tratterebbe di un’applicazione irragionevole, discriminatoria e lesiva del principio di uguaglianza.
Onde evitare un’applicazione della disposizione contrastante con i relativi parametri costituzionali, l’interpretazione adeguatrice ritenuta dal T.A.R. è l’unica praticabile, e comunque non risulta superata, per le indicate ragioni, dal relativo motivo di appello.
È fuori di dubbio che, come affermato in sede di discussione dal difensore del Comune appellante, la libertà religiosa deve potersi svolgere nell’osservanza anche degli adempimenti di natura urbanistica: ma è altrettanto incontestabile che non possono ipotizzarsi adempimenti ingiustificatamente penalizzanti e sproporzionati rispetto a quelli ordinariamente individuati come limite all’esercizio della proprietà edilizia.
7. Alla luce delle considerazioni che precedono i residui profili del ricorso in appello perdono di rilevanza: risulta infatti la fondatezza del ricorso di primo grado e l’inesistenza dei dedotti vizi della sentenza che lo ha accolto per la dirimente ragione che l’amministrazione appellante ha esercitato un potere in assenza dei relativi presupposti, secondo un’esegesi della norma attributiva di tale potere non consentita dalla necessità di praticare un’applicazione della stessa conforme a Costituzione.
In ogni caso può sinteticamente [art. 3, comma 2; art. 88, comma 2, lett. d), cod. proc. amm.] osservarsi:
- nessuna contraddittorietà affligge la sentenza gravata laddove ha rilevato il difetto di istruttoria del provvedimento comunale (che anzi risulta per tabulas): la contraria prospettazione dell’appellante muove infatti dalla rilevata erroneità del presupposto interpretativo relativo all’applicazione del citato art. 52, comma 3-bis, l.r. n. 12/2005, e dalla conseguente affermazione del rilievo ex se del mutamento di destinazione d’uso, per cui sarebbe bastato dimostrare una destinazione diversa da quella artigianale per legittimare l’adozione del provvedimento (affermazioni di cui si è chiarita l’infondatezza);
- l’iscrizione dell’associazione appellata nell’elenco delle Associazione del terzo settore non ha rilevanza, posto che la stessa era stata invocata dal Comune di Seregno nel giudizio di primo grado per sostenere che la ricorrente non poteva “beneficiare delle prerogative previste per tali soggetti”: in disparte il condivisibile rilievo del primo giudice circa la natura dichiarativa e non costitutiva di tale iscrizione, il primo comma dell’art. 71 del d. lgs. n. 117 del 2017 stabilisce che “Le sedi degli enti del Terzo settore e i locali in cui si svolgono le relative attività istituzionali, purché non di tipo produttivo, sono compatibili con tutte le destinazioni d'uso omogenee previste dal decreto del Ministero dei lavori pubblici 2 aprile 1968 n. 1444 e simili, indipendentemente dalla destinazione urbanistica”, ancorando dunque la valutazione legale di compatibilità non già ad un requisito formale quale l’iscrizione, bensì all’elemento sostanziale della qualificazione dell’ente e dell’attività dallo stesso svolta; in ogni caso la censura è viziata da erroneità del presupposto interpretativo, in quanto muove dalla premessa – della cui infondatezza si è già detto – per cui “il comportamento contestato, urbanisticamente rilevante, nel caso di specie è l’abusivo mutamento di destinazione d’uso dell’immobile in difetto del permesso di costruire all’uopo prescritto”;
- la questione della compatibilità o meno dell’attività in questione con il vigente Piano di Governo del Territorio non ha costituito oggetto della sentenza impugnata, essendo stata dichiarata assorbita; il relativo motivo di appello è inammissibile per carenza d’interesse, posto che gli elementi indicati nel senso dell’infondatezza degli altri motivi esaminati sono autosufficienti per la conferma della sentenza di annullamento del provvedimento comunale perché illegittimo; in ogni caso il mezzo risulta altresì infondato in quanto l’art. 24 delle norme tecniche di attuazione non ha espressamente escluso le attività culturali dal novero delle attività ammissibili: né tale incompatibilità può inferirsi – soltanto per implicito: come riconosciuto a pag. 19 del ricorso in appello - dal generico riferimento alle attività terziarie, che assume un significato propriamente legato ad attività suscettibili di rilevanza economica, e dunque tale da non includere le attività culturali o quelle legate al culto.
8. La presente decisione è stata assunta tenendo conto dell'ormai consolidato "principio della ragione più liquida", corollario del principio di economia processuale (cfr. Cons. Stato, Ad. pl., 5 gennaio 2015, n. 5, nonché Cass., Sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242), che ha consentito di derogare all'ordine logico di esame delle questioni e tenuto conto che le questioni sopra vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., Sez. II, 22 marzo 1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., Sez. V, 16 maggio 2012, n. 7663, e per il Consiglio di Stato, Sez. VI, 19 gennaio 2022, n. 339), con la conseguenza che gli argomenti difensivi non accolti e ciononostante non espressamente richiamati – in ossequio al principio di sinteticità di cui all’art. 3, comma 2, cod. proc. amm. - sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione, in ragione dell’economia della stessa, e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Dalle considerazioni che precedono discende che l’appello è infondato e che va pertanto respinto, con conferma della sentenza di primo grado qui gravata.
Sussistono, nondimeno, giusti motivi legati alla peculiarità della vicenda sottesa al presente contenzioso per disporre, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., per come espressamente richiamato dall’art. 26, comma 1, c.p.a, l’integrale compensazione delle spese del presente grado di giudizio tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 ottobre 2024 con l'intervento dei magistrati:
Oreste Mario Caputo, Presidente FF
Raffaello Sestini, Consigliere
Giovanni Tulumello, Consigliere, Estensore
Ugo De Carlo, Consigliere
Roberto Michele Palmieri, Consigliere